La
perfezione del tiro – Mathias Enard – e/o
Edizioni – Pagg. 183 – ISBN 9788833570013
– Euro 16,00
L’imperfezione
dei sentimenti
Potrebbe
essere quello della martoriata Siria oppure quello del sempre fragile
Libano lo scenario bellico che fa da sfondo alla vicenda narrata ne
“La perfezione del tiro”, romanzo con cui Mathias Énard
ritorna ora nelle librerie italiane dopo il successo di “Bussola”
di un paio d’anni fa.
Anche
se non all’altezza di quest’ultimo, vincitore a suo tempo
del prestigioso Premio Goncourt, il libro conferma anzitutto la
profondità e la piacevolezza della prosa di questo scrittore
francese; in esso, oltretutto, si ritrova presumibilmente un
frammento di quel Vicino Oriente a lui così caro, seppure
spoglio dei suoi caratteri ormai distintivi (dalle moschee al velo
islamico) che sembra addirittura strano non incontrare. È
infatti fra gli orrori di un’ordinaria guerra civile di
quell’area (ma non sarebbe poi tanto improbabile, in verità,
nemmeno se si trattasse dell’odierna Libia allo sbando) che si
muove il protagonista di queste pagine, un giovane uomo cresciuto
troppo in fretta proprio a causa dello scoppio del conflitto. Un
anonimo io narrante che fin dall’incipit trascina il lettore
nell’oscuro vortice della sua storia: “La cosa più
importante è il respiro. Il suo ritmo lento e regolare, la
pazienza del respiro; per prima cosa devi ascoltare il tuo corpo,
ascoltare i battiti del cuore, la calma del braccio, della mano. Il
fucile deve diventare una parte di te, un tuo prolungamento. La cosa
più importante non è il bersaglio, sei tu.”
Un
combattente rispettato, si definisce lui stesso più di una
volta; un assassino, a detta di altri che, pur rispettandolo, lo
temono e, a seconda dei casi, lo disprezzano. Un cecchino freddo,
razionale, paziente che spara poco, ma a colpo sicuro, e al quale non
importa, quando lo fa, se nel mirino del suo fucile compaiano uomini
o donne, vecchi o bambini. Un ragazzo, tuttavia, che non trova il
coraggio di uccidere la madre ormai in preda alla follia più
tremenda e che si turba ed emoziona pensando a Myrna, l’orfana
che lui prende in casa per occuparsi proprio della madre. Sarà
la passione per questa quindicenne dal “corpo quasi da donna e
un sorriso da ragazzina”, trasformatasi infine in ossessione, a
mettere in luce la profonda contraddizione tra le sue due anime:
quella del combattente spietato e quella del giovane di diciotto anni
che non può non sentire disgusto per ciò che vede
intorno a sé, e che compie in prima persona, né
trattenere le lacrime.
“Forse
la stanchezza e la tensione si accumulano come una polvere invisibile
che un bel giorno bisogna spazzar via con le lacrime.”
Il
libro, mentre mostra il volto nudo e crudo di una guerra senza nome,
offre nel complesso una lettura molto scorrevole e ricca di spunti di
riflessione non di poco conto; ben riuscita, inoltre, la scelta di
non appesantire lo scenario del conflitto descritto con alcun
riferimento geografico né di tipo politico-culturale,
prediligendo in tal senso una sorta di vaghezza di tempi e luoghi a
tutto vantaggio dell’approfondimento della complessa psiche del
protagonista e di quella imperfezione di sentimenti cui sembra essere
condannata l’umanità in generale. Drammaticamente
realistica e priva di speranza di conclusione, la guerra stessa
sgorga dalla penna dell’autore quasi come una entità a
sé stante, protagonista a pieno titolo al pari di chi la vive
e la racconta: “[…] andava e veniva senza una logica,
come da sé; si concentrava in un punto per una settimana e poi
si allargava, si estendeva per qualche tempo a tutto il paese prima
di ripiegarsi per poi allargarsi di nuovo, come un cane che dorme.”
Le sue nefandezze la rendono una spettrale terra di nessuno, dove il
confine tra bene e male è sempre più labile e si
confonde pericolosamente, scandito dall’eco degli spari
improvvisi che arrivano dall’alto degli edifici
sventrati.
Alcune
parti della narrazione, però, non risultano del tutto
convincenti, come quella in cui, verso la fine, si organizza e si
esegue la spedizione militare in montagna, pagine che, a mio avviso,
catturano molto meno l’attenzione di chi legge facendo svanire
la sottile magia delle parole di cui il romanzo, in particolare
all’inizio, è intriso. Del resto, la guerra, quando la
si vede da vicino, imbruttisce tutto e tutti; cos’altro
dovremmo aspettarci? Speranza? Giustizia? Umanità? Di certo,
non un epilogo felice.
Laura
Vargiu
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