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  Letteratura  »  Il macellaio, di Sandor Marai, edito da Adelphi e recensito da Grazia Giordani 04/05/2019
 
La reale natura della guerra? Normale crudeltà

«Il macellaio» racconta il clima che portò al primo conflitto mondiale

 


 

Il capolavoro di Sandor Marai (1900-1989) sarà considerato per sempre «LeBraci», tanto che Giulio Nascimbeni, uno dei migliori critici letterari del Corriere della Sera, che non è più fra noi, formatosi nelle pagine dell’Arena, usava dire, per eccesso, che chi ha letto questo romanzo, potrebbe astenersi dal leggere qualsiasi altra cosa.

Comunque, Marai, vissuto fino a quasi novant’anni, è stato molto prolifico come scrittore, quasi perseguitato, nella sua folta produzione, dal tema del destino e dalle sue traiettorie modificate dalle azioni eclatanti o impercettibili di uomini e donne. Questo persistente assunto  lo troviamo in particolate ne «L’isola», ne «L’eredità di Eszster» del 1939 e ne «La donna giusta» del 1941.

«Il macellaio» di cui stiamo trattando ora (Adelphi, pp.98, euro 10, nella bella traduzione di Laura Sgarioto), presenta per così dire una variante, rispetto le opere precedenti, cui abbiamo accennato, qui il destino sembra restare indipendente, avulso dalle azioni umane, e non appare nemmeno un ingombrante intruso che scombini e condizioni l’agire dei protagonisti. Qui è la forza prorompente e incontenibile della natura che agisce. Come una tara ereditaria, è un’agghiacciante esempio di abiezione spontanea, naturale e ragionevole: uccidere animali in un mattatoio o soldati nemici in guerra non fa una grande differenza per Otto Schwarz, il protagonista.

Nell’ottica dell’Autore, continua ad essere la guerra lo stolido e pericoloso palcoscenico della follia delle nazioni che, inconsideratamente, vi aderiscono.

Se sotto «Le Braci» si sottendevano la Prima e la Seconda guerra mondiale, nel «Macellaio» uccidere in guerra diventa qualcosa di inevitabile come una naturale vocazione, come un elemento che portiamo nel nostro DNA cui non possiamo sottrarci.

Le aspre pagine dell’incipit che ci narrano sotto quali infausti presagi viene concepito Otto, figlio di un sellaio di una cittadina del margravio del Brandeburgo, negli ultimi anni dell’Ottocento («Nacque di dieci mesi e con i denti. Il parto costò la vita alla madre») ci fanno subito capire – come rileva acutamente anche Laura Sgarioto, traduttrice dell’aspro romanzo – che l’animo brutale del personaggio anticipa la figura di Moosbrugger, il memorabile criminale de «L’uomo senza qualità» di Musil.

Marai ha saputo concentrare in un personaggio l’incontenibile sommovimento psichico che condusse alla prima guerra mondiale e devastò gli anni successivi. Ma racconta tutto questo con la pacatezza, con lo scrupolo e la concisione di un cronista, come qualcosa che appartiene a una nuova, terrificante normalità.

Otto, un giorno, vede un macellaio all’opera «la  scure scintillava al sole, come gli occhi della mucca, che egli scrutò da vicino e sulla cui cornea si rifletteva placidamente la rimessa, la taverna, i carri e la sua stessa immagine. L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra, s’impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale».

Marai ci conduce abilmente per mano verso l’epilogo del parossismo della crudeltà, con la consueta magistrale prosa intelligente e pacata, tipica del grande auto


Grazia Giordani


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