Nota
al saggio “Una stanza tutta per sè”, di
Virginia Woolf
Il
saggio, intitolato inizialmente “Le
donne e il Romanzo“, scaturisce
da due conferenze che Virginia
Woolf tenne
nell’ottobre del 1928 davanti ad un pubblico tutto al
femminile, i due scritti, modificati e ampliati, furono
pubblicati, col titolo definitivo, l’anno successivo, il 24
ottobre 1929.
Il
primo titolo nacque probabilmente dall’esigenza di capire quale
tipo di rapporto ci fosse tra le donne e il romanzo riflettendo sulla
vita delle donne dei secoli precedenti al suo, il cinquecento, il
seicento, il settecento, con particolare riferimento al cosiddetto
“periodo elisabettiano”, e soffermandosi su quel tipo di
donna che aveva, o avrebbe potuto avere, se si fosse trovata nella
situazione ideale, attitudine per la scrittura.
Un saggio,
dunque, dedicato al mondo femminile. Lo sguardo attento di Virginia
Woolf analizza principalmente due aspetti della loro vita.
Il
primo riguarda l’istruzione, la possibilità di poter
fare studi regolari, anche a livello universitario; purtroppo però
questa possibilità si scontrava spesso con la realtà,
perché le scuole e le università venivano frequentate
quasi esclusivamente dagli uomini, le famiglie infatti investivano i
propri soldi sui figli e non sulle figlie, le donne non avevano
denaro, mezzi di sostentamento personale, si occupavano della casa e
dei figli, questo veniva chiesto loro dalla famiglia e dalla società.
E quando qualcuna, più forte e determinata, si cimentava nella
scrittura e cercava un suo posto nel mondo, veniva derisa dal sesso
maschile. Gli uomini invece scrivevano un numero elevato di romanzi,
e paradossalmente parlavano quasi sempre di donne.
Ma quale era
lo scopo? La figura femminile diventava unicamente uno strumento per
accarezzare il loro narcisismo e migliorare l’autostima, con la
convinzione che le donne fossero inferiori a loro in ogni campo. Se
poi qualcuna insisteva nel coltivare la passione per la scrittura,
gli uomini, indulgenti, potevano anche accettare questa possibilità,
a patto naturalmente che la potenziale scrittrice si mantenesse
fedele ad alcune indicazioni date da loro. Ma, si chiedeva Virginia
Woolf, senza istruzione come potevano le donne vissute in quei secoli
avere qualche possibilità di diventare delle buone scrittrici?
Che esperienza di vita potevano avere, chiuse com’erano nelle
loro case? Quante di loro, pur avendo del talento letterario, hanno
avuto la possibilità di venire alla luce? Indubbiamente poche,
tra queste Emily Bronte, Jane Austen, George Eliot e George Sand,
alcune di loro scrissero inizialmente in forma anonima, altre,
utilizzando nomi maschili.
Il secondo aspetto preso in esame da
Virginia Woolf riguarda l’ambiente in cui vivevano, aspetto
strettamente collegato a ciò che è stato detto in
precedenza.
La vita della maggior parte delle donne si svolgeva
principalmente dentro casa, poche quelle che osavano andare da sole
in giro per la città, e ancora meno allontanarsi per vivere
esperienze decisamente più complesse. La loro vita si svolgeva
sostanzialmente nel soggiorno della propria casa, nessuna di loro
aveva “una stanza tutta per sè” dove poter
leggere, riflettere, scrivere in tranquillità. Le donne che
avevano in qualche modo studiato, e che amavano scrivere, dovevano
farlo in quell’unico ambiente comune; si possono immaginare le
continue interruzioni, le distrazioni, dovute a quelli che venivano
considerati i loro impegni primari. Potevano le donne, in condizioni
così ristrette, trovare una strada diversa?
Sono state
queste riflessioni a spingerla a cambiare il titolo del suo
saggio.
