Intervista di Renzo Montagnoli a Lorenzo Montanari,
autore del libro “Pronto soccorso
dell'italiano” edito da La Scuola.
È strana la vita e a volte riserva
sorprese del tutto inattese. Premetto che di Lorenzo Montanari non
ho mai letto nulla, e altrettanto posso dire che il suo nome mi era del tutto
sconosciuto fino a un paio di anni fa.
Poi, un giorno mi è venuta
voglia di leggere due opere di Giulio Cesare, La guerra gallica e La guerra
civile, pubblicate dall'editore
Barbera cone le traduzioni di Lorenzo Montanari,
traduzioni che, senza svilire i testi originari, sono improntate a un
adeguamento del linguaggio all'uso corrente, e quindi risultano convincenti, ma
soprattutto avvincenti.
Questa è stata l'occasione per
conoscere un tecnico indispensabile nella filiera delle edizioni, qual'è appunto il traduttore,
figura spesso trascurata, ma determinante per confermare il successo di un
lavoro scritto in altra lingua.
Ora, Montanari si ripropone,
ma direttamente, come autore di un testo che vorrebbe venire incontro a tutte
le difficoltà che caratterizzano l'uso della nostra lingua. Non si tratta di un
Bignami, ma di un testo scorrevole che affronta tante problematiche, fornendone
le soluzioni. Forse non indispensabile per chi ritiene di conoscere bene
l'italiano, è pur tuttavia necessario per fugare qualche dubbio, per
consolidare le eventuali certezze.
Ne parlerò, senz'altro, visto che mi ha convinto nell'impostazione e nella
realizzazione, ma mi sembra più che mai giusto dare la parola in proposito
all'autore, con una di quelle interviste che ogni tanto ritengo opportuno
effettuare.
D: Si può comprendere la necessità di
questo manuale, ma la situazione è davvero così grave, cioè gli italiani non
sanno parlare e, soprattutto, non sanno scrivere nella
loro lingua?
R: Il titolo del mio libro, scelto dal mio editore (da
latinista, io avevo optato, in un primo momento, per un più semplice «Vademecum
dell'italiano»), è una sorta di provocazione: c'è bisogno di un «pronto
soccorso» per la nostra lingua? Credo che sia evidente a
tutti, addetti ai lavori e non, che l'italiano, negli ultimi 40
anni, è stato reso straordinariamente fluido (come mai prima, nella sua storia)
da più fattori: numerose ondate di immigrazioni, i più coloriti e vari slang
giovanili (appresi anche dalla televisione), l'influsso massiccio della lingua
inglese, la sintesi estrema del linguaggio del web e delle comunicazioni
mediatiche in generale. I tratti più marcati del parlato, poi, hanno invaso la
lingua di ogni situazione comunicativa, semplificando (per alcuni «impoverendo»
e «imbarbarendo») l'italiano, appiattendolo e rendendolo molto
poco formale. Secondo il mio punto di vista, ma anche secondo quello di
colleghi ben più autorevoli di me, occorre mettere ordine in questa Babele comunicativa
in cui tutto sembra essere concesso. Bisogna ritrovare la rotta e fornire punti
di riferimento chiari: esistono delle regole che non devono essere vissute come
«catene», ma come occasioni per rendere la nostra comunicazione più corretta,
chiara ed efficace. Occorre far capire ai giovani che non si può comunicare
come si desidera, non tenendo conto né dell'interlocutore né della situazione,
o, ancor peggio, pensando che commettere errori sia un peccato veniale a cui nessuno deve fare caso. Il modo in cui noi
comunichiamo, infatti, parla di noi: quanto meno
corretti siamo nel rivolgerci agli altri, tanto meno positiva è l'impressione
che noi diamo ai nostri interlocutori, e tanto meno chiaro è il messaggio che
noi passiamo. Il rispetto per la nostra lingua e per l'atto comunicativo è uno
dei fondamenti dei rapporti interpersonali. Comunicare ha anche una dimensione
sociale che troppo spesso non viene sufficientemente
messa in evidenza. Se non si batterà la strada della correttezza e della
chiarezza della comunicazione, si correranno due rischi potenzialmente molto
gravi per la nostra lingua italiana: il disordine comunicativo e la progressiva
perdita di autorevolezza e prestigio dell'italiano.
