Neuro Bonifazi
DINO CAMPANA
La storia segreta
e la tragica poesia
Longo Editore
Ravenna, 2007
“Poeta
finalmente indiscusso e autore del più bel libro di poesia del secolo scorso…”
Le due letture, a distanza di
tempo, che avevo fatto dei Canti Orfici, mi
avevano lasciato una forte empatia per il poeta e due immagini poetiche che mi
sembravano (e sembrano) insuperabili …La luce affonda uguale dentro gli
specchi all'infinito…Nuda mistica in alto cava/Infinitamente occhiuta
devastazione era la notte tirrenica… che aprono ad un respiro vastissimo.
Ne avevo riportato
anche la sensazione di trovarmi di fronte ad una poetica così originale e alta
(di difficile decifrazione), che non si poteva ingabbiare in nessuna corrente
letteraria e che superava i suoi tempi; e mi dispiaceva vedere tale autore
segnalato in qualche antologia scolastica come un isolato, magari precursore
dell'Ermetismo, la cui poetica era comunque inficiata dalla follia. Mi sentivo
straniata soprattutto dalla sua prosa poetica. Risuonavano in me il languore,
la malinconia, le macchie di sanguigno o di rosso sparse nei vari paesaggi,
l'atemporalità, la ricerca della natura primigenia, il viaggio, gli esseri
umani attuali trasfigurati e mitizzati, la visionarietà, il caos.
Poi, per una serie di
coincidenze (ma Jung le chiamerebbe sincronicità), mi
sono ritrovata a leggere: Dino Campana
La storia segreta La tragica poesia di Neuro Bonifazi.
Questo saggio, straordinario,
per chi ama la poesia di Dino Campana o l'abbia solamente sfiorata (come me),
senza sprofondare nei suoi abissi temporali e spaziali e soprattutto umani, risulta al lettore frutto di un lentissimo, entusiasta
lavoro di scavo nella poetica dell'autore. Neuro Bonifazi,
infatti, ha pubblicato già nel lontano 1964 un saggio su Dino Campana e, in
seguito, ha curato per Garzanti l'edizione dei Canti Orfici del 1989, per cui è
probabile che la sua esegesi trovi proprio in questo libro sviluppo, sintesi e
compimento. Un'opera, dove l'autore usa tutte le fonti disponibili
(biografiche, storico-letterarie, filosofiche, esoteriche e orfiche), e tutte
le strategie critiche, comprese le conoscenze di psicanalisi, per mostrarci
come I Canti Orfici ( o il precedente manoscritto Il più lungo giorno) siano il più bel libro di poesia del secolo scorso rivalutando, con l'amore paziente di un padre
virtuale, la personalità di Campana e la sua ricerca di sanità mentale
attraverso la poesia; fino a mostrarci, attraverso l'analisi delle lettere
scritte dal poeta, che, anche al momento dell'internamento nella clinica
psichiatrica di Castel Pulci –Firenze, nel gennaio
del 1918, si trovava in normali condizioni di lucidità mentale. (1)
Il saggio è strutturato in
maniera tale da presentarsi come una guida attenta e approfondita alla lettura
e decifrazione dei Canti Orfici. I primi tre capitoli ( La
“nevrastenia”: una storia segreta – La nascita della poesia. Il “Quaderno”. –
La ricerca dell'amore perduto. La Chimera ) ci
introducono al mistero psichico, filosofico, visionario del poeta. Dal quarto
al decimo e ultimo siamo condotti dentro la “Parola” del poeta e ripercorriamo,
alla luce sapiente del critico, il viaggio dei Canti Orfici e degli ultimi
lavori scritti ( appassionata e appassionante
l'esegesi del poemetto Arabesco-Olimpia) dopo la pubblicazione del
capolavoro. Per cui, letti l'introduzione e i primi
tre capitoli, è opportuno ( e illuminante) seguire il discorso critico con la
contemporanea lettura dei passi cui si riferisce.
Il discorso di Bonifazi prende avvio da alcune sue fondamentali
considerazioni:
Campana (pur essendo stato ormai
riconosciuto poeta e occupi un posto sicuro nella centralità della tradizione
letteraria italiana) è un autore la cui complessità resta ancora da scoprire.
