Intervista
di Edoardo Pittalis a Ferdinando Camon sul quotidiano “Il
Gazzettino ”, 22 maggio 2017
Dice
Ferdinando Camon che non avrebbe mai creduto che la civiltà
contadina sarebbe morta: “Non credevo che le stalle sarebbero
scomparse, i buoi spariti. Pensavo sarebbero durati in eterno”.
Per
lo scrittore, 81 anni, Premio Strega e Campiello alla
Carriera, autore di 17 libri tradotti in tutte le lingue, “la
grande crisi della vita” è arrivata quando si è
accorto che era finito quel mondo.
Che
sapore aveva quella civiltà?
“Sono
nato a Urbana, un paese della campagna sperduta padovana.
Abitavamo in una casa senza il pavimento, si camminava a piedi nudi
sulla terra nuda e le oche entravano e uscivano. C’era anche la
stalla con i buoi. Mi ricordo il giorno che mio padre è
partito per la guerra, sono venuti a prenderlo due carabinieri in
motocicletta e se ne sono andati loro in moto e lui a piedi che li
seguiva. Quando fu congedato noi bambini eravamo stupefatti a vedere
dopo cinque anni quest’uomo che non conoscevamo e che era
rientrato malato. Con mio fratello maggiore e la sorellina più
piccola eravamo dietro la casa, doveva essere mezzogiorno perché
in quel momento si sentirono i rintocchi del campanile. Mi sembrò
un ordine dato all’universo: “Sonè campane che è
tornà il padre”, disse mio fratello”.
Cosa
rimane di quei ricordi del tempo di guerra?
“I
campi dietro alla casa terminavano su un grande fosso, c’era un
olmo che aveva le radici immerse nell’acqua ed era cresciuto in
maniera vertiginosa. Dai suoi rami vedevo i rastrellamenti dei
tedeschi e le battaglie aeree. Dopo un rastrellamento hanno ammassato
gli ostaggi nel nostro cortile, il cortile dei Camon. I tedeschi
erano giovani, quelli dell’ultima leva, i cappotti più
grandi di loro, e cercavano i parenti dei partigiani che avevano
preso. Eravamo tutti radunati in cerchio, due tedeschi passavano
lentissimi con questi prigionieri appesi a una pertica come si
appendevano i maiali, per vedere chi si tradiva. Il fratello di uno
degli ostaggi era accanto a me, non si tradì. Poi li
impiccarono al ponte di Bevilacqua”.
Lei
ha scritto della Resistenza nella Bassa.
“La
resistenza contadina a me sembrava uno scontro di orde primitive, nel
paese di San Silvano ci fu chi, sotto tortura, tradì e parlò.
Molti anni dopo un ufficiale tedesco è sceso a Este, dove nel
collegio vescovile aveva sede il comando. Si presentò come se
fosse tutto finito in gloria, ma un partigiano gli si parò di
fronte: “Voi mi avete torturato nella stanza qui sopra”.
Avevo raccolto testimonianze nelle case delle vittime, il tedesco
incominciò a impressionarsi, adesso era lui ad avere paura.
Non si sapeva nemmeno quante erano le vittime tra Monselice, Este,
Montagnana, Castelbaldo, Merlara: forse 130 tra impiccati e fucilati
Quel Veneto contadino non si aspettava giustizia. Ho scritto su
questa storia “La vita eterna” subito tradotto in
Germania, un gruppo di magistrati tedeschi venne a interrogare le
famiglie delle vittime, ma nessuno volle collaborare. Il comandante
Lembcke era ancora vivo e il libro fu considerato un documento a
carico.La notte prima del processo l’ex ufficiale ebbe un
infarto e allora finì tutto, perché per una legge della
Germania se l’imputato moriva prima di essere processato tutte
le prove che potessero infangare la sua memoria andavano
distrutte”.
Che
lingua parlava quel mondo?
“La
morte della civiltà contadina comporta anche la morte della
lingua delle campagne. Oggi è una lingua ibrida, non adatta
alla poesia personale, all’intimità. Tutto contribuisce
a destrutturare la lingua, non si scrive più e non si legge
più. A uccidere la capacità di scrivere è la non
lettura, è quella la morte della lingua. Vale anche per il
dialetto che non è al disopra della realtà, è
preso dalla realtà. Ci fu un’epoca in cui in campagna
chi si lavava usava il “saon” che era fatto in casa, lo
faceva la madre, sull’asse da lavare. Una lastra grande gialla
che si tagliava col coltello. Poi a un certo momento dalla città
arrivò il sapone profumato, Palmolive o il Cadum. E il saon
sparì insieme alla parola. Così come sono sparite tante
parole dialettali legate a quel mondo dialettale. Oggi in certe case
borghesi appendono un giogo di buoi, ecco: la parola dialettale è
come quel giogo”.
Il
libro che le ha dato più soddisfazione?
“Quello
nel quale credevo di meno, “Un altare per la madre”. Io
lo avevo chiamato “Immortalità”, l’editore
Garzanti scelse il titolo giusto e vinse il Premio Strega. Il
libro piaceva, ma allo spogliò arrivò Natalia Gingsburg
che scaricò dalla borsa una settantina di schede tutte per il
genero, Carmelo Samonà. Vinsi per appena 7 voti. Ho capito
molto dopo che avevo scritto, in realtà, l’invenzione di
un rito di salvezza contro la morte”.
I
problemi nella Padova negli anni del terrorismo?
“All’epoca
Padova era molto violenta. Io insegnavo e scrivevo sui giornali, gli
studenti contestatori presero l’abitudine di venirmi a trovare
a casa, si sedevano davanti a me, rifiutavano di dire i loro nomi e
mi processavano. Non potevo non occuparmi della violenza, mi
interessava in particolare quella di destra per il suo folle
misticismo. C’era una libreria di estrema destra al Liviano che
vendeva materiale sul mito della razza, anche proibito per legge,
apriva una volta alla settimana e solo di notte. Cercavo materiali
per il mio “Occidente”. All’uscita del libro sono
stato minacciato e, quando il libro diventò un film della Rai,
fui costretto ad abbandonare Padova e mettere al sicuro la famiglia.
Ancora oggi quando cammino mi giro indietro per vedere se qualcuno mi
segue”.
Ha
paura della morte?
“Fin
che vivevo nel mondo contadino sapevo tutto: che c’era la morte
e c’era l’aldilà. Einstein mi ha confuso le idee
dicendo che “il prima e il dopo non esistono”. La mia
mente contadina non accetta che non ci sia il tempo. Anche la
vecchiaia è terribile perché hai meno forze e non hai
soldi: l’insegnamento ti da un finto stipendio finchè
insegni e una finta pensione quando vai fuori dalla scuola”.
www.ferdinandocamon.it
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