La
punizione – Tahar Ben Jelloun – La nave di
Teseo – Pagg. 138 – ISBN 9788893445214
– Euro 17,00
Il
valore della libertà
Ci
sono voluti quasi cinquant’anni prima che Tahar Ben Jelloun
trovasse le parole giuste per raccontare la sua storia. Proprio lui,
che, di storie, ne ha scritte una infinità, paradossalmente,
non riusciva a scrivere la propria. Perché quella narrata ne
“La punizione”, il nuovo romanzo dello scrittore
marocchino nativo di Fes e residente da lungo tempo in Francia, è
una vicenda che sa di memoria e profonda amarezza. Un viaggio a
ritroso seguendo le pesanti orme del tempo, una rielaborazione
dolorosa ma necessaria di quanto accaduto tanti anni fa per poter
chiudere i conti con un passato che non è possibile cancellare
né ignorare del tutto.
Era
il marzo del 1965 quando gruppi di studenti universitari
manifestarono pacificamente per le strade di Rabat e Casablanca; in
quell’occasione, la repressione, piuttosto brutale, non si fece
attendere. Tra quei ragazzi, c’era anche Tahar Ben Jelloun,
all’epoca studente di filosofia. L’anno seguente, per lui
e una novantina di altri giovani che erano stati segnalati, la
“punizione” bussò alla porta di casa sotto forma
di perentoria convocazione a presentarsi presso uno sperduto campo
militare nelle vicinanze della città di Meknès, nel
nord del Paese. Era l’epoca in cui molta gente spariva
all’improvviso, inghiottita dalla cieca violenza del regime
dell’allora sovrano Hassan II, e si viveva in un continuo clima
di paura; esercito e polizia, avendo carta bianca, facevano ricorso a
qualunque mezzo pur di reprimere ogni possibile dissenso. La
monarchia ’alawide offriva il volto forse peggiore di tutta la
sua storia.
“Cosa
abbiamo fatto di così grave? Organizzarci legalmente,
manifestare pacificamente, reclamare libertà e rispetto.”
Per
tutta risposta, vennero spediti anzitutto al campo militare di El
Hajeb, dove ebbe così inizio un vero e proprio internamento,
il cui scopo ufficiale era quello di rieducarli e insegnar loro a
diventare bravi cittadini, all’insegna del vecchio e abusato
slogan “Allah, al-watan, al-malik” (“Dio, la
patria, il re”) che ancora oggi si vede scritto a grandi
caratteri e disseminato qua e là per il Marocco. A scandire le
lunghe giornate in quel luogo poco ameno si susseguivano
maltrattamenti, umiliazioni, privazioni di ogni genere alla completa
mercé di comandanti militari semianalfabeti, psicopatici e
privi di scrupoli, spesso in preda a delirio di
onnipotenza.
Picchiati,
denutriti, sporchi e infreddoliti, con i capelli costantemente rasati
a zero, i “puniti” venivano tenuti nel più totale
isolamento, senza che le rispettive famiglie sapessero ciò che
in realtà accadeva; per di più, perdere la vita per il
minimo accenno di ribellione o a causa di pericolose simulazioni di
operazioni di guerra (non mancavano, infatti, le tensioni con la
vicina Algeria) rischiava di essere tutt’altro che improbabile.
Il giovane Tahar trascorse oltre un anno e mezzo in quello stato di
detenzione, mentre a sostenerlo accorrevano, per fortuna, la tenacia
della sua poesia, il profondo amore per la letteratura e, da grande
appassionato di cinema quale era, la magia delle immagini dei film
che amava, come quelle di Charlie Chaplin nei panni di Charlot.
“[…]
di fronte alla sensibilità, alla intelligenza, il potere
oppone la brutalità e la stupidità. La prima arma è
l’umiliazione, questa violenza che consiste nel declassarci,
nel metterci sull’orlo del baratro minacciandoci di darci un
calcio nella pancia. Mi aggrappo ai ricordi delle mie letture; non so
se recito fedelmente ciò che ho letto o invento delle frasi.
Ho in mente Dostoevskij, ?echov, Kafka, Victor Hugo… […]
Nella mia testa sfilano scene dai film di Charlie Chaplin. Perché
il bravo Charlot viene a trovarmi in questa terra ingrata e macchiata
da militari abietti? Ne rido di nascosto […] Quell’omino
che riesce a ridicolizzare i violenti che lo perseguitano mi
ossessiona. Quel genio ha vendicato milioni di umiliati nel mondo.
Ecco, questa era la sua missione, il suo disegno. Grazie,
Charlot.”
Poi,
inattesa e quasi irreale, la fine della prigionia, anche se le sue
catene sembravano trascinarsi pure nella vita civile (“Sono
stato liberato ma non sono libero.”). La vera liberazione, non
a caso, arriverà soltanto diverso tempo dopo e a seguito di un
evento davvero sorprendente e imprevedibile…
Una
prosa che cattura fin dalle prime battute, appassionante ed
estremamente fluida per un romanzo che si fa testimonianza diretta,
viva, palpitante e che riconferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno,
le straordinarie doti di narratore di Tahar Ben Jelloun, nome tra i
più noti e apprezzati sulla scena letteraria internazionale.
Il suo linguaggio semplice e chiaro che si propone con garbo, le sue
denunce, i suoi messaggi di pace e tolleranza religiosa (a tal
proposito, invito a leggere le bellissime e istruttive pagine del
breve saggio “L’Islam spiegato ai nostri figli”,
Bompiani, 2001), il suo chiamare tutto col proprio nome e raccontare
le cose così come stanno senza edulcorazioni di sorta fanno di
lui un autore particolarmente interessante da seguire. Quest’ultimo
suo lavoro, nello specifico, come spesso accade in molte opere della
vastissima produzione di Ben Jelloun, punta l’attenzione su un
Paese, il Marocco, dietro la cui immagine patinata di meta turistica
più o meno a buon mercato persistono problemi assai gravi,
quali tortura per dissenso politico, sempre mal tollerato dalle
autorità, e corruzione abnorme che rallenta l’apparato
burocratico e calpesta i diritti dei cittadini, sebbene sotto
l’attuale sovrano Mohammed VI, non certo temuto come il
terribile padre Hassan II, siano stati realizzati importanti ma non
ancora sufficienti cambiamenti.
Infine,
un romanzo che, attraverso la vicenda personale del suo autore, ci
parla del valore della libertà, di quanto essa sia preziosa
per la nostra dignità di esseri umani e di come, talvolta,
basti davvero poco per perderla.
“Sarei
potuto uscire dal campo cambiato, indurito, adepto della forza e
anche della violenza, ma sono uscito com’ero entrato, pieno di
illusioni e tenerezza per l’umanità. So che mi sbaglio.
Ma senza quella prova e quelle ingiustizie non avrei mai potuto
scrivere.”
Laura
Vargiu
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