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  Scritti di altri autori  »  I maestri della poesia  »  Una luce, di Pier Paolo Pasolini 04/02/2012
 

Il rapporto fra figlio e madre in Pasolini è particolarmente intenso, perché della sua famiglia non resta che lei, con il padre morto e il fratello ucciso dai tedeschi. C'è un'accorata rassegnazione per quella solitudine che li unisce, per quel domani senza speranza, per quell'eterno che li accomunerà senza pace, per quella vita vissuta incompiutamente.

 

 

Una luce

di Pier Paolo Pasolini



È una povera donna, mite, fine,
che non ha quasi coraggio di essere,
e se ne sta nell'ombra, come una bambina,
coi suoi radi capelli, le sue vesti dimesse,
ormai, e quasi povere, su quei sopravvissuti
segreti che sanno, ancora, di violette;
con la sua forza, adoperata nei muti
affanni di chi teme di non essere pari
al dovere, e non si lamenta dei mai avuti
compensi: una povera donna che sa amare
soltanto, eroicamente, ed essere madre
è stato per lei tutto ciò che si può dare.
La casa è piena delle sue magre
membra di bambina, della sua fatica:
anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime
coprono ogni cosa: e una pietà così antica,
così tremenda mi stringe il cuore,
rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita.

Tutto intorno ferocemente muore,
mentre non muore il bene che è in lei,
e non sa quanto il suo umile amore,
poveri, dolci ossicini miei
possano nel confronto quasi farmi morire
di dolore e vergogna, quanto quei
suoi gesti angustiati, quei suoi sospiri

nel silenzio della nostra cucina,
possano farmi apparire impuro e vile...
In ogni ora, tutto è ormai, per lei, bambina,
per me, suo figlio, e da sempre, finito:
non resta che sperare che la fine
venga davvero a spegnere l'accanito
dolore di aspettarla. Saremo insieme,
presto, in quel povero prato gremito
di pietre grige, dove fresco il seme
dell'esistenza dà ogni anno erbe e fiori:
nient'altro ormai che la campagna preme
ai suoi confini di muretti, tra i voli
delle allodole, a giorno, e a notte,
il canto disperato degli usignoli.
Farfalle e insetti ce n'è a frotte,
fino al tardo settembre, la stagione
in cui torniamo, lì dove le ossa
dell' altro figlio tiene la passione
ancora vive nel gelo della pace:
vi arriva, ogni pomeriggio, depone
i suoi fiori, in ordine, mentre tutto tace
intorno, e si sente solo il suo affanno,
pulisce la pietra, dove, ansioso, lui giace,
poi si allontana, e nel silenzio che hanno
subito ritrovato intorno muri e solchi,

si sentono i tonfi della pompa che tremando
lei spinge con le sue poche forze,
volenterosa, decisa a fare ciò che è bene;
e torna, attraversando le aiuole folte
di nuova erbetta, con quei suoi vasi pieni
d'acqua per quei fiori. Presto
anche noi, o dolce superstite, saremo
perduti in fondo a questo fresco
pezzo di terra; ma non sarà una quiete
la nostra, ché si mescola in essa
troppo una vita che non ha avuto meta,
Avremo un silenzio stento e povero,
un sonno doloroso, che non reca
dolcezza e pace, ma nostagia e rImprovero,
la tristezza di chi è morto senza vita:
se qualcosa di puro, e sempre giovane,
vi resterà, sarà il tuo mondo mite,
la tua fiducia, il tuo eroismo:
nella dolcezza del gelso e della vite
o del sambuco, in ogni alto o misero
segno di vita, in ogni primavera, sarai
tu; in ogni luogo dove un giorno risero,
e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai
la purezza, l'unico giudizio che ci avanza,
ed è tremendo, e dolce : che non c'è mai

disperazione senza un po' di speranza.

 

 

 

 
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