D: Ho letto di recente che c'è un piccolo, ma pericoloso incremento degli analfabeti, ma
quello che preoccupa di più è la percentuale degli analfabetizzati,
un 20% di gente che, pur avendo a suo tempo imparato a leggere e a scrivere,
ora non è più in grado di fare né l'uno né l'altro, per non aver esercitato per
lungo tempo la loro mente. In buona sostanza hanno disimparato e ora, più che
mai, sono alla mercé dei messaggi dei media, quasi sempre
fuorvianti e sovente pregni di strafalcioni. La situazione, quindi, è veramente
preoccupante. Secondo lei, quali sono i motivi di questa disaffezione per la
nostra lingua, in particolare, e per la cultura in genere?
R: Il dato che lei riporta e ricorda è mostruosamente spaventoso.
Non esagero a definire «ridicola» e «incredibile» questa situazione, per la
quale proprio in questo momento di massimo sviluppo tecnologico ed informatico globale, vi siano persone incapaci (o non più
capaci, i cosiddetti «analfabeti di ritorno») di accedere in modo nutritivo e
competente alla loro lingua madre. Credo che grandi e severe responsabilità
abbia la scuola, incapace, soprattutto dagli anni Settanta del Novecento, di
rendere meno sterile lo studio della lingua: le ore di «Grammatica» sono risultate sempre sgradite agli alunni perché non si è capito
che una fredda e mnemonica descrizione della lingua non ha alcuna ricaduta
sulle competenze che servono realmente nella vita di tutti i giorni: leggere in
modo non ingenuo e scrivere in modo controllato ed efficace. Credo che in
questa prospettiva debba essere letta anche la provocazione che lei lanciava
nella sua domanda, mettendo in evidenza come molti di
noi sono vittima dei messaggi subliminali, spesso scorretti formalmente, con
cui veniamo bombardati dai mass media: una persona impreparata sotto il piano delle competenze
linguistiche è un lettore ingenuo e facilmente raggirabile dalla pubblicità.
Non si può che essere d'accordo con lei, Renzo. La scuola deve rinnovarsi e
ridare lustro alla riflessione sulla lingua, che dovrà sempre di più insegnare
ai giovani, ad esempio, la correttezza e la chiarezza nell'esposizione orale e
scritta. Queste non sono solo qualità, ma «valori» che
trascendono lo scorrere del tempo e delle mode comunicative. Anche nella vita
di tutti i giorni. Un sms scritto in modo chiaro e corretto è più gradito
rispetto a uno buttato giù in modo brachilogico (ossia
così sintetico e contratto da diventare quasi indecifrabile), sciatto,
eccessivamente informale o, semmai, irrispettoso di chi lo riceve. Nonostante
siamo in un'epoca di comunicazioni massmediatiche e informatizzate, io credo
che non dobbiamo ancora fidarci troppo della tecnologia: nel primo capitolo del
libro, ad esempio, faccio alcuni riferimenti ironici al fatto che i cosiddetti
«correttori automatici», piuttosto ironicamente, non siano capaci di correggere
automaticamente i nostri errori, perché il cervello dell'uomo è ancora più
intelligente di qualsiasi macchina, in fatto di
competenze linguistiche.
D: Un paio di anni fa ho letto un libro
interessante, al punto che ho ritenuto opportuno recensirlo: Breviario d'italiano, di Lucio
D'Arcangelo, autore che poi ho avuto occasione d'intervistare, in quanto membro del direttivo della rivista culturale Il filo d'Arianna. Dalla lettura di
questo libro e dal colloquio con l'autore ho ritratto chiara la sensazione che
prima di tutti sia proprio il Ministero della Pubblica Istruzione a non
interessarsi affinchè venga
introdotto un insegnamento completo e avvincente della nostra lingua.
