Khalil
– Yasmina Khadra – Sellerio – Pagg. 260 –
ISBN 9788838938276
– Euro 16,00
Vivere
e lasciar vivere
Che
cosa spinge un giovane musulmano, nato e cresciuto in Europa, a
imbottirsi d’esplosivo per farsi saltare in aria in mezzo alla
folla di una metropoli occidentale? Perché in tanti, troppi,
si lasciano abbagliare dalle parole di falsi profeti che istigano
alla violenza quale unica strada da seguire? Cosa alimenta la rabbia
delle periferie, smisurata a tal punto da sfociare in attentati e
massacri indiscriminati perpetrati in nome di Dio?
Avvincente
ed emozionante, l’atteso nuovo romanzo di Yasmina Khadra cerca
di trovare risposte a tali quesiti, presentandosi come una lettura
particolarmente invitante per chi sia interessato ad approfondire
temi di forte attualità come quelli dell’integrazione e
del terrorismo legato all’estremismo islamico. Fin
dall’incipit, l’argomento viene affrontato di petto,
senza mezzi termini: “Eravamo quattro kamikaze. La nostra
missione consisteva nel trasformare la festa allo Stade de France in
un lutto planetario.”
Lo
scenario iniziale prescelto è quello della Parigi degli
attentati del 13 novembre 2015, ancora ben vivi nella memoria
dell’opinione pubblica internazionale. Khalil, il protagonista,
un ragazzo di origini marocchine che vive in Belgio, è uno dei
kamikaze incaricati d’innescare la miccia di quel grande
macello che avrebbe avuto risonanza a livello appunto planetario.
Qualcosa, però, va storto e per lui, destinato al paradiso dei
cosiddetti martiri, si apre sulla terra stessa un inferno forse
peggiore di quello dell’oltretomba. Ventitré anni
vissuti tra problemi familiari, insuccessi scolastici e
disoccupazione, il giovane appartiene alla seconda generazione
d’immigrati per la quale, in molti casi, la piena integrazione
nel Paese di accoglienza non si è realizzata e il cui disagio
e aspirazioni frustrate vengono intercettate da organizzazioni
terroristiche subdolamente mascherate da moschee e centri culturali;
da qui a ritrovarsi reclutati in operazioni suicide il passo è
più breve di quel che si possa immaginare.
“Poi
una sera un vicino, un amico o qualcuno che conosci appena comincia a
elogiare le prediche dell’imam dell’angolo. […]
Alla fine ti convince a seguirlo nel buco dove officia l’imam.
[…]E così eccoti lì a orecchiare distrattamente,
annoiandoti in mezzo al gregge. […] Quanto all’imam, ha
una risposta a tutte le domande su cui un tempo ti arrovellavi senza
trovare un indizio che ti illuminasse. L’imam ti rimanda alle
tue sconfitte, alle vessazioni che credevi di aver superato, alle
ferite mai cicatrizzate – il poveraccio diventa tuo sosia, il
ribelle tuo fratello siamese, le prediche la tua valvola di sfogo, la
violenza la tua legittimazione. Al diavolo i razzisti, a morte gli
islamofobi: non porgerai più l’altra guancia.”
Non
esser riuscito a portare a termine la missione parigina, oltretutto
non per responsabilità propria, non gli preclude la
possibilità di prendere parte a un’altra operazione,
pianificata con estrema cura, ma nel frattempo, prima che il destino
di Khalil si possa compiere in una famosa e affollata piazza di
Marrakech, l’imprevedibile lo colpirà negli affetti più
cari, all’improvviso e senza pietà, facendo vacillare la
fortezza delle sue convinzioni incrollabili e la fede cieca riposta
in un Islam manipolato ad arte da chi, caso strano, quando è
il momento di agire, non indossa mai cinture esplosive né si
sporca le mani di sangue in prima persona.
Con
un ottimo stile narrativo che fa perno su un io narrante
straordinariamente coinvolgente e convincente, la penna dello
scrittore algerino ci sorprende con una storia drammatica che non può
non indurre a riflettere; una storia che, attraverso tutti i suoi
personaggi, da quelli principali a quelli secondari, tenta di scavare
a fondo nella questione, e forse ci riesce pure, evitando banalità
e spiegazioni superficiali e andando oltre il concetto di jihad così
come ci viene somministrato in modo semplicistico dall’informazione
dei media. Parola dopo parola, Yasmina Khadra analizza una pericolosa
situazione in seno all’Occidente che si deve sì
combattere, ma soprattutto prevenire; ci sono intere pagine davvero
significative che danno vita al tormentato monologo interiore del
giovane Khalil, pagine in cui, se le si legge e rilegge con
attenzione, sta la chiave di tutto.
Il
libro punta il dito contro il terrorismo e il fatto che l’autore
sia musulmano dà ancor più rilevanza a tale condanna
senz’appello; oltretutto, la sua non è una voce isolata
all’interno del mondo islamico poiché nessun vero
credente può accettare che si commettano simili atrocità
in nome di Allah e del suo Profeta. Spesso si addita il Corano in
quanto testo che incita alla violenza, ma in realtà i versetti
incriminati andrebbero anzitutto contestualizzati, cioè
valutati tenendo ben conto dell’epoca storica e del contesto
socio-politico in cui essi furono rivelati; del resto, a ben vedere,
anche la nostra Bibbia si presenta molto dura sotto certi aspetti,
nessuno però si sogna di applicare alla lettera quanto lì
scritto altrimenti dovremmo ridurci a sottostare alla legge del
taglione. E poi il libro sacro dell’Islam, estremamente
complesso anche per i musulmani stessi, afferma tanto altro in fatto
di giustizia, pace e conoscenza tra i popoli e i ragazzi indottrinati
nelle pseudomoschee delle città europee, proprio come emerge
dai fatti di cronaca e anche dal romanzo di Khadra, per lo più
non leggono il Corano, accontentandosi delle dubbie interpretazioni
di ciarlatani e sedicenti califfi che mistificano la parola di
Dio.
Dalle
pagine di questo libro, dunque, arriva inequivocabile la condanna del
terrorismo, ma anche un monito all’Europa e all’Occidente
in generale: agire affinché si combattano, in primis
attraverso l’istruzione, razzismo e islamofobia che non hanno
ragion d’essere e che, purtroppo, dilagano ormai nelle nostre
società tronfie di una superiorità più presunta
che reale; e poi impegnarsi per sradicare povertà,
ineguaglianza e ignoranza, prima a casa nostra e magari anche in giro
per il mondo. Perché senza seminare giustizia ci
autodistruggeremo e fra cento anni staremo ancora a parlare di guerre
sante facendo il gioco di coloro che con esse ci guadagnano. Soltanto
così si potranno arginare l’odio e la rabbia delle
periferie, sia quelle delle nostre città dove si concentrano
gli immigrati sia di quelle tra le più povere del mondo.
Soltanto così si potrà di nuovo nutrire speranza nel
futuro. Perché, per dirla con le parole del vecchio Moka, uno
dei tanti sconfitti dei quartieri ghetto come quello di Molenbeek,
che riecheggeranno alla fine del romanzo, il segreto è “vivere
e lasciare vivere. Niente è più prezioso della vita e
nessuno ha il diritto di toglierla.”
Laura
Vargiu
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