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  Libri e interviste  »  L'intervista di Salvo Zappulla a Mariangela Biffarella, autrice di “ Sommesse voci della mia terra “, edito da Aracne 20/03/2009
 

Intervista di Salvo Zappulla a Mariangela Biffarella, autrice di Sommesse voci della mia terra, edito da Aracne.

 

 

Mariangela, nella tua scrittura c'è qualcosa di ancestrale, come se volessi fermare il tempo a bearsi delle cose passate. Come mai questa scelta?


Non credo si possa parlare di scelta, ma semplicemente di un “sentire” che mi porta a far rivivere i ricordi: quelle realtà che si sono profondamente incise nell'anima; gli accadimenti quotidiani di un'umanità che ha costituito lo scenario della mia vita e di molti siciliani come me; il sentire delle donne che hanno subito e lentamente iniziato il lungo e difficile cammino verso la loro emancipazione, determinando, nel bene e nel male, il nostro essere donne siciliane oggi.
Con questo non penso certo di fermare il tempo (il che sarebbe impossibile) ma di sottrarre all'oblio del nulla un' Umanità dalla “voce sommessa” con i suoi valori e le sue pecche, un mondo che la società di oggi − troppo spesso cinicamente incline all'avere e all'apparire − dimentica o reputa “fuori moda”. Invece, molti di quei valori costituiscono ancora un solido ancoraggio senza il quale si rischia di precipitare nel vuoto.
Con questo non voglio certo demonizzare il presente, ma solo cercare di tenere in vita almeno una parte di quanto di grande e bello c'è nel nostro passato perché non smetta mai di appartenerci.
C'è poi un altro aspetto da non sottovalutare nel rivivere il passato (e non solo) attraverso i racconti, quello di lasciarsi catturare dalle storie fino a sentire propri i pensieri, le esperienze e le emozioni altrui, dando voce al nostro “essere” più profondo e vero che spesso dorme, confuso nel fluire quotidiano che non lascia tempo di guardarsi dentro. E poi – ma non ultimo – il comprendere che i sentimenti non conoscono confini temporali e spaziali né steccati che dividono ed etichettano l'Umanità. Il condividere, sia pure idealmente, pensieri, sentimenti, emozioni e affetti altrui può servire a consolidare in ciascuno di noi il valore dell'uguaglianza, a liberarci dai pregiudizi e dalla paura della “diversità” fino a proiettarci in un mondo affettivo “universalmente” uguale.


Quanto hanno influito i grandi veristi siciliani sul tuo stile?


Non so nello stile, ma nella mia formazione umana e culturale ritengo abbiano avuto un ruolo determinante, perché me ne sono letteralmente “nutrita” fin da ragazzina.
Ricordo che le novelle di Verga mi commossero fino alle lacrime, anche perché l'umanità che rappresentavano non era poi così lontana ed estranea a quella siciliana degli anni Sessanta e Settanta, soprattutto nei piccoli centri come il mio. Poi scoprii Grazia Deledda, Capuana, il primo Pirandello, quello delle novelle, e ne fui definitivamente conquistata.
Certo, penso che questi autori abbiamo trovato in me terreno fertile perché molte mie coetanee, per esempio, preferivano leggere Liala. Con questo voglio dire che dentro ciascuno di noi c'è già il “germe di noi stessi”, anche se può sembrare un bisticcio di parole. Non a caso c'è chi predilige i libri gialli o di avventura piuttosto che storie d'amore, horror o thriller.
Scoprire ciò che fa vibrare il cuore e farne nutrimento dei propri pensieri e della propria anima fin dalla più tenera età è una grande fortuna e io credo di avere avuto questo privilegio, pur senza rendermene conto.
Quando ho cominciato a scrivere non ho certo cercato di rifarmi allo stile dei Veristi (anche perché sarebbe impensabile imitare una tale grandezza!). Ho semplicemente lasciato che venisse fuori da me ciò che sentivo e conoscevo: sono anch'io nata e vissuta in quella loro Sicilia povera e negletta la cui arretratezza, purtroppo, non è solo proverbiale ma ancora reale e tangibile, soprattutto nelle piccole realtà di provincia e nei sobborghi cittadini, anche se in misura e maniera diversa.
Se qualcuno pensa che le mie storie ricordino, anche solo da lontano, il Verismo non posso che esserne felice.