Conoscerla non è solo indispensabile per esprimersi correttamente, ma anche per
comprendere il contenuto di testi di genere vario, ma di rilievo didattico, e
che contribuiscono alla crescita culturale dell'individuo. Poiché più si sa,
più aumenta lo spirito critico, mi è sorto il dubbio che questa trascuratezza
nei programmi d'insegnamento dell'italiano, non imputabile tanto agli
insegnanti, quanto all'istituzione preposta, sia voluta, al fine di creare un
popolo di pecore belanti, succubi, per non dire prone, ai voleri di chi detiene
il potere. Il mio augurio è che io corra con la fantasia, ma a onor del vero,
così come la meritocrazia si è dileguata e il mondo sembra destinato all'impero
dei mediocri, potrebbe anche darsi che non sia poi così lontano dalla verità.
Le tante e contrastanti riforme scolastiche, la riduzione dei fondi per l'insegnamento
sembrerebbero avvalorare la mia ipotesi.
Al riguardo, lei che ne pensa?
R: L'intreccio che lega la cultura, l'accesso alla
quale è garantito e tutelato dalla nostra nobile Costituzione, alle
ragioni dell'economia è spesso sporcato da logiche del risparmio sulle quali
non mi permetto di esprimere giudizi, ma che, da cittadino, sento molto lontane
da me. Io credo che non ci sia un piano «dall'alto» per diseducare i nostri
giovani. O, per lo meno, non ci sia nulla di consapevole in questa serie di riforme
di tagli che caratterizzano tristemente la storia della nostra scuola (e, per
quanto riguarda l'insegnamento della lingua italiana, più evidentemente dal
decreto 59 del 2004, passato alla storia con
l'etichetta «Riforma Moratti», che, di fatto, ha portato ad un dimagrimento
vertiginoso delle ore dedicate all'insegnamento dell'Italiano). Conoscere la
nostra lingua è fondamentale e nulla mi potrà mai allontanare dalla convinzione
che è compito della cuola
garantire un adeguato livello di controllo e di uso dell'italiano, essendo la
lingua il primo strumento di comunicazione e di accesso ai saperi. Non
dimentichiamo, poi, che, come ci hanno ricordato le «Indicazioni per il
Curricolo», emanate dal Ministro Fioroni nel settembre del 2007. lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure
costituisce una condizione indispensabile per la crescita della persona. La
lingua scritta, in particolare, rappresenta un mezzo importante per
l'organizzazione del pensiero e per la riflessione. La
sfida, come può vedere, Renzo, sta tutta qui: nel
rendere l'apprendimento della lingua una competenza, non solamente una
conoscenza fredda e asettica. Non basta che i nostri giovani
"sappiano" la grammatica, ma occorre che questa diventi una parte di loro: "conoscere" non è sufficiente;
bisogna impadronirsi delle regole e farle diventare una parte naturale di noi,
trasformarle in "competenza". Questa è la sfida del futuro. Chi, tra
i colleghi, la raccoglierà e saprà trasformare l'insegnamento della grammatica
in un'occasione educativa per i giovani, pur nella povertà di risorse e di
occasioni messa in luce nella sua domanda, sarà il protagonista di una vera
rivoluzione culturale, didattica, educativa e pedagogica.
D: Forse io vedo complotti là dove non
ci sono, ma resta un dubbio, atroce, che quest'andazzo non sia frutto del caso,
tanto più che fino a ora si sta parlando di grammatica, ma non dobbiamo
dimenticare l'analisi logica, la coerenza nell'esposizione, tutte proprietà
che, a detta di alcuni miei amici che insegnano all'università, sono assai carenti nei loro studenti, non in tutti, ma in
una parte crescente.
