La solitudine in Vincenzo Cardarelli
di Renzo Montagnoli
Nell'ambito della poesia italiana della
prima metà del XX secolo
c'è una voce che emerge limpida senza
aver la forza di un tuono – e perciò meno ascoltata -, anche perché per le sue caratteristiche
di semplicità e di comprensibilità non rientra nel grande coro dell'ermetismo.
Mi riferisco a Vincenzo Cardarelli,
nato a Tarquinia il 1° maggio 1887 e morto a Roma il 15 giugno 1959.
Come molti poeti non ebbe
certo una vita regolare, borghese si potrebbe meglio dire, ma fin dall'infanzia
dovette misurarsi con la malasorte rappresentata da una menomazione al braccio
sinistro e con una carenza effettiva per l'abbandono della famiglia da parte
della madre quando Vincenzo era ancora piccolo.
Gli studi furono del tutto irregolari,
soverchiati da quella solitudine che finirà per accompagnarlo per tutta la
vita, e chi è solo ha meno radici, e pertanto è più
disponibile a lasciare il certo per l'incerto, così che a soli 17 anni lasciò
la casa paterna per approdare a Roma, dove, per sostentarsi, fece i più
svariati lavori, finché approdò al quotidiano Avanti!.
Lì sembro trovare il nido che tanto
aveva cercato e in breve, da correttore di bozze, divenne redattore,
collaborando poi con altri giornali. Tuttavia è solo verso la fine della prima
guerra mondiale che avviene un salto di qualità, nel
senso che il giornalismo – che pure resterà la sua professione – è accompagnato
da un ispirato senso di cultura letteraria che lo poterà a fondare la rivista
La Ronda, mezzo che gli consentì di impostare e anche di realizzare una sua
visione, o come qualcuno più esattamente definirebbe, un programma di vera e
propria restaurazione classica. Fu molto influenzato da Baudelaire, da
Leopardi, da Pascal e da Nietzsche e in analogia soprattutto con il pensiero di
quest'ultimo filosofo fu animato da una ricorrente razionalità, volta a
smussare le passioni, senza esaltanti voli pindarici.
Non un sognatore, dunque, e del resto tutta la sua vita fu solitaria e austera,
anche misera, soprattutto verso la fine della vita, ma conservando sempre
un'alta dignità, come se la carenza di mezzi fosse
dovuta a una precisa scelta d'esistenza.
La sua è una poesia classicheggiante,
lineare, assai descrittiva, in cui ambientazioni e stati d'animo riverberano,
senza imporsi, anzi sovente proponendosi, pur in presenza
di una notevole forza che s'accompagna a un discorso dai risvolti profondi e
meditativi. Si passa così da un ancestrale visione di
una natura incontaminata di Idillio
e appunto idilliaca (Per una stradetta ombreggiata / fra due
muri di pietre rugginose / da cui spuntavano pampini / soleggiati, / vidi un
giorno, in Liguria, / (oh incontro inatteso!) / una
giovane contadina / ritta sul limite del suo vigneto. /….), una visione che
tanto richiama certi quadri di Segantini, all'accorato ricordo di quel che fu
l'infanzia in Giace lassù (Giace lassù la mia infanzia. / Lassù in
quella collina / ch'io riveggio di notte, / passando in
ferrovia, / segnata di vive luci. /…).
Certo, la memoria e il fermo d'immagine
di situazioni e di luoghi del passato restano precipui, come se quella sua
continua vita errabonda scandisse i passi di un'esistenza trascorsa senza
apprezzabili soste, anzi con rapide fughe, nel timore di troppo legarsi a un
posto, a un borgo, fosse anche a un paesello.
Così tutto sfuma nel ricordo,
ma resta viva una sensazione, un'emozione provata, tale da dare un senso
alla vita, senza con ciò pregiudicare quell'ansia di movimento, quella ricerca
di una solitudine mai totalmente appagata.
Di cono bene i versi di Sera di Gavinana
(Ecco la sera e spiove / sul toscano Appennino. / Con lo scender che fa le nubi a valle,
/ prese a lembi qua e là / come
ragne fra gli alberi intricate, / si colorano i monti
di viola. / Dolce vagare allora / per chi s'affanna il giorno / ed in se
stesso, incredulo, si torce. /…), descrivono con maestria la quieta
malinconia che coglie la sera in un paesino dell'appennino, un momento
d'incanto, una risorsa a cui attingere quando la
solitudine più stringe, allorché il mondo appare un infinito muro sbrecciato
che gira all'intorno e scaccia l'angoscia per un dolore patito, forse lontano
nel tempo, ma sempre presente nel cuore (da Passato: …./ Precipitoso e lieve / il tempo ci raggiunse.
/ Di fuggevoli istanti ordì una storia / ben chiusa e triste. / Dovevamo
saperlo che l'amore / brucia la vita e fa volare il tempo.).
Morì povero, ma soprattutto solo, come sempre era vissuto.