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  Libri e interviste  »  L'intervista di Salvo Zappulla a Giuseppe Matarazzo, autore di Cu nesci Arrinesci, edito da Di Girolamo 15/07/2010
 

Cu nesci arrinesci

Sicilia, speranze tradite e nuova emigrazione

A colloquio con Giuseppe Matarazzo

 

di Salvo Zappulla

 

“Cu nesci arrinesci. Chi se ne va, fa fortuna. E' questo il titolo di un gustosissimo pocket, edito da Di Girolamo, in libreria da qualche mese. Uno spaccato su una generazione di giovani che non trova spazi in Sicilia, che per lavorare e inseguire i sogni deve lasciare la propria terra. Un fenomeno silenzioso che sta lentamente svuotando la Sicilia di risorse umane, compromettendone il futuro. La Sicilia, tra speranze tradite e nuova emigrazione, raccontata attraverso le testimonianze di personaggi della cultura, dello spettacolo, della politica: Giovanni Puglisi, Enrico Lo Verso, Ficarra e Picone, Stefania Prestigiacomo, Nino Frassica, Marina La Rosa, Puccio Corona, Tony Sperandeo, Silvia Salemi, Anna Kanakis, il Mago Forest, Lando Buzzanca, Rita Borsellino.

L'autore è il giornalista Giuseppe Matarazzo, redattore economico del quotidiano Avvenire. Siracusano, 33 anni, dal 2004 vive a Milano. Dopo gli esordi nelle cronache siciliane, è approdato in Mondadori. Ha scritto per i settimanali Tu, Sorrisi e Canzoni, Star Tv e il sito di Panorama. Nel 2008, con Orazio Mezzio, ha pubblicato il pamphlet Politica, le idee contano ancora? (Rubbettino).

 

Giuseppe, in Sicilia abbiamo il sole, il mare, la buona cucina, eppure i giovani se ne vanno. Come tu stesso fai rilevare nel tuo libro, l'ultimo rapporto dello Svimez parla chiaro: ogni anno dal Sud vanno via centomila giovani lavoratori, dei quali oltre 28mila siciliani. Tu sei giornalista, come mai i grandi gruppi editoriali sono concentrati  al nord? E perché per affermarsi nel campo giornalistico bisogna fare le valigie?

Non vale solo per il giornalismo. Al Nord non ci sono solo le più importanti realtà editoriali. Ci sono anche le più importanti aziende, banche, associazioni e una pubblica amministrazione che realizza servizi e strutture per i cittadini. L'autostrada Milano-Venezia è un alternarsi continuo di insediamenti produttivi. Da Catania a Palermo c'è praticamente il deserto. E in questo deserto noi siciliani impariamo a confrontarci, a scommetterci, a interrogarci. Così da una parte la Sicilia diventa una palestra straordinaria: lo è stata per me da cronista, ma lo è anche per un poliziotto, un medico, un insegnante o un commerciante. Dall'altra è un tappo alle proprie aspirazioni. Perchè in Sicilia – con qualche rara isola felice nell'isola – le opportunità sono limitate e ho l'impressione che a molti amministratori e cittadini, questo quasi quasi convenga. Ci si adagia in questo torpore. Con un assistenzialismo e un clientelismo che permettono a larghe fasce di popolazione di vivacchiare tranquillamente. Con partiti e politici che hanno monopolizzato il “mercato” del lavoro, trasformandosi in uffici di collocamento. La politica che si alimenta creando bisogni. Lo hanno denunciato anche i vescovi italiani in un recente documento sul Mezzogiorno: è la classe dirigente e l'abbraccio politica-mafia il cancro del Sud. E chi vuole invece essere libero e camminare con le proprie gambe? Sente il richiamo del vecchio Alfredo al giovane Totò in “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore: Vattinni. Vattene. “Lascia questa terra maligna. Non ti fare fottere dalla nostalgia”.  E' quasi un imperativo: se vuoi inseguire i sogni dalla Sicilia devi andartene. Poi ci sono storie diverse, fortunatamente, di chi ce l'ha fatta. Ma andare o restare dovrebbe essere una libera scelta. Invece oggi per 28mila giovani all'anno andare è una necessità. Le valigie non sono più di cartone, sono trolley firmati. Ma c'è lo stesso desiderio di realizzarsi e di trovare fuori quello che l'Isola purtroppo non ti dà.

 

Ci vuole più coraggio a partire o a rimanere?

Ci vuole coraggio in ogni caso. Si parla  impropriamente di “fuga” per quelli che se ne vanno. Come se il coraggio ce l'avesse solo chi rimane e resiste e combatte. Ci vuole coraggio a partire, perché oltre quella striscia di mare non si sa cosa si trova. Ci vuole coraggio a restare, ma senza per questo essere necessariamente eroi o martiri di cui è tristemente segnata la storia dell'Isola. Io penso che in assoluto ci vuole più coraggio a partire e poi tornare. A realizzarsi pienamente al Nord o all'estero e poi un giorno decidere di mettere a frutto la propria esperienza in Sicilia. Una scelta non facile. Che può costare caro. Ci sono esempi positivi meravigliosi, ma anche storie di chi si è scottato.

 

E tu ti sei scottato?

