Conte,
scrittore e pure attore
di
Renzo Montagnoli
Fra
i personaggi mantovani meritevoli di una sia pur breve nota non
poteva mancare il conte Giovanni Nuvoletti, un uomo che nella sua non
certo breve vita (era nato a Gazzuolo il 16 ottobre 1912 e morì
ad Abano Terme il 4 aprile 2008) ebbe modo di esprimersi
artisticamente sia in campo letterario che in quello cinematografico.
Premetto che non eccelse nell’uno e nell’altro, ma che
comunque onorò sempre dignitosamente il suo nome, al di là
del blasone. Figlio di un ingegnere, studiò legge e si laureò
in giurisprudenza, maturando fin dagli anni giovanili la passione per
lo studio dei costumi e per il galateo. Il titolo nobiliare e la
ricchezza di famiglia non lo resero però un individuo
scostante e affetto da manie di superiorità (almeno così
mi diceva mio padre che era un suo amico di gioventù); ciò
non gli impediva ovviamente di condurre una bella vita, che è
un po’ il desiderio di ognuno di noi. A detta di tutti era un
uomo di charme e in quanto tale ebbe fortuna con le donne, sposandosi
anche due volte, l’ultima con Clara Agnelli, sorella
dell’avvocato Gianni Agnelli. Per quanto concerne la sua
attività artistica, questa si sviluppò assai tardi ed
iniziò con il cinema nel 1969 con la parte del professor
Gustavo Azzarini nel film di Luigi Salce (Alberto Sordi attore
principale) Il
prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste
convenzionata con le mutue, a
cui seguirono due altre pellicole nel 1971 (Reazione
a catena
di Mario Bava, e Le
belve,
di Giovanni Grimaldi). Il passaggio dal grande schermo al piccolo
schermo fu semplice, in una serie televisiva diretta e interpretata
da Ugo Tognazzi (FBI
– Francesco Bertolazzi Investigatore)
e poi con la cura della rubrica Le
buone maniere ieri nell’Almanacco
del giorno dopo.
La passione letteraria fu analogamente avara di produzioni, ma a
parte i saggi Vestire
una bambina (1997),
La
cucina d’oro
(1997), Istruzioni
per un matrimonio: galateo per la cerimonia
(2000) e Elogio
della cravatta
(1982), le sue opere più riuscite, e anche di buona qualità,
restano i romanzi Un
matrimonio mantovano
(1972) e Un
adulterio mantovano
(1981). Il primo è una dolce storia d’amore in una
civiltà contadina ancora ben lontana dalla sua fine. Qualcuno
lo ha anche definito, esagerando e anche fraintendendo, come
I promessi sposi
mantovani, ma a differenza dell’opera manzoniana la trama è
completamente diversa e inoltre qui la scrittura è leggera,
sembra quasi che la penna scivoli sulla carta. Vi si parla di cose di
poco conto, piccole le definiremmo, che però vengono viste
come grandi, mentre i temi di un certo rilievo, anche importanti,
sono trattati apprezzabilmente in modo lieve. Il romanzo incontrò
un buon favore di pubblico, il che spinse l’autore a dargli un
seguito con Un
adulterio mantovano,
romanzo completamente diverso e che non è solo la storia di un
tradimento, ma anche la descrizione di un’epoca, la Belle
Epoque, che verrà spazzata via dalla guerra. I gradimenti
furono buoni, ma non al livello delle aspettative, un po’ per
la maggiore complessità del romanzo, e forse anche perché
erano trascorsi 9 anni dall’uscita del primo, venendo a mancare
quel sapore di novità di un’opera scritta da quello che
era considerato universalmente un dandy e che nonostante le sue
caratteristiche di personaggio di indubbio interesse veniva sempre
più identificato come “il cognato dell’avvocato”.
E’
stato, forse, l’ultimo raffinato di un mondo sgretolato da ben
due guerre mondiali, personaggio lui stesso prima ancora che artista,
una di quelle figure che lasciano il mondo senza epigoni.
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