Nonostante le varie biografie romanzate e non, la sua personalità psichica e la
sua storia segreta sono un mistero mai tentato davvero con gli strumenti
analitici adatti: ancora ci si chiede se Campana fosse un matto autentico
oppure un sano, perseguitato dai pregiudizi borghesi, familiari e paesani.
Anche la sua passione o infatuazione per le idee filosofiche di Nietzsche,
(evidenziata proprio da Bonifazi) spesso non è presa
in considerazione e a volte rifiutata. I Canti Orfici sono ancora oscuri sia
nella loro essenzialità, sia nei particolari delle loro figurazioni simboliche.
Non c'è stata vera attenzione, da parte della critica, agli scritti del Quaderno,
a quelli post Orfici e neppure al manoscritto Più lungo giorno.
Di tutto ciò Bonifazi si propone di dare uno svelamento. E da qui inizia
un'affascinante discussione- ricerca che ci conduce in un viaggio di conoscenza
entusiasmante, che, nel mentre rende a Campana i suoi
meriti indiscutibili, ci avvicina al bellissimo saggio La nascita della
tragedia di F. Nietzsche e alle storie esoteriche di I grandi iniziati di
E'. Schuré. Insomma veniamo
anche a contatto con quella “sapienza oscura” che per taluni è sintesi della
conoscenza del mondo. E, sicuramente, è radice e fondamento dell'opera del
nostro poeta. Secondo Bonifazi, infatti, la poesia di
Campana è davvero “orfica” in senso mitico (secondo l'interpretazione apollinea
della mitologia greca) e mistico (secondo l'originaria religiosità “folle” dei
misteri dionisiaci)(2); è una poesia di “conoscenza”,
investita interamente da un pensiero riflesso e totale, “métaphisique”;
“un pensiero che…è composto di fede e iniziazione, secondo la teologia degli
antichi misteri, rivissuti tragicamente e esteticamente, in senso moderno e
“inattuale”, nella Nascita della tragedia di Nietzsche”.
E' una poesia che, con gli strumenti del canto e del linguaggio
poetico, simbolico e metaforico mira a tentare il
mistero della vita e della morte, al di là delle incongruenze e dei limiti
della ragione umana.
Scandagliare i Canti alla luce
dell'ipotesi che sia un compatto poema orfico (come per primo ha affermato
Mario Luzi), ispirato ad una precisa fede filosofica e
esoterica, significa, per il nostro critico, ricondurre ad una radice unica,
nutrita dalla linfa di diverse conflittualità incosce,
gli elementi teorici, biografici, analitici e segreti che s'incrociano
nell'opera. E dopo il preciso e approfondito lavoro di scandaglio è evidente
anche per il lettore come e quanto “la letterarietà dotta e figurativa e
misterica siano in Campana una necessità inderogabile,
un impegno totale… una specie di soccorso vitale, estremo, una vocazione
drammatica, l'accettazione di un destino…una decisione simile a un eroismo
oltre l'umano, o meglio, a un versamento di sangue innocente…la sua è una cultura che è diventata carne,
sangue, respiro e battito della sua vita e della sua immaginazione, ed è
quindi indubitabile che tutto questo, letteratura e filosofia, principi
filosofici e misterici, miti e figure simboliche, moralità inattuale e stile
evocativo, ecc. rispondano a un'esigenza profonda, indiscutibile, misteriosa
agli occhi stessi del poeta e alla sua coscienza. La quale sceglie e s'immerge
completamente senza che lui se ne faccia una vera ragione…tutto teso com'è
verso un sogno supremo. Sogno d'arte e bellezza, sogno del
“supremo amore”, non impedito da nessun divieto…”
Il saggio è talmente denso di
conoscenze, scoperte e riflessioni che è impossibile sintetizzarlo; si può
portare ad esempio del lavoro l'analisi della figura della
donna nella fantasmatica orficità
di Campana. Analizzando le parole simboliche con le quali la racconta,
e prendendo atto dei suoi disturbi psichici quali il complesso di persecuzione,
il narcisismo secondario e il delirio di gelosia, la figura femminile diviene
immagine scaturita da un complesso edipico non risolto, ma sublimato dalla sua
ideologia filosofica. Per cui la donna è una Chimera (
menade, sfinge, prostituta, moderna reincarnazione della sacerdotessa,
Gioconda, Vergine bambina, donna amorosa, donna liberata) ambigua, multiforme,
imprendibile (simbolo dell'illusione universale); e dovrebbe essere la madre a
cui lo lega il primordiale amore, ma che il delirio di gelosia nei confronti
del padre gliela fa immaginare come la prostituta e la vergine, la sposa di
altri da odiare e la bambina ingenua e amorosa da proteggere teneramente, l'aridità
del mondo e la dolcezza dell'amore.
