Intervista di Salvo Zappulla a Paolo Di Stefano, autore del romanzo Nel cuore che ti cerca, edito da
Rizzoli.
Di Stefano, questa è una storia dura, dall'impatto violento, perché ha
voluta raccontarla ai suoi lettori?
Potrei rispondere che non sono io ad essere stato
attratto da quel fatto ma è stato quel fatto a inseguirmi. La realtà è che uno
scrittore, in genere, vive di ossessioni: una delle mie, che mi insegue
(appunto) da quando ho cominciato a scrivere, è l'infanzia minacciata dagli
adulti, dal mondo, dal destino, dalla malattia eccetera. L'infanzia minacciata,
l'infanzia cui per qualche ragione è impedito di crescere. E' un'immagine che
mi risulta quasi insopportabile: non riesco a tollerare che un bambino soffra,
mi pare profondamente ingiusto e inaccettabile, e forse è per questo che ci
scrivo sopra i miei romanzi, dal primo (“Baci da non ripetere”) a “Tutti
contenti”. Quando l'infanzia si trova, per qualche ragione, a sfiorare la
tragedia o la morte, la mia sensibilità si accende quasi furiosamente e mi
costringe a scrivere per liberarmi (almeno provvisoriamente) di quel trauma.
Ecco perché mi sono messo a raccontare la storia di Rita. Ma alla fine forse per una
risposta più convincente potrei ricorrere a Gadda: “Il mio libro è il prodotto
di una normale attività fisiologica: l'ho scritto per la stessa ragione per cui
il mio cuore batte, i miei polmoni respirano…”.
Certi traumi infantili
si ripercuotono negativamente per l'intera esistenza, e spesso
elementi esterni intervengono quando un minore non è protetto dai genitori.
Quanto è importante il calore di una famiglia sana per la formazione di un
individuo?
Mi
rendo conto che continuo a girare intorno a questi temi trovando solo risposte
parziali. Ho come l'impressione che le famiglie “sane” tradizionalmente intese
non esistano più: c'è sempre qualche ragione endogena o esogena che interviene
a turbare un equilibrio in genere già fragile. Tuttavia, è chiaro che la
famiglia rimane il luogo centrale per la formazione (e per la deformazione,
purtroppo) individuale. Per questo, la famiglia è sempre più un nucleo tematico
interessante per la letteratura: è una sorta di inesauribile motore di immagini
e visioni del nostro tempo. E' come se in essa fosse contenuta una forza mitica
di tensioni primarie. Me lo ha fatto notare Gabriele Pedullà in una sua
recensione apparsa sul “Manifesto”: in fondo, la pedofilia che io racconto è il
sintomo estremo dell'impazzimento in atto del ciclo delle generazioni. Il
pedofilo non è oggi colui che sovverte l'ordine biologico ma colui che rende
manifesto un principio più generale di una società di lolite dodicenni e
settantenni. Una società fatta di adulti infantili e di bambini costretti a
maturare troppo presto.
Rita, la protagonista del suo romanzo, instaura un legame quasi di
complicità con il suo carceriere, chiamato da lei affettuosamente “Il signor
Sergio”. Si sviluppano tra carnefice e vittima quei meccanismi contorti che
rendono quest'ultima estremamente debole, incapace di reagire. Nel suo romanzo
scava molto sulla fragilità della psiche umana. Cosa ha voluto fare emergere?
Non
c'è intenzionalità nel mio racconto. Dunque, non posso dire di aver voluto far
emergere qualcosa. Semplicemente, man mano che procedevo nella scrittura e via via che i personaggi prendevano voce forma e vita mi
accorgevo che affioravano, a mia insaputa, meccanismi psicologici ambigui,
doppi. Rita cominciava a dire di essere lei la più forte, quasi volesse
proteggere il suo carceriere. Quando
accadono delitti del genere, la televisione e le cronache dei giornali non ci
dicono mai abbastanza: raccontano questi fatti restando in superficie,
descrivendone le dinamiche e magari tirando fuori dal cappello ogni tanto
qualche curiosità più o meno pruriginosa. Soprattutto non mettono mai in gioco
i sentimenti, le psicologie delle persone, le emozioni profonde e autentiche.
Per capire davvero ci vuole qualcosa in più. Ecco, io sono partito da lì, da
dove poteva partire la letteratura, dalle parole e dalle emozioni, dalle parole
che esprimono emozioni. E da lì a poco a poco si sono formati i personaggi.
Direi che ho scritto questo libro per dare a Rita - ma anche a suo padre Toni
Scaglione - la possibilità di raccontare la sua tragedia perché tornasse a
vivere nel mondo. Per questo ho fatto un enorme sforzo di empatia. Ho cercato
di immedesimarmi in lei e di lasciarla parlare dentro di me. Via via che il lavoro procedeva, questo processo di
identificazione mi riusciva sempre più naturale. Mi sentivo come una sorta di ventriloquo che
trascriveva sulla pagina la fragilità, le paure, le fantasie raccontate dalla
ragazzina attraverso di me.
Lei è originario di Avola (SR). Ad Avola c'è l'associazione di don Di
Noto che si batte incessantemente contro la pedofilia, un' associazione
di volontari. Pensa che le Istituzioni facciano abbastanza per
combattere il triste fenomeno degli abusi sui minori?
I
bambini vittime di abusi crescono in maniera esponenziale e preoccupante.
Ammiro moltissimo le persone che si battono contro questa sciagura sociale. Ma
non so se le Istituzioni possano davvero fare qualcosa attraverso dei decreti
legge o altro. Ritengo piuttosto che si tratti di questioni più profonde non
sanabili con atti legislativi o di polizia. Si tratta di questioni che affondano
le radici nei valori culturali e morali della nostra società. Viviamo un'epoca
di capovolgimenti spaventosi che rischiano di “giustificare” ogni tipo di
deviazione o di perversione. Per esempio, trovo inammissibile l'uso che viene
fatto in pubblicità e in televisione del corpo femminile e dell'infanzia.
Bisognerebbe cominciare da una rivoluzione dei costumi e della cultura.
Come concilia la sua attività di giornalista con quella di scrittore?
Da
un po' di tempo le due attività convivono senza troppo confliggere.
Sul piano pratico, è più semplice che in passato, perché essendo ormai da sette
anni un inviato del Corriere non ho obblighi stretti di presenza in redazione e
i tempi di lavoro sono molto più flessibili. Dunque posso organizzare meglio i
tempi della scrittura “creativa”. Ma anche sul piano teorico le cose si sono
semplificate: mentre prima pensavo che non dovessero esserci sovrapposizioni di
sorta, oggi sono convinto che l'occhio e l'orecchio del giornalista possono essere utilissimi allo scrittore. E riutilizzo nei
romanzi molti materiali raccolti sul campo. Certo, poi bisogna sempre tener ben
distinte le cose nell'atto della scrittura: e cioè non cedere mai alla
tentazione di fare il giornalista scrivendo romanzi e di fare lo scrittore
facendo articoli di giornale.
Salvo Zappulla