I tuoi scritti sono infarciti di termini dialettali che li impreziosiscono e rendono più autentici i dialoghi dei personaggi. Ritieni anche tu che sia un arricchimento?


Si, penso che il dialetto, quello autentico non quello storpiato, arricchisca le storie narrate perché le rende più vere e credibili. Un personaggio deve essere se stesso e per esserlo pienamente non può che esprimersi come pensa, attraverso l'idioma che gli è proprio.
Sarebbe grottesco mettere in bocca ad un personaggio semplice un modo d'esprimersi che non gli appartiene. Chi scrive deve trovare una “verità di linguaggio” che calzi come un guanto alla realtà narrata.
Certo, mi rendo conto che è una scelta difficile perché può rendere meno fruibile la storia, soprattutto a quanti non conoscono il siciliano. Ritengo, tuttavia, che il lettore vero, quello che ama gustare una storia nella sua interezza e verità, lo trovi “intrigante” e che, dopo aver letto la traduzione nella nota a piè pagina, torni a leggere il dialetto per gustarlo a pieno.

 
Quali programmi hai per il tuo futuro di scrittrice?


Sinceramente non ho alcun programma, anche perché stento a considerarmi “scrittrice”. Di certo continuerò a scrivere tutte le volte che sentirò di farlo e lo farò come ho sempre fatto, senza lasciarmi troppo condizionare dal fatto che ciò che scrivo possa pure non interessare ai lettori.
Recentemente uno scrittore affermato con cui ho avuto il piacere di parlare mi diceva che la prima domanda da porsi, quando si pensa di scrivere una storia, è se questa possa o no interessare agli altri e quali siano i lettori potenziali.
Sicuramente ha ragione, ma io sento di non condividere la sua asserzione.
Penso, invece, che la prima cosa da fare sia proprio non pensare e lasciare che i pensieri fluiscano in maniera irrazionale. La razionalità deve subentrare solo quando si rivede la logica, la coerenza e la correttezza ortografica e grammaticale di ciò che si è scritto. Se tutti ci ponessimo le medesime domande prima di scrivere, forse incontreremmo il favore di un maggior numero di lettori, ma rischieremmo di dire le stesse cose e di mortificare il nostro sentire più autentico.


Scrivere è un'esigenza dell'anima? Un diletto? O cos'altro?


Per me scrivere è soprattutto un'esigenza dell'anima, un modo per fermare su carta le emozione che scuotono la coscienza e costringono ad uscire dall'indifferenza che oggi sembra volere contagiare tutti, ma anche una maniera per mettere ordine nei miei pensieri e dare una “faccia” a ciò che si agita confusamente dentro la mia testa e il mio cuore.
Le mie storie, quindi, nascono quasi sempre da un elemento irrazionale: può trattarsi di uno sguardo colto negli occhi di una donna o di un sentimento provato rispetto ad una realtà conosciuta. Da qui il racconto prende vita e si dipana nella mente in piena autonomia. Una volta schizzato il protagonista, è come se questo avesse gambe proprie che lo fanno andare dove vuole. A me resta solo di seguirlo e riferire quello che fa e gli accade. Quando lui si ferma mi fermo anch'io per riprendere quando, in un momento qualunque della mia giornata lo vedo rimettersi in cammino. Allora, se posso, mi siedo al computer e scrivo, altrimenti mi sforzo di ricordare, per scrivere quando troverò il tempo di farlo, ma in questo caso, purtroppo, mi capita di perdermi qualcosa.
Spesso scrivere per me è anche una via attraverso cui sfuggire la realtà, per non pensare ai piccoli problemi contingenti che tediano la vita, una maniera di circoscriverli e lasciarli decantare in una sorta di limbo della coscienza, il che mia aiuta a mantenermi più serena e disponibile. In questo senso posso dire che scrivo anche per me stessa.

 

 
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