Le
libere donne di Magliano – Mario Tobino –
Mondadori – Pagg. 144 – ISBN 9788804492566
- Euro 9,00
Cosa
significa essere matti?
“E
questa malattia, che non si sa se è una malattia, la nostra
superbia ha denominato pazzia.”
Non
un romanzo, ma una sorta di diario, di cronaca, attenta e
profondamente umana, della vita tra le mura di un ospedale
psichiatrico nelle vicinanze di Lucca, quello di Maggiano alias
Magliano, presso il quale l’autore lavorò a lungo come
medico.
Mario
Tobino, di cui non avevo letto ancora niente e che ho scoperto
letterariamente prolifico, mi si è svelato come un grande
scrittore, capace di raccontare un mondo per buona parte nascosto e
sconosciuto ai più. Tante le vicende che rivivono tra queste
pagine, piccole storie non soltanto di pazienti (e non esclusivamente
donne), ma anche del personale in servizio presso quella struttura.
Il manicomio stesso, sospeso in una dimensione temporale perennemente
al presente, emerge come un microcosmo dove, in definitiva, il
confine tra follia e sanità mentale non sempre è così
netto. Ma la pazzia esiste davvero? E qual è il senso del suo
esistere? Non ho potuto fare a meno di soffermarmi su alcune
riflessioni dell’autore, compresa quella che ho riportato come
titolo:
“Cosa
significa essere matti? Perché si è matti? Una malattia
della quale non si sa l’origine né il meccanismo, né
perché finisce o perché continua.”
“[…]
i matti non hanno né passato né futuro, ignorano la
storia, sono soltanto momentanei attori del loro delirio che ogni
secondo detta, ogni secondo muore, appunto perché fuori del
mondo, vivi solo per la pazzia, quasi avessero quel compito: di
dimostrare che la pazzia esiste. Incomprensibili piante senza radici,
ombre che blaterano parole senza senso e senza memoria.”
A
parte un paio di rapidi accenni all’elettroshock e vari
riferimenti alla nuda cella dove venivano rinchiuse per giorni le
malate più esagitate, il libro non parla delle cure
psichiatriche cui si ricorreva all’epoca, come se certe cose,
forse per deontologia professionale, non dovessero fuoriuscire; del
resto, non si dimentichi che correva l’anno 1953 quando l’opera
fu pubblicata: si era ancora lontani dalla presentazione della Legge
Basaglia e all’interno dei manicomi non era certo un gran bel
vivere. Forse Tobino ha fatto bene a non essersi addentrato nello
specifico delle terapie; c’è già abbastanza
dolore in ciò che ha scritto, non c’era bisogno di
aggiungerne dell’altro, rischiando, per di più, di
cancellare la poesia che si respira nella sua prosa pacata e
malinconica, come quando si sofferma sul canto delle cicale e sullo
scorrere imperturbabile delle stagioni intorno al colle del
manicomio.
“Le
libere donne di Magliano” è uno di quei capolavori
silenziosi e discreti da leggere con profondo rispetto per la vita e
la morte che vi scorrono dentro, ricordandoci sempre dell’estrema
fragilità della nostra esistenza.
Laura
Vargiu
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