Vengo ora al suo libro, che è ben
impostato su tre capitoli, in cui vengono trattati gli
errori più frequenti (Capitolo I – Ortografia; Capitolo II – La punteggiatura;
Capitolo III – Il congiuntivo e il condizionale, questi sconosciuti!).
A me è rimasto in mente soprattutto il
capitolo III, perché non è la prima volta che mi imbatto
in libri, in genere romanzi, in cui sono presenti deficit di apprendimento
nell'uso del congiuntivo e del condizionale, mentre magari c'è ben poco da
rilevare per l'ortografia e la punteggiatura.
Come mai è così facile sbagliare
ricorrendo al condizionale e al congiuntivo, con errori frequenti anche fra
laureandi e laureati?
Premetto che lo sbaglio più frequente è
in periodi in cui c'è correlazione fra i due, anche se non mancano delle perle
nella coniugazione dei verbi appunto al congiuntivo e al condizionale.
La frequenza di queste tipologie di
errori, che riscontrano anche quegli amici che insegnano all'università, mi fa
supporre che l'uso di questi due tempi, soprattutto se
correlati, non sia stato oggetto a suo tempo, nella scuola dell'obbligo e in
quella superiore, ad attenta spiegazione da parte degli insegnanti, alcuni dei
quali forse addirittura impreparati, almeno nella specificità del caso.
Come è possibile quindi che persone con un
livello di istruzione elevato incorrano in questi errori?
R: In
«Pronto Soccorso dell'Italiano» non nascondo la difficoltà che gli Italiani
incontrano nell'usare questi due modi del verbo. Allo stesso tempo, però, ne
mostro il grandissimo potenziale per l'arricchimento della nostra
comunicazione. Forse questo manca a scuola: far vedere agli studenti come
«funziona» una lingua e perché è bene dire in un modo invece che in un altro.
Se si riduce la grammatica a una serie noiosa di regole, per forza un giovane
avrà voglia di trovare forme comunicative più simili a lui, più vivaci, più
espressive, anche sgrammaticate, purchè siano lontane da quella «pizza» tediosissima che è stata la
grammatica a scuola! E continuerà a pensarla così anche da adulto, perché
nessuno gli ha mostrato la bellezza della lingua e del suo funzionamento. Io
non mi stupisco del fatto che anche negli strati più alti della società ci
siano persone che non sanno né coniugare né usare in modo competente
questi due modi del verbo (congiuntivo e condizionale): se un
insegnante, anche in buona fede, seguendo una metodologia cossiddetta
«tradizionale», non dico non «educa», ma nemmeno non «avvia» un giovane a
vedere la lingua da un punto di vista funzionale, ecco che il vecchio studente
si trova così tagliato fuori da uno dei viaggi più emozionanti che possa
intraprendere: quello all'interno della propria lingua, quindi delle sue
possibilità espressive. Riempire pagine di quaderni coniugando verbi al
congiuntivo potrebbe avere un senso solo se a questa fase mnemonica e un po'
operaia, da avvilente catena di montaggio, ne segue una in cui l'alunno è
invitato a vedere in quali contesti un verbo al
congiuntivo deve essere usato e per quali motivi. Solo così apprenderà
volentieri, perché vede un senso, un fine, uno scopo alla fatica
dell'apprendere.
D:Vi è da dire
che in effetti non pochi insegnanti si limitano a insegnare le regole, senza
rendere partecipi gli studenti della bellezza, non solo formale, che poi
risulta applicando correttamente le stesse. A esser sincero ho l'impressione
che una larga parte di noi non solo non ami la propria lingua, ma la disprezzi. Infatti,
il ricorso agli anglicismi, a neologismi spesso infelici denota un desiderio di
accedere a un presunto Olimpo che esiste solo nella pochezza mentale di non
pochi individui. Si ricorda Alberto Sordi quando in una pellicola imitava gli
americani? Ecco, è la stessa situazione pari pari. E purtroppo non è solo un problema di
congiuntivi e di condizionali, ma le lacune sono molteplici, come nel caso
della punteggiatura, sconosciuta, oppure mal conosciuta.