Dopo la mia esperienza in Mondadori, a Milano, pensavo di poter investire nuovamente in Sicilia. Ma mi sono scontrato con forze titaniche a livello amministrativo e politico che impedivano ogni forma di innovazione, almeno dal mio punto di vista. Un progetto è valido o no a seconda di chi lo presenta e a quale partito appartiene. Così come per i concorsi pubblici: spesso banditi non per coprire una reale necessità ma per sistemare qualcuno in particolare. Altro che merito! Insomma, mi sono scottato, sì. Ho pagato il prezzo della “nostalgia”. Ho ripreso la valigia. E ho trovato l'Avvenire. Sempre a Milano. Certo, la Sicilia me la porto dietro. Cammina con me. Come cammina con tutti i personaggi intervistati nel libro.

 

L'analisi che emerge dal tuo libro è impietosa, i numeri del “disastro” come li definisci tu, non lasciano spazio alla speranza. Miliardi di fondi dilapidati in corsi di formazione inutili e opere incompiute. Perché tutto questo? Colpa della classe politica? Degli imprenditori? Della mafia?

Colpa dei siciliani. Popolo straordinario che, per usare un'espressione alla Camilleri, prende la forma dell'acqua. Si adatta a tutto. Accetta supinamente quello che classe politica, imprenditori e mafiosi propongono. Senza ribellarsi. Tranne in casi rari ed estremi. Come nel dopo-stragi del 1992. Guizzi di indignazione in un mare silenzioso di “tranquillità”. Se la Sicilia fosse quella che raccontano i numeri, nudi e crudi, con la disoccupazione giovanile realmente al 30% e il reddito medio ai limiti della povertà ci sarebbe la rivoluzione, la guerra civile. E invece niente. Tutto tace. Lavoro nero diffuso, assistenzialismo dilagante, poche regole, infrastrutture fondamentali viste come una conquista dopo 20 o 30 anni. La verità è che a molti siciliani questo stato di cose sta bene. E sta bene anche alla classe dirigente perché gli permette di mantenere il potere sul bisogno della gente. Un circolo vizioso che “imprigiona” l'Isola. Il fiume di miliardi arrivato con i fondi europei in questo decennio avrebbe potuto rimettere a nuovo la Sicilia. Come hanno fatto l'Irlanda o le regioni più povere della Spagna. E invece no. Noi li abbiamo dispersi in mille rivoli per garantire l'esistente, finanziare corsi di formazione inutili e ristrutturare casolari di campagna per trasformarli in improbabili agriturismi. Quanti posti di lavoro hanno prodotto? Boh, nessuno lo sa. Mentre il divario con il Nord, certificato da Bankitalia, aumenta.

 

La Sicilia gattopardesca, la Sicilia dell'isolitudine, la Sicilia dei quaquaraquà; la Sicilia dai mille volti e dalle mille contraddizioni. Ma è davvero così complessa quest'isola?  Si può rimanere senza farsi invischiare dal sistema?                                

Certo. Ovviamente io estremizzo le situazioni per andare al cuore dei problemi. Si può restare e riuscire. Come hanno fatto anche molti miei amici. Ci sono professioni per le quali non è necessario il sacrificio della spartenza. Ci sono spazi straordinari in molti settori. A Catania c'è un polo d'eccellenza sulle biotecnologie. C'è poi l'agricoltura e ovviamente il turismo. Un patrimonio straordinario da valorizzare non con la partecipazione costosissima a fiere o con l'organizzazione di eventi che durano lo spazio di un mattino, ma attraverso la realizzazione di servizi, collegamenti e infrastrutture a misura di turista. Il mese scorso ho fatto una passeggiata a Pantalica, la necropoli patrimonio dell'Umanità Unesco, a pochi chilometri da Sortino. All'ingresso ho trovato una novità: una casetta in legno pensata per offrire informazioni e servizi. E' una delle cosiddette “Porte di Pantalica”. Peccato che sia già in stato di assoluto abbandono.

 

Nel tuo libro hai intervistato siciliani di successo: dal politico all'attore; dal giornalista, al cantante. C'è stata qualche risposta in particolare che ti ha fatto riflettere?

Nonostante tutto resto ottimista! Per questo, se devo fare una citazione, mi affido alla testimonianza di chi resta. Una voce che ho inserito alla fine del libro, Rita Borsellino: “Io abito ancora in via d'Amelio”. E' una frase di una forza incredibile. Il segnale di una speranza possibile.

 

Un pensiero per il tuo paese, Sortino.

Sortino è stata la palestra di cui parlavo all'inizio. Quando ho chiesto il cambio di residenza a Milano, mi è venuta una stretta al cuore. Oggi vivo un rapporto contrastato con il mio paese. Per tanti anni, con entusiasmo, ho dato il mio piccolo contributo per provare ad allargarne gli orizzonti e farlo emergere. Ultimamente ho la sensazione, ogni qualvolta mi capita di tornare, che sia un momento di ripiegamento. Una delle possibili origini del nome, Sortino, è che derivi dall'arabo Sciortin, vedetta. Sortino una vedetta sul mare. Sortino che domina dai monti Iblei il golfo di Siracusa. Ecco mi auguro che il mio paese abbia un nuovo scatto d'orgoglio e riesca a ripartire e volare alto.

 

Un pensiero per i tuoi genitori.

Quando mi è arrivato il libro, fresco di stampa, la prima copia è stata per mamma e papà. Pacco postale con dedica: “Senza di voi non ce l'avrei mai fatta. Grazie”. Purtroppo sono loro, sono i genitori a pagare il prezzo dei sogni dei figli. Un rapporto che si alimenta a distanza ma che si fortifica. Fra soddisfazioni, difficoltà e anche rabbia per questo destino a volte incomprensibile.

                                                                           

 

 
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