Carlo Bordoni (Carrara,
1946) è docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
all'Università di Firenze. Ha insegnato all'Istituto Universitario Orientale di
Napoli e allo IULM di Milano. È stato direttore dell'Accademia di Belle Arti di
Carrara dal 1990 al 2003.
Nella narrativa ha
esordito nel 1965 con il romanzo giovanile L'ultima frontiera e, negli
ultimi anni, ha pubblicato Il nome del padre (Baroni, 2001) e "Istanbul Bound" (Tabula Fati, 2007).
Fra le altre sue
pubblicazioni ricordiamo Introduzione alla sociologia della letteratura (Pacini, 1974), La pratica sociale del testo (Clueb, 1981), La paura il mistero l'orrore dal romanzo
gotico a Stephen King (Solfanelli, 1989), La fabula bella. Una lettura
sociologica dei Promessi Sposi (Solfanelli, 1991), Il romanzo di
consumo (Liguori, 1993), l'antologia di racconti
Cuori di tenebra (Solfanelli, 1993), Conversazioni
sul vampiro (Neopoiesis, 1995), Stephen
King (Liguori, 2002), l'antologia Linee d'ombra (Pellegrini,
2004), Le scarpe di Heidegger (Solfanelli,
2005),
Introduzione alla
sociologia dell'arte (Liguori, 2005), Il testo
complesso (Clueb, 2005).
Perché scrivi?
Per il piacere di scrivere. Lo so che è una
spiegazione tautologica, ma è così. Alla base c'è un sano egoismo di chiarirsi
le cose e crogiolarsi nei proprio pensieri.
Alla base di tutte le tue
opere c'è un messaggio che intendi rivolgere agli altri?
Un messaggio direi
proprio di no. Forse, come in tutti gli scrittori,
c'è il desiderio inconscio di essere riconosciuto. Nel mio caso prevale il
desiderio di raccontare per il puro piacere di raccontare. Ho iniziato da
piccolo a inventare storie interminabili e fantastiche che dispensavo
(oralmente) a puntate ai miei compagni di scuola. Il passaggio alla scrittura è
stato automatico, anche se più faticoso. Ma necessario, per ricordare nel
tempo. La narrativa orale, lo scoprii subito, aveva
grossi difetti di mantenimento e di stabilità.
Ritieni che leggere sia
importante per poter scrivere?
È banale, ma purtroppo è vero. Aggiungerei, tuttavia, che è
altrettanto importante… scrivere. Nel senso che, se non si continua a scrivere
con regolarità, si finisce per farlo con crescente difficoltà. I latini, forse
proprio per questo, suggerivano una ginnastica mentale, “nulla dies sine linea”.
Che cosa leggi di solito?
Qualsiasi cosa mi
attragga. Romanzi, soprattutto. Ci sono dei periodi, però, nei quali non leggo
narrativa e mi concentro sulla saggistica. Per ragioni di studio. Allora tutto
il tempo va dedicato alla lettura di acquisizione, che è più lunga e faticosa,
ma premiante. Fa aumentare la conoscenza, sviluppare la riflessione. Elaborare
i concetti migliora la propria capacità espressiva, affina lo stile, perfeziona
la capacità di sintesi, che è una qualità essenziale per chi scrive (ma anche
per chi parla!).
Quando hai iniziato a
scrivere?
Prestissimo. Forse già alle elementari, dove
confezionavo giornalini per gli amici. Ho pubblicato il primo romanzo a 19
anni: una storia di fantascienza assai improbabile, che fu presa seriamente in
considerazione dalla collana “Cosmo” dell'editore Ponzoni
di Milano. S'intitolava “L'ultima frontiera” e la pubblicai sotto pseudonimo,
perché a quell'epoca gli scrittori di fantascienza e
di gialli non potevano essere italiani. Per avere credibilità bisognava avere
un nome inglese o almeno straniero.
I tuoi rapporti con
l'editoria.
Tasto
dolente! Penso che tutti gli scrittori abbiano avuto problemi con gli editori.
Ho la netta impressione che sia diventato sempre più
difficile pubblicare. Quasi impossibile, con i grossi editori. Per motivi che
spesso non hanno a che fare con la qualità del testo. La cosa strana è che il
numero dei libri è aumentato vertiginosamente. L'Italia è un paese particolare,
dove si lamenta che i lettori sono pochi e poi si stampano tante cose inutili.
E dove non esiste una tradizione di professionalità, come negli Stati Uniti. Da
noi scrivere è ancora considerato un passatempo, più che un lavoro, e come tale
non remunerato. L'assenza di agenti letterari la dice lunga su questo aspetto,
perché lascia lo scrittore da solo a lottare contro un sistema che lo vede più
come un seccatore che un valore potenziale. Oggi la creatività in letteratura è
considerata poco meno di niente, rispetto ad altre forme espressive meno impegnative,
ma più spettacolari, più attraenti per il grande pubblico.
Che cosa ti piacerebbe
scrivere?
Molte cose. Certe volte penso di non aver
ancora cominciato a fare sul serio. Sto lavorando attorno agli anni Trenta, un
periodo che mi affascina, anche se non l'ho vissuto personalmente (o forse
proprio per questo). Dopo Istanbul Bound, ho in mente altri due romanzi
ambientati nello stesso periodo. Il
manoscritto di Menard, che riprende la figura dello scrittore
immaginario creato da Borges, e Il cuoco di Mussolini, in cui torna
invece un protagonista adolescente: quasi un romanzo di formazione, un'ucronia, dove però l'evento ipotetico è, in fondo,
ricondotto alla realtà storica effettuale.
Scrivere ha cambiato in
modo radicale la tua vita?
Direi di no. È una
modalità d'esistenza, non saprei immaginarmi diversamente.
Qualche consiglio per chi
ha intenzione di iniziare a scrivere.
Non
demoralizzarsi se non si riesce a pubblicare. L'importante è continuare a scrivere
con passione, originalità, acume, creatività, consapevolezza. Meglio avere il
cassetto pieno di manoscritti inediti che rinunciare, che rimandare l'occasione
per fissare le proprie idee sulla carta. Le idee sono la cosa più labile del
mondo e una volta fuggite non si riprendono più.