E' forse il difetto di cui mi meraviglio di meno, perché in fin dei conti per
gente usa più a parlare che scrivere non emerge il problema della virgola
“prima” o “dopo”, o del punto esclamativo. Peraltro, senza far nomi, ci sono
scrittori, anche blasonati, che dimostrano poca dimestichezza con la
punteggiatura, il che fa supporre che anche in questo caso alla base ci sia una
carenza d'insegnamento.
E' così?
R: Di nuovo, credo che lei abbia fatto centro. A scuola, negli
ultimi 40 anni, la punteggiatura e l'ortografia sono
state, a torto, considerate saperi «minimi», poco importanti. Questo per una lunga serie di fattori, prima di tutto la ricerca,
da parte di un certo modo di fare didattica, di potenziare l'espressione della
creatività dell'alunno senza ricorrere ad alcun vincolo normativo. Quasi come
se la sostanza di un testo potesse prescindere dalla forma in cui viene espressa e come se le regole grammaticali
costituissero un potenziale blocco per l'espressione libera dello studente. Questo atteggiamento eccessivamente liberistico si è trasformato,
in breve, nella mancanza di rispetto per le regole che normano
il nostro modo di esprimerci allo scritto. Recentemente, però, qualcosa si è
mosso e da un paio di anni la conoscenza di questi valori fondanti della forma dei testi scritti è addirittura indicata come obiettivo nei
bienni del Liceo Classico. Questo significa che si sente l'esigenza di tornare
a insegnare ciò che per troppo tempo è stato abbandonato o è stato oggetto di
scarsissimo interesse. La punteggiatura, nello specifico, essendo la
trasposizione grafica della logica che impalca i nostri pensieri, è un elemento
imprescindibile della leggibilità del nostro modo di
ragionare. Se è vero che in alcuni casi essa può essere libera (penso, ad
esempio, alla preferenza di una virgola al posto di un punto e virgola, casi di
cui parlo nel testo), non siamo autorizzati a ritenere che la collocazione dei segni di interpunzione sia frutto di scelte personali e capricciose di chi scrive,
dal momento che le regole per poter usare questi segni esistono e hanno lo
scopo di trasformare il nostro pensiero, spesso magmatico e istrionico, in un
testo leggibile e fruibile da tutti.
D: Del resto c'è un autore, di cui non
ricordo il nome, che usa scrivere i suoi romanzi senza ricorrere alla
punteggiatura. Con un esempio simile mi pare ovvio che i giovani studenti si
sentano gratificati nella loro scarsa volontà di apprendimento. Stupisce, fra
l'altro, che romanzi editi da primarie case presentino notevoli carenze grammaticali, soprattutto nel ricorso alla punteggiatura,
segno evidente che gli “editor” non se ne curano
proprio, o per ignoranza, oppure perché ritengono che scrivere in un italiano
corretto sia del tutto superfluo.
Mi dispiace, poi, dover parlare di
ortografia, a cui lei ha dedicato il primo capitolo
del suo libro. Gli errori in questo campo dovrebbero essere propri solo di chi
ha esperienze scolastiche limitate e invece sono piuttosto frequenti anche in
chi, per gli studi effettuati, sarebbe insospettabile.
Sovente, sui giornali (e i giornalisti sono tutti laureati) capita di trovare
un “sufficiente” senza la “i”, per non parlare degli apostrofi sempre più
sconosciuti e degli accenti che ormai latitano.
In tutta sincerità cerco di
comprendere, senza tuttavia riuscirvi, questa continua trascuratezza per la
propria lingua, che è a tutti gli effetti un biglietto
da visita, come un abito ben stirato o una capigliatura ordinata. L'impressione
generale è che a noi italiani, sempre più disuniti che uniti, la lingua madre
dia fastidio, tanto da volgarizzarla, da storpiarla, insomma quasi da
rifiutarla.
