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  Letteratura  »  Parlare da soli, di Andrés Neuman, edito da Ponte alle Grazie e recensito da Grazia Giordani 08/03/2013
 

Tre a parlar da soli creano un dialogo che non vuol finire

 

IL LIBRO. Secondo romanzo, talento ribadito
Neuman avvince come solo i poeti Al termine vorresti altri capitoli

 

 

Andrés Neuman a 33 anni è già considerato un romanziere di raro talento. Nato a Buenos Aires, ha insegnato letteratura ispanoamericana a Granada. Nel 2010 ha segnato un colpo senza precedenti, vincendo l'Alfaguara e il prestigioso Premio della critica con Il viaggiatore del secolo, imponendosi come scrittore emergente del mondo ispanico. Ora mantiene le promesse con Parlare da soli (197 pagine, 14,80 euro) tradotto per Ponte alle Grazie da Silvia Sichel. Pagine perturbanti, intrise di crudele pietà, da far ripensare alle parole di Gesualdo Bufalino: «E se Dio avesse inventato la morte per farsi perdonare la vita?» Neuman indaga conflitti individuali incarnati da personaggi comuni. Si compongono due triangoli classici. Il primo affronta le relazioni interfamiliari ed è formato dai genitori, Elena e Mario, e dal figlio decenne, Lito; l'altro è composto ancora dai due coniugi, più Ezequiel, il medico che cura il marito malato grave, destinato a diventare l'amante di Elena. La malattia di Mario avanza inesorabile e, prima che sia troppo tardi, padre e figlio si mettono in viaggio, un ultimo viaggio da compiere insieme, un'esperienza decisiva, descritta secondo la perspicace ingenuità del bambino e la voce dolorosa e straniante di Mario che sta congedandosi dalla vita e vuole lasciare ai suoi cari il meglio di sé, cercando di immaginare il futuro dei familiari che gli sopravviveranno. Elena deve affrontare il dolore della perdita imminente, ma riesce ancora ad amare e a provare piaceri proibiti tra le braccia di Ezequiel che diventa l'antidoto del suo dolore. Questo medico double face — inappuntabile nelle sue mansioni cliniche, più che mai sporcaccione sotto le lenzuola — è pronto come uno sparviero ad approfittare della donna che, fortunatamente, è consolata anche dai suoi amatissimi libri. Per voce sua, incontriamo una vastissima gamma di frasi citate fra cui hanno giusto spazio anche Virginia Wolf e Irène Nèmirovsky, a proposito dei temi del dolore e della morte. Nel corso di tutta la breve narrazione, a capitoli alterni, per raccontare di sé e dell'amore per gli altri, ciascuno dei tre personaggi prende voce e parla da solo. I due adulti tendono a mentire a se stessi e soprattutto al piccolo Lito, amatissimo da entrambi. Eppure, abbiamo la sensazione che cerchino la vita più profonda dentro il loro legame e, nel contempo, fuori dal loro stesso dolore. Dopo la morte di Mario, la vita per Elena e Lito continua, anche se il padre e marito non smette di essere fra loro, nei loro ricordi. Dopo tanto strazio e anche tanto rammarico per la sua catartica sbandata amorosa, la vedova potrà dire: «Il prossimo passo che pure farà male, sarà lasciar entrare l'allegria. Se viene. Se la riconosco. Avverto già il contraccolpo: non quello della perdita, ma quello del rimorso per quello che ci guadagnerò». A lettura finita, si vorrebbe avere ancora pagine: veder crescere Lito, sapere se Elena si rifarà una vita… Capita se lo scrittore ha il passo di un poeta.

 

 

Grazia Giordani

 

 

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