Jesus’son
– Denis Johnson – Einaudi – Pagg. 104 – ISBN
9788806225858
- Euro 16,00
Poveri
Cristi
È
un’America anonima e spenta, pullulante di grigie periferie e
poveri cristi in balia di solitudine e tossicodipendenza, quella che
trova spazio, e voce, nelle pagine di “Jesus’ son”
dello scrittore statunitense Denis Johnson, scomparso nel 2017 e
considerato negli USA tra i maggiori autori di racconti del nostro
tempo.
Non
a caso, questo libro, pubblicato da Einaudi sul finire dello scorso
mese di novembre, si presenta come una raccolta di singoli racconti
accomunati però da quello che ha tutta l’aria di essere
il medesimo io narrante, protagonista di una vicenda i cui tasselli
sono episodi talvolta tragici e amari, talaltra quasi
surreali.
“Stavo
all’Holiday Inn da tre giorni, sotto falso nome, in compagnia
della mia ragazza, sinceramente la donna più bella che avessi
mai conosciuto, a farmi di eroina. Facevamo l’amore a letto,
mangiavamo bistecche al ristorante, ci bucavamo al cesso, vomitavamo,
piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, ci perdonavamo,
promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda.” (da
“Lavoro”)
Si
rimane colpiti sia dal contenuto dei testi sia dallo stile narrativo
dell’autore, e non sempre positivamente; in un primo momento,
forse, addirittura spiazzati e spaesati. Per quanto mi riguarda, pur
essendo un’appassionata di racconti e convinta sostenitrice del
loro grande valore letterario spesso oggi snobbato da numerosi
lettori, questi di Johnson non rientrano propriamente nel genere che
preferisco e si discostano, solo per fare un esempio, da quelli di
Nickolas Butler, altro noto autore americano contemporaneo, di cui,
nei mesi scorsi, avevo letto e molto apprezzato la raccolta “Sotto
il falò” (Marsilio, 2018).
Tuttavia,
ho trovato almeno due racconti (“Matrimonio sporco”, dove
si parla d’aborto, e “Beverly Home”), nonché
diversi passi sparsi tra gli altri titoli presenti in “Jesus’
son”, di una profondità sorprendentemente disarmante
che, d’un colpo, mi ha fatto rivalutare l’intera opera.
Il senso della solitudine che sfocia nell’emarginazione, il
peso dell’esistenza che cerca leggerezza nello sballo
artificiale e nel sesso, la sofferenza di mucchi di umanità
allo sbando emergono attraverso una scrittura che a tratti, per una
inaspettata liricità, incanta. E fa molto riflettere.
“Sono
salito su una carrozza mentre si chiudevano le porte; come se il
treno stesse aspettando proprio me. E se ci fosse solo neve? Neve
dappertutto, fredda e bianca, a riempire ogni distanza? E io che
attraverso questo inverno seguendo il mio senso delle cose, finché
non raggiungo un boschetto di alberi bianchi. E lei mi fa
entrare.
Uno
stridio di ruote, e d’un tratto ho visto solo le scarpe grosse
e brutte degli altri passeggeri. Il rumore è cessato. Abbiamo
oltrepassato scene di una solitudine straziante.
Attraverso
i quartieri e oltre i marciapiedi delle stazioni, ho sentito la vita
cancellata che mi sognava alle spalle. Sì, un fantasma. Una
traccia. Qualcosa che rimane.”
Una
lettura che, con buona probabilità, potrebbe non andare
incontro ai gusti di tutti i lettori, ma non da rigettare in toto. Di
certo, un autore da approfondire.
Laura
Vargiu
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