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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Che cosa hai fatto, di Milvia Comastri 06/03/2010
 

Che cosa hai fatto

di Milvia Comastri

 

 

E' dopo che lei ha pronunciato quei quattro nomi che il prete avvicina il  viso al suo, le mette una mano sul braccio e glielo stringe, lo artiglia con quelle dita secche, che a Lena, proprio ora, fanno venire alla mente le zampe di un uccello rapace.

“E tu che cosa hai fatto?” chiede  “Li hai provocati, vero?”  L'uomo la guarda negli occhi, uno sguardo colmo d'ira, o forse è soltanto paura, pensa Lena. La ragazza avverte l'odore del fiato di don Luigi, un odore guasto, come di fiori macerati.  Sente salirle in bocca un fiotto acido, vorrebbe urlare, gridargli che lei non ha fatto niente, aveva solo tredici anni, allora. Ma sa che se aprisse la bocca vomiterebbe.  Divincola il braccio dalla stretta del prete, gira le spalle all'altare, e corre verso l'uscita della chiesa.

Fuori c'è un sole che abbacina. Lena socchiude gli occhi, tira un sospiro lungo, ricaccia la nausea giù, in fondo, da dove era salita.

“Io che cosa ho fatto?” si chiede mentre attraversa la piazza e come in un sogno sente le grida dei bambini che stanno giocando sul sagrato, lo scroscio dell'acqua della fontana, la risata acuta di una donna.

“Io che cosa ho fatto?”

Aveva seguito il ragazzo, ecco cosa aveva fatto. Il più bello del paese, il più affascinante, il più figo, come dicevano le sue amiche, che l'aveva avvicinata un pomeriggio, mentre lei tornava da scuola. Ehi, ragazzina, le aveva detto, sai che ti sei fatta proprio bella. E lei, che bella non si vedeva affatto, si era specchiata in quegli occhi scuri e si era scoperta bellissima.  C'erano stati altri pomeriggi, altre frasi che le mandavano il cuore giù, a picco nello stomaco, come quando, alla sagra di San Michele, saliva sulle montagne russe. E lui aveva cominciato a entrare nei suoi sogni, e il pensiero dell'incontro  rendeva interminabili le ore di scuola, e gli odori della primavera sembravano più intensi, e le canzoni che ascoltava, canzoni d'amore, sembravano scritte solo per lei. Ecco perchè l'aveva seguito alle grotte, per placare la fame che aveva di lui, del suo odore, della sua voce che le  lambiva la pelle come lingue di fuoco,  di quel suo sguardo che la spogliava da tutte le insicurezze di adolescente goffa.

Aveva cancellato tutto, per anni. Aveva cancellato dalla sua mente l'orrore di quel pomeriggio di inizio estate,  aveva cancellato l'immagine delle braccia che l'avevano inchiodata sull'umido terreno della grotta,  gli ansiti  bestiali che avevano sfregiato il silenzio, il dolore fisico che le aveva invaso il corpo, e l'altro dolore, più intenso, spaventoso, che aveva travolto e ucciso la sua innocenza.

Quando li incontrava, lui e i suoi tre amici, provava un fastidio cui non sapeva attribuire una ragione. Sentiva come un freddo improvviso, che le faceva accelerare il passo e affossare la testa nelle spalle.

 

Lena si siede su una delle panchine che l'amministrazione comunale ha fatto mettere sul belvedere. Da lì la vallata si mostra in tutta la sua bellezza. In fondo, sfumate di delicato azzurro, altre montagne. Viene sempre qui, quando deve pensare, quando deve prendere una decisione. Guarda le montagne lontane, socchiudendo gli occhi e cerca di farsi pervadere dalla serenità che il paesaggio emana. Lo ha fatto anche ieri. Dopo che ha visto quei quattro uscire dalla grotta mentre si assestavano i pantaloni, e, dopo poco, Angela, la figlia degli Esposito, uscire anche lei, vacillante, una mano sul ventre, l'altra a mezz'aria, come a cercare un sostegno.  E' stato in quel momento che le è ritornato tutto in mente. Non era più Angela, la ragazzina smarrita che stava dirigendosi verso il paese, ma lei stessa, sei anni prima. Per un attimo una cortina nera le è scesa davanti agli occhi, ha sentito le gambe che si piegavano, ma si è ripresa subito. Ha raggiunto Angela, le ha messo una mano sulla spalla: Angela, ha detto piano, cosa ti hanno fatto?