Secondo lei, qual è il motivo di questo
comportamento?
R: Penso di aver risposto già in precedenza. Il problema è nel
modo sconfortante in cui la riflessione sulla lingua è presentata a scuola. Ciò
che mi colpisce, però, del suo ragionamento è l'aver parlato della forma come
di un «biglietto da visita». Io non posso che essere d'accordo con lei e
chiedere ai nostri lettori di pensare che la forma in cui noi scriviamo ha una
fondamentale dimensione sociale - ne parlo nel primo capitolo – dal momento che essa è una delle forme di espressione con la
quale tutti noi entriamo in relazione con gli altri. Può sembrare poco
credibile, ma la scrittura riesce a trasmettere informazioni su chi scrive,
perché è stato dimostrato che l'immagine di uno scritto si riflette
sull'immagine dello scrivente, condizionandola. Se un testo si presenta
formalmente disordinato e scorretto, il lettore trarrà l'impressione che chi
scrive sia disordinato e scorretto. Occorre, pertanto, curare il più possibile
la veste in cui ci esprimiamo allo scritto, non solo affinchè
la comunicazione sia salvaguardata, ma anche per non dare di noi immagini
fuorvianti e superficiali.
D: In effetti
il problema è nell'istituzione preposta, anche se la famiglia ha qualche
responsabilità, non dando il buon esempio, cioè non cercando essa stessa di
valorizzare l'uso corretto della lingua.
Lei è autore di testi didattici,
indubbiamente utili, per non definirli, soprattutto per “Pronto soccorso dell'italiano”, indispensabili. Non ha mai pensato
di scrivere qualche cosa di diverso, cioè di cimentarsi con la narrativa?
R: Francamente penso che la narrativa sia un genere per il quale
occorra avere un talento speciale, capace di controllare non solo l'intreccio e
il setting, ma anche i personaggi, con i loro
caratteri particolari e le loro evoluzioni. Non mi sono mai cimentato, quindi,
con un tipo di scrittura così difficile, perché penso
di non essere capace. Io nasco, prima di tutto come traduttore (e confrontandomi
con la prosa di Giulio Cesare ho capito che cosa significa essere dei grandi
narratori), poi, un po' per caso, sono arrivato alla compilazione di testi
scolastici e questo mi ha dato l'occasione, per me imperdibile, di «parlare» ad un pubblico vastissimo, quello, ossia, che affolla le
aule delle nostre scuole. Credo che tra queste due polarità, la traduzione e la
scrittura per la scuola, si collocheranno anche i miei prossimi impegni
editoriali. Anche «Pronto Soccorso», quindi, col suo taglio divulgativo per il grande pubblico, è
destinato a rimanere, credo, un'esperienza professionale isolata, per quanto deliziosissima e fondamentale per la mia crescita.
D: Si può sempre provare, magari
partendo da qualche cosa di più breve, come nel caso del racconto. Il breve
accenno all'attività di traduttore (dal latino) mi fa venire in mente un'altra
domanda, proprio relativa all'accostamento di una lingua bellissima, ma ormai
morta, a questo nostro italiano un po' malaticcio, visto che
è così tanto bistrattato. Mi è sorto un sospetto e cioè che ci sia stato un
peggioramento nella conoscenza della lingua italiana da quando proprio il
latino non ha più fatto parte delle materie di insegnamento
nella scuola media inferiore. Spauracchio di molti, aveva tuttavia il merito di
insegnare a ragionare secondo un percorso ben preciso: l'analisi logica, la
particolare costruzione della frase, la forzata abitudine a procedere non a
tentoni, ma secondo regole ben precise erano
indubbiamente mezzi assai efficaci per poi orientarsi in ogni disciplina, una
materia che era lezione di vita in quanto predisponeva la mente a
razionalizzare sia il pensiero che la forma dello stesso, un esercizio che
lasciava una traccia indelebile costituendo una sorta di pre
esperienza come una matrice che incide sulla materia grezza.
