La
reale natura della guerra? Normale crudeltà
«Il
macellaio» racconta il clima che portò al primo
conflitto mondiale
Il
capolavoro di Sandor Marai (1900-1989) sarà considerato
per sempre «LeBraci», tanto che Giulio Nascimbeni, uno
dei migliori critici letterari del Corriere della Sera, che non è
più fra noi, formatosi nelle pagine dell’Arena, usava
dire, per eccesso, che chi ha letto questo romanzo, potrebbe
astenersi dal leggere qualsiasi altra cosa.
Comunque,
Marai, vissuto fino a quasi novant’anni, è stato molto
prolifico come scrittore, quasi perseguitato, nella sua folta
produzione, dal tema del destino e dalle sue traiettorie modificate
dalle azioni eclatanti o impercettibili di uomini e donne. Questo
persistente assunto lo troviamo in particolate ne «L’isola»,
ne «L’eredità di Eszster» del 1939 e ne «La
donna giusta» del 1941.
«Il
macellaio» di cui stiamo trattando ora (Adelphi, pp.98,
euro 10, nella bella traduzione di Laura Sgarioto), presenta per
così dire una variante, rispetto le opere precedenti, cui
abbiamo accennato, qui il destino sembra restare indipendente, avulso
dalle azioni umane, e non appare nemmeno un ingombrante intruso che
scombini e condizioni l’agire dei protagonisti. Qui è la
forza prorompente e incontenibile della natura che agisce. Come una
tara ereditaria, è un’agghiacciante esempio di abiezione
spontanea, naturale e ragionevole: uccidere animali in un mattatoio o
soldati nemici in guerra non fa una grande differenza per Otto
Schwarz, il protagonista.
Nell’ottica
dell’Autore, continua ad essere la guerra lo stolido e
pericoloso palcoscenico della follia delle nazioni che,
inconsideratamente, vi aderiscono.
Se
sotto «Le Braci» si sottendevano la Prima e la Seconda
guerra mondiale, nel «Macellaio» uccidere in guerra
diventa qualcosa di inevitabile come una naturale vocazione, come un
elemento che portiamo nel nostro DNA cui non possiamo sottrarci.
Le
aspre pagine dell’incipit che ci narrano sotto quali infausti
presagi viene concepito Otto, figlio di un sellaio di una cittadina
del margravio del Brandeburgo, negli ultimi anni dell’Ottocento
(«Nacque di dieci mesi e con i denti. Il parto costò la
vita alla madre») ci fanno subito capire – come rileva
acutamente anche Laura Sgarioto, traduttrice dell’aspro romanzo
– che l’animo brutale del personaggio anticipa la figura
di Moosbrugger, il memorabile criminale de «L’uomo senza
qualità» di Musil.
Marai
ha saputo concentrare in un personaggio l’incontenibile
sommovimento psichico che condusse alla prima guerra mondiale e
devastò gli anni successivi. Ma racconta tutto questo con la
pacatezza, con lo scrupolo e la concisione di un cronista, come
qualcosa che appartiene a una nuova, terrificante normalità.
Otto,
un giorno, vede un macellaio all’opera «la scure
scintillava al sole, come gli occhi della mucca, che egli scrutò
da vicino e sulla cui cornea si rifletteva placidamente la rimessa,
la taverna, i carri e la sua stessa immagine. L’istante in cui
vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a
terra, s’impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia
trionfale».
Marai
ci conduce abilmente per mano verso l’epilogo del parossismo
della crudeltà, con la consueta magistrale prosa intelligente
e pacata, tipica del grande auto
Grazia
Giordani
Blog
|