Tre a parlar da soli creano un dialogo che
non vuol finire
IL LIBRO. Secondo romanzo, talento
ribadito
Neuman avvince come solo i poeti Al termine vorresti altri capitoli
Andrés Neuman a 33 anni è già considerato un romanziere di raro talento.
Nato a Buenos Aires, ha insegnato letteratura
ispanoamericana a Granada. Nel 2010
ha segnato un colpo senza precedenti, vincendo l'Alfaguara e il prestigioso Premio
della critica con Il viaggiatore del secolo, imponendosi come scrittore
emergente del mondo ispanico. Ora mantiene le promesse con Parlare da soli (197 pagine, 14,80 euro) tradotto per Ponte alle Grazie da Silvia
Sichel. Pagine perturbanti, intrise di crudele pietà, da far ripensare
alle parole di Gesualdo Bufalino:
«E se Dio avesse inventato la morte per farsi perdonare la vita?» Neuman indaga conflitti individuali incarnati da personaggi
comuni. Si compongono due triangoli classici. Il primo affronta le relazioni
interfamiliari ed è formato dai genitori, Elena e Mario, e dal figlio decenne, Lito; l'altro è composto ancora dai due coniugi, più Ezequiel, il medico che cura il marito malato grave, destinato
a diventare l'amante di Elena. La malattia di Mario avanza inesorabile e, prima
che sia troppo tardi, padre e figlio si mettono in viaggio, un ultimo viaggio
da compiere insieme, un'esperienza decisiva, descritta secondo la perspicace
ingenuità del bambino e la voce dolorosa e straniante di Mario che sta
congedandosi dalla vita e vuole lasciare ai suoi cari il meglio di sé, cercando
di immaginare il futuro dei familiari che gli sopravviveranno. Elena deve affrontare il dolore della
perdita imminente, ma riesce ancora ad amare e a provare piaceri proibiti tra
le braccia di Ezequiel che diventa l'antidoto del suo
dolore. Questo medico double face — inappuntabile
nelle sue mansioni cliniche, più che mai sporcaccione sotto le lenzuola — è
pronto come uno sparviero ad approfittare della donna che, fortunatamente, è
consolata anche dai suoi amatissimi libri. Per voce sua, incontriamo una
vastissima gamma di frasi citate fra cui hanno giusto spazio anche Virginia Wolf e Irène Nèmirovsky,
a proposito dei temi del dolore e della morte. Nel corso di tutta la breve
narrazione, a capitoli alterni, per raccontare di sé e dell'amore per gli
altri, ciascuno dei tre personaggi prende voce e parla da solo. I due adulti
tendono a mentire a se stessi e soprattutto al piccolo Lito,
amatissimo da entrambi. Eppure, abbiamo la sensazione che cerchino
la vita più profonda dentro il loro legame e, nel contempo, fuori dal loro
stesso dolore. Dopo la morte di Mario, la vita per Elena e Lito
continua, anche se il padre e marito non smette di essere fra loro, nei loro
ricordi. Dopo tanto strazio e anche tanto rammarico per la sua catartica
sbandata amorosa, la vedova potrà dire: «Il prossimo
passo che pure farà male, sarà lasciar entrare l'allegria. Se viene. Se la
riconosco. Avverto già il contraccolpo: non quello della perdita, ma quello del
rimorso per quello che ci guadagnerò». A lettura finita, si vorrebbe avere
ancora pagine: veder crescere Lito, sapere se Elena
si rifarà una vita… Capita se lo scrittore ha il passo
di un poeta.
Grazia
Giordani
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