Al riguardo, qual è la sua opinione?
R: Il tema sul quale lei mi chiede di riflettere ha scatenato per
decenni le opinioni più diverse. L'insegnamento della lingua latina nella
vecchia scuola media (ora «Secondaria di primo grado») fu ridimensionato nel
1962 e definitivamente soppresso nel 1977. Negli anni Ottanta si è potuto
assistere a tendenze opposte: in un noto articolo del 1983 finalizzato ad un'analisi della situazione generale in cui versava lo
stato della didattica del latino, soprattutto a livello superiore ed
universitario, Alfonso Traina affermò che, nella sostanza, non c'erano più “i
presupposti per il reinserimento del
latino nell'insegnamento medio”, in particolar modo a causa dell'accentuata
mancanza di basi culturali solide tanto negli alunni quanto negli insegnanti;
dall'altra parte, invece, ci fu chi propose l'avvio dell'insegnamento del
Latino addirittura nella Scuola Elementare (la proposta, al di là delle
implicazioni politiche dalle quali muoveva, non ottenne alcun risultato).
Tra gli anni Ottanta e i Novanta, qualche insegnante, in totale
autonomia, iniziava lo studio del latino in Seconda Media (o in Terza),
affiancando lo studio della morfologia latina allo studio
dell'analisi logica in Italiano, spesso solo con i suoi studenti della fascia
alta (detta, secondo una nomenclatura burocratica molto nota nella Scuola
Media, anche “del potenziamento” o “dell'eccellenza”). Non era la regola, ma
un'eccezione. Qualche scuola, inoltre, attivava anche corsi di latino
facoltativi della durata di venti-trenta ore, al
pomeriggio. Tali momenti formativi, però, erano legati all'iniziativa di
singoli insegnanti o singoli istituti e non avevano
alcun carattere istituzionale.
Prima della situazione scolastica attuale, ossia quella dei
“Curricoli” (avviata il primo settembre 2007), la cosiddetta Riforma
Moratti chiedeva alle scuole di offrire alle famiglie la
possibilità di affiancare alle ore curricolari (quelle dedicate allo studio dell'Italiano
sono solamente cinque o sei), alcune ore facoltative ed
opzionali (fino a sei ore in più) alle quali ogni singola famiglia poteva
decidere di iscrivere il proprio figlio. Attualmente,
invece, non si dedica alcuna ora allo
studio del latino.
Se lei mi chiede se «sento la mancanza» dell'insegnamento del
latino nella scuola media, le rispondo che non penso che una didattica di
questa lingua eccessivamente imperniata sul freddo apprendimento grammaticale
possa operare delle modificazioni significative
nell'orizzonte linguistico dei nostri giovani e sempre più impreparati
studenti. Penso, invece, che lo studio della cultura latina, affiancato da
semplici riferimenti linguistici, possa essere molto educativo perché
insegnerebbe ai giovani da dove vengono, quali sono le radici della nostra
cultura e le basi della nostra lingua. Ci abbiamo provato sette anni fa, con
SPQR, un manuale che mostrava come fosse possibile e nutritivo questo approccio al Latino. Ma la
scuola, si sa, lo abbiamo ripetuto, è un ambiente troppo refrattario ai cambiamenti
e alle innovazioni, quindi, di quell'esperienza sono rimaste solo le convizioni scientifiche e didattiche.
D: Sconsolante, non trovo altro termine
per definire una situazione che impoverisce culturalmente e cultura significa
anche capacità di ragionare, di mettere in dubbio, di discutere, in poche
parole una maturità che consente di coltivare la libertà. La mia ultima
domanda è forse quella con la risposta più difficile: cosa dovrebbe fare la scuola per la salvezza della lingua italiana? In che
modo i pazienti del “pronto soccorso dell'italiano” potrebbero guarire?
