Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  I maestri della poesia  »  Fantasmi autunnali, di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi 09/10/2017
 

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Genova, 6 gennaio 1871 – Genova, 3 agoston1919). Per certi aspetti può essere considerato un precursore di Eugenio Montale e di Camillo Sbarbaro, ma, poiché la sua vita, abbastanza breve, è risultata a cavallo di due secoli, nella sua poesia ci sono inevitabili riflessi di tormenti decadenti che rimandano a Pascoli, a D’Annunzio, ma soprattutto ai simbolisti francesi, in particolare Verlaine e Rimbaud. Peraltro le sue opere mostrano una costante condizione di disagio derivante dalla vita sregolata che conduceva, una sofferenza interiore che rasenta l’autodistruzione e che è possibile verificare anche nella poesia che segue, con un autunno descritto sì mirabilmente, ma che è pure metafora di un tormento straziante che prorompe dal fondo con una forza quasi carducciana.





Fantasmi autunnali

di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi





Ecco la morte, o cuore; non senti l'autunno che viene
e in man la falce tiene pei sogni e per l'amore?
ecco: già invade i giardini tra un'onda di nebbia, le spalle
cariche di farfalle morte e di gelsomini.
E invade le colline dal culmine d'oro sognante
sul glauco ciel tramante di guazze settembrine.
Oh strade di campagna ne l'ombra dei vespri perdute.
pallide strade mute, dove la pioggia stagna,
ed egli va, a passo lento, le siepi e le rame spogliando
foglia a foglia strappando, fra un singhiozzar di vento!
Già dentro l'umida pieve, nel'albe tra file di ceri
(fuori i cipressi neri tremano al rezzo greve)
scende il pievan di velluto vestito d'or (una squilla
pianger rauca, oscilla, fuori sul borgo muto)
e dice ai morituri: la morte sentite? oh, pregate
per quante son passate, bimbe, gigli sui muri,
pregate pace per quanti mai più tornan dai profondi
capi brinati e biondi, bocche e cuor, palpitanti!
Tu dolce amor lo sai e pensi: l'autunno già viene
e in man la falce tiene: non tornerò più mai.
Che importa se maggio inonda di petali rossi e niveali
gli orti, e di frulli d'ali? Se d'un riso di bionda
luce, le case inonda? Le rose, a novembre, un dì morte,
non sono mai risorte su da la nebbia fonda!
Oh quando batton l'ore dei tristi adii supremi
non vale, o cuor, se gemi, non val se piangi, amore,
un gel di morte ne invade ed ogni sogno si sfoglia:
perfin l'ultima foglia de la speranza cade!
Le mani strette ai miti colloqui, le bocche tra baci,
i volti che di paci rosee il sol ha fioriti
stan larve taciturne in fondo all'anima quali
posano nei ducali orti, tra fonti ed urne
(e dietro sfuman scene di pallida luce soffuse)
l'iddie pagane schiuse le forme al ciel, serene
offron quelle bellezze antiche cullate su l'anche
l'agili membra bianche, nido di tenerezze;
ma sotto il marmo langue la vita (che freddo!) e l'ondate
sue tiepide e rosate mai più vi slancia il sangue.






 
©2006 ArteInsieme, « 014061800 »