L’altra
verità. Diario di una diversa- Alda Merini -
BUR – Pagg. 158 – ISBN 9788817065351
– Euro 9,00
Terra
Santa
Ha
grande forza poetica questo Diario che, a detta della stessa autrice,
è “un'opera lirica in prosa”. Pagina dopo pagina,
annotazione dopo annotazione, Alda Merini ricostruisce e ripercorre
la propria esperienza personale all'interno dell'ospedale
psichiatrico Paolo Pini di Milano, dove venne fatta ricoverare dal
marito a partire dalla metà degli anni Sessanta: un lungo
dolorosissimo internamento che le avrebbe lasciato nell'anima ferite
profonde e, seppur a distanza di tempo, cicatrici destinate a non
scomparire mai più.
“Ricordo
il primo giorno che entrai in manicomio. Fin lì non ne avevo
mai sentito parlare. Avevo chiesto aiuto a dei neurologi per dei
piccoli disturbi, ma non conoscevo questi ghetti. Perché, se
avessi saputo una cosa simile, mi sarei certamente uccisa.”
Ed
ecco sfilare uno dopo l'altro, nella memoria di chi li ha vissuti
sulla sua pelle, tutti gli orrori di quello che era all'epoca il
manicomio, uno spazio strano e inumano, pieno di odori penetranti, in
cui il tempo veniva meno riducendosi a una successione di giorni
incolori sempre uguali: dalle abluzioni forzate del mattino
all'elettroshock, senza dimenticare l'abbondante e scriteriata
somministrazione di farmaci che finiva per distruggere la salute
mentale di “malati” che, in molti casi, dalla pazzia vera
e propria non erano certo affetti al momento del ricovero (spesso, in
verità, si trattava di ordinari casi di depressione o di
crollo nervoso); folli, semmai, si diventava per davvero, quasi come
autodifesa, tra le inquietanti mura del manicomio, a seguito di
trattamenti disumani e degradanti che buona parte del personale, tra
medici e infermieri, non risparmiava a chi, là dentro, era
totalmente inerme e alla sua mercé. Pochi, ma preziosi, i
gesti di umanità in quel luogo di supplizio; calpestati senza
pietà sogni e bisogni; limitata e mai incoraggiata la
socialità tra i ricoverati (anche se ciò non impedirà
alla Merini d'innamorarsi e sentire ancora la propria femminilità).
Come quella di biblica ed evangelica memoria, anche il manicomio
diveniva una sorta di Terra Santa, dove si espiavano le colpe del
mondo e ogni cosa si faceva sacra, soprattutto il dolore.
“Sì,
la Terra Santa. E noi vi eravamo immersi, in quelle latrine
puzzolenti, dalle albe (ma non vedevamo mai un'alba) al tramonto più
cieco.”
Tale
esperienza non si esauriva con la fine dell'internamento, ma si
trascinava anche oltre i cancelli dell'ospedale psichiatrico,
condizionando per sempre l'esistenza anche di chi veniva infine
dimesso, costretto a portare addosso un marchio d'infamia indelebile
fra i pregiudizi e la diffidenza delle persone cosiddette
“normali”.
“Il
manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena
che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a
disfartene mai”.
Pagine
particolarmente drammatiche, sconfortanti e cariche di dolore intenso
che, a tratti, sembra farsi palpabile nella successione talvolta
disordinata e ripetitiva degli sprazzi di memoria che la grande
poetessa milanese ha voluto qui condividere. Perché dopo il
silenzio, anche poetico-creativo, al quale erano stata costretta in
quegli anni miserevoli, sentiva forse il bisogno di raccontare,
affinché niente di tutto ciò che aveva vissuto fosse
più vittima anzitutto dell'indifferenza generale.
“La
nostra legge era il silenzio. Il silenzio gravato da mille
solitudini; un silenzio ingombrante, atono, come le foglie ferme ma
noi eravamo teneri usignuoli feriti e la nostra infelicità
dava sangue e le nostre ali erano tarpate e il nostro grembo
deserto.”
Laura
Vargiu
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