Io
una volta abitavo qui
La
prosa tagliente e l’animo tortuoso della grande Rhys
La
scrittrice inglese resa famosa da «Il grande mare dei sargassi»
Chi
ha letto «Il grande mare dei sargassi», capolavoro di
Jean
Rhys,(1890-1979),
prequel di Jane Eyre, addirittura risposta postmoderna e
postcoloniale al capolavoro di Charlotte Brontë, ritroverà
in «Io
una volta abitavo qui» (Titolo originale: «The Collected
Short Stories» pp.157,
euro 16) che Adelphi ci propone tradotto da Marisa Caramella e Laura
Noulian,
la stessa prosa tagliente e spietata, senza mezze misure, di un’
autrice che ebbe una vita rocambolesca. Nata in Dominica da
genitori di origini britanniche, studiò a Londra sognando di
fare l’attrice. Rimasta priva di risorse, dopo la morte del
padre, rifiutata dallo snob mondo teatrale, per via del marcato
accento caraibico, frequentò gli ambienti bohémien che
descrisse nei primi romanzi usciti tra il 1929 e il 1939. Poi
scomparve dalla scena letteraria, finché nel 1966 «Il
grande mare dei sargassi» la consacrò fra i grandi
autori di lingua inglese.
La silloge «Io una volta abitavo
qui», di cui stiamo trattando, venne pubblicata in varie
raccolte tra il 1927 e il 1976.
Qui la incontriamo bambina col
vestito di piquet in una Dominica insieme sordida e fiabesca, poi
riluttante collegiale espatriata in Inghilterra. «Un caldo e
silenzioso pomeriggio di luglio mi dissero che sarei andata in
Inghilterra con la zia Clare, che era nostra ospite da sei mesi.
Dovevo andare a scuola in un posto che si chiamava The Perse, a
Cambridge». La ragazzina irrequieta non è dello stesso
parere del padre, convinto degli effetti benefici dell’educazione
e della cura che potrà avere per lei e su di lei questa non
amatissima zia. «Purtroppo, l’agosto a Londra era grigio
e minaccioso, non freddo, ma mai limpido o fresco. La zia Clare,
un’instancabile camminatrice, mi trascinò a vedere
tutti i monumenti e i posti famosi, e dopo una settimana, cominciai
ad addormentarmi nei luoghi più impensati: St.Paul ,
Westminster Abbey, il museo di Madame Tussaud, la Wallace Collection,
lo zoo, perfino in paio di negozi. La zia camminava in fretta, ma
distrattamente e mi era facile restare indietro e cercare una sedia o
una panchina su cui lasciarmi andare».
Proseguendo nella
lettura del frizzante testo, incontriamo l’irrequieta
protagonista da espatriata in Inghilterra, scendere giù a
ballerina di fila a comparsa del demi-monde londinese, vedova bianca
di un carcerato olandese, parigina derelitta e affamata, protegée
di Ford Madox Ford e infine anziana solitaria nel piovoso Devonshire,
dove il successo del «Grande mare dei sargassi» è
arrivato troppo tardi, quando ormai l’autrice aveva vissuto e
patito le varie identità di cui leggiamo, attoniti, addolorati
e divertiti nella silloge, prevalentemente composta da racconti brevi
e sfrontati, capaci anche di suscitare in noi sentimenti di pena e
dolore, soprattutto quando Jean Rys sa rivelarci l’allarmante
esibizione dei meandri più bui della sua contorta
personalità.
Avremmo voluto almeno che la gloria
letteraria non le fosse giunta così tardiva, che non avesse
dovuto subire umiliazioni così cocenti di cui qui scrive come
se non gliene importasse. E, invece, si capisce che ne soffre più
di quanto voglia far apparire, se scrive in «Una notte»:
«Senza un soldo, marcia. Peggio . . . malata e impaurita a
morte! Ma peggio ancora è come odio la gente. È come se
dentro di me qualcosa si ritraesse dall’umanità,
rabbrividendo. Lo sguardo delle persone, soprattutto quando ridono, è
meschino e crudele».
Forse, se fosse stata di animo meno
tortuoso, non avrebbe saputo darci pagine tanto coinvolgenti come
quelle del suo tardivo capolavoro. Dalle figure geniali dobbiamo
aspettarci anche questo.
Grazia
Giordani
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