R: La scuola dovrebbe avere il compito di trovare strade nuove per
attirare i giovani verso uno studio consapevole e gioioso della loro lingua. La
didattica tradizionale basata, come scrive il mio collega e amico B. Trentin, sulla «sacra triade: lezione-verifica-voto»
non ha più alcuna efficacia e risulta molto
mortificante. Nell'ottica dello sviluppo di reali
competenze linguistiche, e non conoscenze sterili e vuote, chi si occupa di
didattica dell'italiano dovrebbe interrogarsi su ciò che è realmente
fondamentale conoscere della nostra lingua ed operare una distillazione, ossia
un'operazione di scelta di argomenti valutati come impredscindibili
per l'educazione linguistica delle nuove generazioni; di lì, poi,
occorrerebbe chiedersi se esiste il modo
di coniugare la riflessione sulla lingua con la necessità di insegnare a
comunicare in modo chiaro, corretto ed efficace. In particolare, sogno una
scuola in cui la grammatica sia al servizio dell'imparare a scrivere, e non,
come accade ancora, al servizio di se stessa, in forme di apprendimento senza
alcuna logica (riempire pagine di quaderni con coniugazioni di verbi al congiuntivo
non ha moltissimo senso se poi l'alunno non sa quando usare questo nobilissimo
modo verbale). So di essermi ripetuto spesso, in questa intervista, ma tengo
molto a far capire ai nostri lettori che la scuola ha un ruolo decisivo nella
formazione linguistica dei giovani; è, quindi, l'istituzione che più deve
occuparsi di questo tema assai delicato, interrogandosi se è stato realmente
qualcosa o si è preferito rimanere ancorati, per pigrizia, comodità, assenza di
prospettive, a modelli di insegnamento datati e
inefficaci.
In attesa che questo cambio di rotta ci sia e sia recepito dal corpo docenti, i pazienti del «Pronto Soccorso
dell'Italiano» possono immergersi nella lettura del testo, cercando tra le
pagine quelle regole e quei trucchi che possano permettere loro di comunicare
in modo più corretto. Mi piacerebbe vivere in un mondo in cui non ci fosse
bisogno del mio libro; alla luce dei fatti, però, riceverei una grandissima
soddisfazione sapendo che quello che, con grande umiltà, presento a lei e ai lettori,
può essere come una sorta di boa di salvataggio per la scrittura e la
comunicazione orale; in questi anni così superficiali e gretti, sapere di avere
dato una mano anche a un solo lettore sarebbe la prova che ho fatto bene ad
accettare la sfida che il mio editore mi ha lanciato un paio di anni fa,
proponendomi di scrivere questo testo.
Purtroppo siamo giunti alla fine di
questa interessante e piacevole intervista; è quindi il momento del commiato,
con l'augurio di rito - ma in questo caso particolarmente sincero - di successo
del suo libro. Spero che questo suo testo fornisca un contributo significativo al miglioramento del nostro modo di
esprimerci, sia oralmente che per iscritto.
In italiano hanno composto i loro versi
Dante, Petrarca, Leopardi, la nostra lingua è stato il
mezzo con cui sono stati scritti romanzi di assoluto valore mondiale.
Noi siamo italiani e dobbiamo
esprimerci in italiano, un italiano corretto, per il
rispetto che dobbiamo al nostro paese e a noi stessi. L'altra lingua che anima
gli spettacoli televisivi e la nostra politica è una pessima copia di quella
autentica, a uso e consumo di mediocri personaggi senza cultura e amore per il
sapere.
Non lasciamoci trascinare nel baratro
di un'Italia che ha perso non solo la dignità, ma che è anche diventata un paese in cui
si parla e si scrive in un idioma più adatto a una tribù di selvaggi che a una
nazione civile.
Pronto soccorso dell'italiano
di Lorenzo Montanari
Editrice
La Scuola
Didattica
Collana Orso blu
Pagg. 160
ISBN 978-88-350-2683-9
Prezzo € 9,00