Un piccolo libro di appena centoquaranta pagine, ma
denso di contenuto. Ci sarebbe ancora tanto da dire, perché
tante sono le domande che la scrittrice si poneva e alle quali
provava a dare delle risposte, senza nessuna certezza, però,
come lei stessa teneva a precisare.
Prima
di concludere questa Nota, voglio scrivere alcune riflessioni su una
donna straordinaria che, pur non avendo fatto degli studi regolari,
ha lasciato un’impronta fortissima nel mondo
letterario.
Virginia Woolf dimostrò di essere un’attenta
osservatrice di ciò che avveniva intorno a lei, che fosse il
mondo naturale o quello degli uomini, una donna riflessiva che sapeva
scandagliare la realtà per poi ricomporla. La sua scrittura è
brillante, ironica, coinvolgente, mai monotona, garbata e controllata
nello stile, ma incisiva nei contenuti. Fu una donna fuori dagli
schemi, libera e pronta ad opporsi alle convenzioni sociali, quando
sentiva di non condividerle.
Mi
piace ora riportare un brano di questo piccolo capolavoro. Si tratta
di un passo che è la conclusione del sesto capitolo, l’ultimo.
In esso Virginia Woolf si rivolge per l’ultima volta alle
studentesse presenti alle sue conferenze, ma in generale a tutte le
donne che amano scrivere, e dà loro alcuni consigli che sono
ben lontani dall’essere esclusivamente letterari.
“Vi
ho già detto, nel corso della mia conferenza, che Shakespeare
aveva una sorella; ma voi non cercatela nella biografia del poeta
scritta da Sir Sidney Lee. Lei morì giovane, e ahimè
non scrisse neanche una parola. E’ sepolta là dove oggi
si fermano gli autobus, di fronte alla stazione di Elephant and
Castle. Ora, è mia ferma convinzione che questa poetessa che
non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio,
è ancora viva. Vive in voi, e in me, e in molte altre donne
che non sono qui stasera perché stanno lavando i piatti e
mettendo a letto i bambini. Eppure lei è viva. Perché i
grandi poeti non muoiono; essi sono presenze che rimangono; hanno
bisogno di un’opportunità per tornare in mezzo a noi in
carne e ossa. E offrirle questa opportunità, a me sembra,
comincia a dipendere da voi. Poiché io credo che se vivremo
ancora un altro secolo – e mi riferisco qui alla vita comune,
che è poi la vita vera e non alle piccole vite isolate che
viviamo come individui – e se riusciremo, ciascuna di noi, ad
avere cinquecento sterline l’anno e una stanza tutta per sè;
se prenderemo l’abitudine alla libertà e il coraggio di
scrivere esattamente ciò che pensiamo; se ci allontaneremo un
poco dalla stanza di soggiorno comune e guarderemo gli esseri umani
non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto
alla realtà; e così pure il cielo, e gli alberi, o
qualunque altra cosa, allo stesso modo; se guarderemo oltre lo
spauracchio di Milton, perché nessun essere umano deve
precluderci la visuale; se guarderemo in faccia il fatto –
perché è un fatto – che non c’è
neanche un braccio al quale appoggiarci ma che dobbiamo camminare da
sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà
e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si
presenterà l’opportunità, e quella poetessa
morta, che era sorella di Shakespeare, riprenderà quel corpo
che tante volte ha dovuto abbandonare. Prendendo vita dalla vita di
tutte le sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello
aveva fatto prima di lei, lei nascerà.
Ma che lei possa
nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte
nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà
possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che
davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma
io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che
lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità,
vale certamente la pena.“
Brano
tratto da “Una
stanza tutta per sè“,
di Virginia
Woolf, Oscar
Mondadori, Scrittori
del Novecento. Traduzione
di M. Antonietta Saracino. Note
di Nadia Fusini)
Virginia
Adeline Woolf nacque a Londra nel 1882, e morì a
Rodmeil nel 1941. Tra le sue opere più importanti: La camera
di Jacob, del 1922, La signora Dalloway, del 1925, Gita al Faro, del
1927, Orlando, del 1928.
Piera
Maria Chessa
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