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  Letteratura  »  Io una volta abitavo qui, di Jean Rhys, edito da Adelphi e recensito da Grazia Giordani 04/07/2017
 

Io una volta abitavo qui



La prosa tagliente e l’animo tortuoso della grande Rhys

La scrittrice inglese resa famosa da «Il grande mare dei sargassi»



Chi ha letto «Il grande mare dei sargassi», capolavoro di Jean Rhys,(1890-1979), prequel di Jane Eyre, addirittura risposta postmoderna e postcoloniale al capolavoro di Charlotte Brontë, ritroverà  in «Io una volta abitavo qui» (Titolo originale: «The Collected Short Stories» pp.157, euro 16) che Adelphi ci propone tradotto da Marisa Caramella e Laura Noulian, la stessa prosa tagliente e spietata, senza mezze misure, di un’ autrice che ebbe una vita rocambolesca.  Nata in Dominica da genitori di origini britanniche, studiò a Londra sognando di fare l’attrice. Rimasta priva di risorse, dopo la morte del padre, rifiutata dallo snob mondo teatrale, per via del marcato accento caraibico, frequentò gli ambienti bohémien che descrisse nei primi romanzi usciti tra il 1929 e il 1939. Poi scomparve dalla scena letteraria, finché nel 1966 «Il grande mare dei sargassi» la consacrò fra i grandi autori di lingua inglese.
La silloge «Io una volta abitavo qui», di cui stiamo trattando, venne pubblicata in varie raccolte tra il 1927 e il 1976.
Qui la incontriamo bambina col vestito di piquet in una Dominica insieme sordida e fiabesca, poi riluttante collegiale espatriata in Inghilterra. «Un caldo e silenzioso pomeriggio di luglio mi dissero che sarei andata in Inghilterra con la zia Clare, che era nostra ospite da sei mesi. Dovevo andare a scuola in un posto che si chiamava The Perse, a Cambridge». La ragazzina irrequieta non è dello stesso parere del padre, convinto degli effetti benefici dell’educazione e della cura che potrà avere per lei e su di lei questa non amatissima zia. «Purtroppo, l’agosto a Londra era grigio e minaccioso, non freddo, ma mai limpido o fresco. La zia Clare, un’instancabile camminatrice,  mi trascinò a vedere tutti i monumenti e i posti famosi, e dopo una settimana, cominciai ad addormentarmi nei luoghi più impensati: 
St.Paul , Westminster Abbey, il museo di Madame Tussaud, la Wallace Collection, lo zoo, perfino in paio di negozi. La zia camminava in fretta, ma distrattamente e mi era facile restare indietro e cercare una sedia o una panchina su cui lasciarmi andare».
Proseguendo nella lettura del frizzante testo, incontriamo l’irrequieta protagonista da espatriata in Inghilterra, scendere giù a ballerina di fila a comparsa del demi-monde londinese, vedova bianca di un carcerato olandese, parigina derelitta e affamata, protegée di Ford Madox Ford e infine anziana solitaria nel piovoso Devonshire, dove il successo del «Grande mare dei sargassi» è arrivato troppo tardi, quando ormai l’autrice aveva vissuto e patito le varie identità di cui leggiamo, attoniti, addolorati e divertiti nella silloge, prevalentemente composta da racconti brevi e sfrontati, capaci anche di suscitare in noi sentimenti di pena e dolore, soprattutto quando Jean Rys sa rivelarci l’allarmante esibizione dei meandri più bui della sua contorta personalità.
Avremmo voluto almeno che la gloria letteraria non le fosse giunta così tardiva, che non avesse dovuto subire umiliazioni così cocenti di cui qui scrive come se non gliene importasse. E, invece, si capisce che ne soffre più di quanto voglia far apparire, se scrive in «Una notte»: «Senza un soldo, marcia. Peggio . . . malata e impaurita a morte! Ma peggio ancora è come odio la gente. È come se dentro di me qualcosa si ritraesse dall’umanità, rabbrividendo. Lo sguardo delle persone, soprattutto quando ridono, è meschino e crudele».
Forse, se fosse stata di animo meno tortuoso, non avrebbe saputo darci pagine tanto coinvolgenti come quelle del suo tardivo capolavoro. Dalle figure geniali dobbiamo aspettarci anche questo.



Grazia Giordani


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