La ragazzina si è girata, l'ha guardata con occhi da animale ferito. Niente, ha ringhiato. Non mi hanno fatto niente. Lasciami in pace. Poi è corsa via, e di lei sono rimaste solo le impronte degli zoccoli sul terreno polveroso, e il suono di quel ringhio disperato.

Più tardi, seduta sulla panchina del belvedere, Lena ha deciso: domani dirà tutto a Don Luigi, gli dirà di sei anni fa, e di Angela, gli dirà. E farà i loro nomi.

Quei nomi, i nomi dei quattro stupratori, sono molto conosciuti, in paese. Le loro famiglie, in paese, fanno il buono e cattivo tempo. Famiglie di rispetto, sono, quelle cui appartengono i quattro bastardi. Famiglie che, in quel paese, tengono in pugno il destino di molti, di tutti. E i loro figli vengono, da tutti, considerati intoccabili. Ma a Lena non importa. Ha cieca fiducia in Don Luigi. Lui saprà quello che c'è da fare.

 

Ma non è stato così, pensa Lena. E quasi le viene da ridere, se ripensa alla fiducia che riponeva nel prete. Bisogna trovare un'altra soluzione, pensa.

L'azzurro delle montagne si è stemperato in un colore di oro antico. E'il tramonto quando Lena si alza dalla panchina e si avvia verso la caserma dei carabinieri.

 

Il carabiniere che prende la sua denuncia è uno del nord, avrà più o meno l'età di Lena.  A mano a mano che lei racconta, lo sguardo del ragazzo si incupisce. Che brutta storia, pensa. Povera ragazza. Le crede, crede in tutto quello che lei dice: quegli occhi, così duri, pensa, non possono mentire.  Li andrà a prendere personalmente, quegli animali.

 

La voce si sparge in fretta. Arriva anche la televisione  che riprende i quattro che escono dalla caserma, il loro atteggiamento strafottente, gli applausi di qualcuno, il silenzio di altri, l'abbraccio delle loro madri. Angela che dice che quella si è inventata tutto, che quei ragazzi sono dei bravissimi ragazzi, e che lei sono mesi che non passa davanti alle grotte.

 

La madre di Lena sono due giorni che piange e ripete: cosa hai fatto cosa hai fatto cosa hai fatto. Come una cantilena. Ci fosse ancora tuo padre, dice anche, saprebbe lui come raddrizzarti.

 

Lena esce di casa. Non sente niente, dentro. Né indignazione, né scoramento, né rabbia. E' come se fosse morta. Cammina senza neppure sapere dove sta andando. Si accorge di essere davanti al bar del paese solo perché sente una voce d'uomo che le grida puttana, seguita da risate e fischi. Non si ferma, non risponde, tiene la testa alta, sente qualcosa di bagnato che le arriva nel mezzo della schiena. Uno sputo, pensa, ma non avverte neppure una briciola di schifo.

Va ancora avanti, fino al negozio del tabaccaio. Poi decide di rientrare.

 

Le quattro donne l'aspettano vicino a casa, là dove si apre una breve galleria che porta alla scuola elementare. La trascinano lì dentro, e la volta della galleria amplifica le loro voci:

Puttana, gridano, e intanto l'hanno buttata a terra, e arrivano colpi sulla testa, sul viso, e calci nella pancia, e gridano, che cosa hai fatto che cosa hai fatto, che cosa hai fatto, volevi rovinare i nostri figli, puttana, puttana. Gridano e graffiano, gridano e picchiano. 

Fino a quando lei non sente più niente.

 

Si è trascinata fino al portone di casa, ha salito le scale, le ci è voluto un secolo, ogni gradino una freccia che le si pianta nel corpo, il respiro un rantolo.

La madre apre la porta nell'istante in cui lei sta per suonare il campanello.

“Lena!” urla. E poi, in un bisbiglio:

“ Che cosa ti hanno fatto, figlia mia?”.

 

 

 
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