Lo scandaglio si affina al
punto di cercare nella scomposizione della parola stessa la chiave dell'enigma.
“… in questo caso si tratta proprio del nome chimera che a
Campana derivava dai testi francesi e quindi chimère e lui il francese lo
sapeva. Ebbene noi proviamo a supporre che il suo incoscio, catturato dall'omofonia, scomponesse sillabicamente la parola in modo da cambiarne significato:
da chimère a chi-mère e anche chi-mèr, ossia a parole
dal suffisso madre e/o mare o giuochi di parole basati
sullo stesso suono madre. Ne abbiamo visti altri di questi segni linguistici
basati sullo stesso suono ( come “vertigine” verginità
e come “enormità” “anormalità”) che possono testimoniare di un'intensa attività
incoscia e provare una tendenza inavvertita e
involontaria, ma presente in lui, e segnale se si vuole di forti pulsioni
interiori…”
Tante altre sono le parole
simbolo che vengono tentate e aperte: la catastrofe,
l'accecamento, il portico, il viaggio e il ritorno, il sorriso di chi sa
sognare (un sorriso superiore, apollineo, solare dell'arte, il sorriso che
Leonardo sa mettere sulle labbra delle sue donne ritratte) oppure il
significato simbolico dei colori (rosso divieto, bianco liberazione ) e tutte
contribuiscono a convincerci che il poeta orfico Dino Campana ha saputo
elevarsi al di sopra della presunta malattia e realizzare il suo sogno di
bellezza. Liberazione e sublimazione nella Bellezza
dell'arte, che il critico individua proprio nei versi centrali di Genova,
(considerati da altri come spia dei suoi disturbi mentali) (3) e che invece
esprimono pienamente l'epilogo bello dell'avventura di una tragica (nel senso
nietzschiano del termine) elevazione verso il cielo (luce-bellezza-purezza),
sull'atrocità dell'esistenza; “quella “atroce” sua esistenza che solo un
amore immemoriale infantile, riassaporato attraverso
l'unico potere mistico e orficamente gioioso della
sua visione poetica di grazia e bellezza, potè
splendidamente e “incosciamente ” glorificare”; e
lo condusse alla “fusione del capolavoro”.
“…Infine
il mio piccolo dovere era di non arrendermi e l'ho fatto e me ne vo.”(Dino Campana)
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(1)
A proposito dell'internamento
sono molto interessanti le ultime pagine del libro nelle quali il critico,
analizzando le lettere di Campana e i racconti dello psichiatra Pariani, ipotizza che il poeta abbia accettato di buon grado
l'internamento come soluzione alle sue difficoltà pratico-
economiche e che i successivi discorsi deliranti siano stati frutto di
una auto-suggestione reattiva alla suggestione con la quale i medici lo
curavano. Ci tiene l'autore a lasciarci l'immagine di un
Campana “ironico” e canzonatore, ribelle e irriducibile fino all'ultimo. E ne
difende il valore con espressioni vibranti: “Così l'esistenza di questo
grande poeta moderno e la sua opera grandiosa si svolgono interamente tra due
diagnosi pressoché uguali e parimenti imprecise, dovute alla rudimentale
psichiatria del suo tempo, che non conosceva tra l'altro né Freud né Nietzsche,
e alla considerazione cialtrona e delinquenziale diffusa dovunque riguardo alle
persone strane e diverse.”
