L’inferno
di Treblinka – Vasilji Grossman – Adelphi –
Pagg. 79 – ISBN 9788845924842
- Euro 6,00
Dov’è
Treblinka?
Dov’è
Treblinka?
Non
c’è! È stato distrutto questo campo di lavoro e
di sterminio dopo una furiosa attività di tredici mesi. Dopo
10.000 morti al giorno, 300.000 al mese, tre milioni in dieci mesi di
effettiva attività, se si vuole essere oggettivi e includere
le pause forzate dovute al mantenimento stesso dell’inferno.
Treblinka fisicamente non c’è più, dopo la
rivolta dei suoi detenuti, quelli condannati a viverci perché
detentori di abilità manuali necessarie o di abilità
professionali imprescindibili alla sussistenza del lager stesso,
rivolta datata 2 agosto 1943 che portò alla fuga di pochi e
alla distruzione per mano nazista di una testimonianza che si voleva
rendere invisibile e mai esistita. Già Himmler, dopo la
sconfitta della Battaglia di Stalingrado, provvide di suo ad affinare
il negazionismo mentre l’opera era ancora in vita: con una
visita fulminea decretò un netto miglioramento dell’operazione
di sparizione dei cadaveri. Era ormai improbabile e fuori luogo farli
sparire in fosse comuni la cui terra brulicava di insetti grassi e di
continua restituzione fisica di prove dell’annientamento;
occorreva ora progettare forni capaci di bruciare una quantità
enorme di cadaveri fatti riemergere dal fondo della terra e
continuare, col nuovo metodo, a smaltire i nuovi arrivi. Perché
questo era Treblinka: una precisissima macchina della morte, a ruota
continua, un congegno ad alta mortalità a rispecchiare la
produttività delle migliori catene di montaggio. Non si
risiedeva a Treblinka, non si pativa la fame, non si subiva
estenuante lavoro, si arrivava e subito, attraversando meticolose
fasi di preparazione, si moriva, subito, previo diabolico
annientamento dell’essere umano che ancora respirando, facendo
battere il suo cuore, pensando, avendo paura, provando orrore,
subendo incredibili e subitanee violenze ante- mortem era lì
in piedi a stiparsi verso le camere a gas. Il gas, prerogativa tutta
sua, non era lo Zyklon B, no, qui si procedeva con il gas di scarico
del carro armato, capace di far respirare a vuoto e di far morire
come per strangolamento, o con l’assenza completa di ossigeno
che veniva aspirato appositamente dalle camere, o ancora con
immissioni di vapore. Taccio tutto l’altro orrore letto e
procedo rendendo un infinito grazie a Grossman, lui nell’autunno
del 1944 è lì e scrive il suo reportage mentre la terra
sputa fuori ciò che la mente stenta ancora a credere:
brandelli di vesti, tessuti col ricamo ucraino, capelli, , pantaloni,
scarpe, candelabri…il suo scritto apparso sulla rivista è
letto al collegio d’accusa del processo di Norimberga. È
fondato su decine di testimonianze di prima mano: i pochi superstiti,
gli abitanti dei dintorni, le guardie. È pervaso da un
sentimento di orrore e di incredulità ma soprattutto da quel
monito a noi così familiare, lo stesso della poesia “Shemà”
che precede “Se questo è un uomo”. È un
monito a non dimenticare “quanto sia facile uno sterminio di
massa”.
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