(2)
“Dalla struttura della tragedia
classica Nietzsche risale alle origini arcaiche, consistenti nel culto
misterico e orgiastico di Dioniso, ossia mette in evidenza
che la tragedia era originariamente il canto del capro, animale sacro a
Dioniso, dio della natura selvaggia e liberatrice che incarna il disordine e le
forze istintive e violente dell'uomo…Passato dalla Tracia nel mondo greco il
culto orgiastico e sfrenato di Dioniso fu accettato, ma moderato sensibilmente
dal culto centrale della mitologia greca del solare Apollo, dio dell'armonia,
della forma, della bellezza, della grazia e dell'ordine intellettuale….I
misteri dionisiaci presero il nome di orfici dal leggendario cantore e
sacerdote greco Orfeo e così si diffusero nel mondo occidentale, e in tal modo
dionisiaco e apollineo, apparentemente antitetici, si unirono per originare un
perfetto e armonico equilibrio estetico di cui la tragedia arcaica fu la più
perfetta realizzazione….Al centro del culto della
religione dionisiaca c'era la violenta rievocazione dell'uccisione sanguinosa
di Dioniso da parte dei Titani, come SIMBOLO DELLA LACERAZIONE DELLA
PRIMORDIALE UNITA' (e quindi il dolore, la rivalità, la differenza sessuale),
individui gettati nella mortalità temporale della realtà e dell'esistenza; ma
c'era anche la rinascita del dio, l'aspirazione degli iniziati alla
ricostituzione (una sorta di vittoria sul tempo e una prova dell'eternità e
divinità al di là della morte, precisamente con la perdita della propria
individualità). La religione olimpica, ossia degli dei del'Olimpo,
e in particolare di Apollo, conserva il senso profondo e tragico del
dionisiaco, ma insiste sul superamento del terrore tragico e sul nichilismo
dell'esistere, e soprattutto limita gli eccessi orgiastici..
Nietzsche mette in risalto…l'aspetto
dionisiaco, che genera da se stesso la forma apollinea quasi come una barriera
di difesa all'impeto dirompente dello spirito dionisiaco…sostiene che si deve
accettare fino in fondo la tragicità dell'esistenza e trovare una specie di
gioia paradossale nel vivere il caos e la brutalità, legata al tempo e alla
quotidianità e alla molteplicità del reale. Certo, l'uomo deve cambiare, i
vecchi valori sono morti(come Dio) non perché non
esistono, ma perché non servono più all'uomo. Il quale sarà un super-uomo…un
uomo che andrà oltre la sua vecchia umanità, e quindi un oltre-uomo,
un essere libero, che agirà per realizzare se stesso e considererà la sua vita
come un'opera d'arte, ossia amerà la vita, non si vergognerà dei propri
desideri, e cercherà se possibile ( con l'aiuto del
SOGNO e dell'OBLIO…) la gioia e la felicità. E l'otterrà
se saprà essere “leggero”, ridere e danzare sul male, scivolare-glisser
sulle cose del mondo, volare…”
(3)
“…D'alto sale, il vento come
bianca finse una visione
di Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle
dentro del cielo serale
Dentro il vico marino in alto
sale,……
Dentro il vico ché rosse in alto sale
Marino l'ali
rosse dei fanali
Rabescavano l'ombra
illanguidita,. . . . . .
Che nel vico marino, in alto
sale
Che bianca e lieve e querula
salì!
Come nell'ali
rosse dei fanali
Bianca e rossa nell'ombra dei
fanali
Che bianca e lieve e tremula
salì:…..
Ora di già
nel rosso del fanale
Era già l'ombra faticosamente
Bianca………..
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L'eco attonita rise un irreale
Riso: e che l'eco faticosamente
E bianca e
lieve e attonita salì……”
BIOGRAFIA
Neuro Bonifazi, già Ordinario di
Letteratura italiana nell'Università di Urbino, dove è nato e risiede, è autore
di numerosi saggi, tra i quali ricordiamo innanzitutto
quelli su Giacomo Leopardi (Leopardi autobiografico, 1984; Lingua
mortale, 1987; Modelli leopardiani, 2003 editi dalla Longo Editore
Ravenna; Il “riso” leopardiano e le “Operette morali” Urbania, 1974
E il volume Leopardi. L'immagine antica
(Einaudi 1991).
E' noto inoltre per il saggio Dino Campana
del 1964 ( Edizioni dell'Ateneo), ristampato nel 1978,
al quale ha aggiunto la cura dell'edizione commentata dei Canti Orfici
(Garzanti 1989).
Altri saggi riguardano Parini e il Giorno (Argalia 1966), L'alibi del realismo (La Nuova
Italia, 1972), Le lettere infedeli (Officina 1975), Teoria del
fantastico ( Longo 1983), Il genere letterario
(Longo 1987). Ha curato l'edizione critica del cinquecentesco G. B. Pigna, Il
ben divino (Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1965). Il
suo ultimo saggio è Gesù il Messia (Helicon,
2010).
Franca Canapini
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