Pascoli
Caliri
La
poesia e la musica un tempo erano la stessa cosa. Omero cantava le
gesta di Achille e il fascino di Elena; Saffo e Catullo facevano lo
stesso nei confronti delle fanciulle amate. Anche i poeti provenzali
modulavano sulle corde della tiorba i loro sentimenti e i poeti della
Slavia ortodossa cantavano le gesta degli eroi cristiani
accompagnandosi sulle corde delle loro arpe.
Poi
lentamente avanzò la specializzazione. I poeti continuarono a
recitare i loro versi, ma sempre meno a cantarli (anche se Dante
chiamò cantiche e canti le ripartizioni del proprio poema). I
poeti successivi continuarono la tradizione e Leopardi di Recanati e
Pascoli di Castelvecchio chiamarono Canti i propri componimenti che
hanno bensì ritmi musicali, ma rinunciano alla melodia, che
tuttora resiste solo nelle canzonette della musica leggera, anche
quando le fortissime accentazioni ritmiche sopraffanno le esili
ascensioni canore.
Ma
la vera poesia è sempre musicale, come dimostrò a suo
tempo Mallarmé scrivendo quell’Après midi d’un
faune che si completa soltanto nelle suggestive note di Debussy.
Questa
premessa probabilmente è prolissa, ma chi scrive queste righe
doveva tracciarla perché altrimenti non si comprenderebbe a
pieno il senso della creazione che Aurelio Caliri propone al pubblico
del XXI secolo,
In
questi anni la poesia conserva di musicale il ritmo ineccepibile, i
picchi sonori, ma ha rinunciato al disegno melodico come se dei
Puritani belliniani ascoltassimo solo le sottolineature dei tamburi o
dei timpani.
Aurelio
Caliri, che ha al suo attivo la frequentazione di testi poetici
condivisi con la musica, riunisce le due arti, con una creazione che
dovrebbe suscitare molta più attenzione di quanta gliene
accordano i teatri di prosa o di musica reciprocamente isolate. Lo ha
sempre fatto: ora ne dà un toccante saggio con una sua
creazione dedicata a Pascoli. E’ necessario soffermarsi sul
senso della antologia poetica per comprenderne la completezza e
soprattutto per intendere i propositi del poeta prescelto per
l’esperimento.
Giovanni
Pascoli (1855-1912) è l’autore dei Canti di
Castelvecchio (pubblicati nel 1903) che notoriamente non sono scritti
sul pentagramma. Ma fin da ragazzino il poeta ambiva alla musica
scrivendo saggi teatrali e infine anche libretti per opera.
Non solo: intendeva completare la propria creazione con un’opera
lirica che, come sappiamo, non venne mai alla luce, ma che gli studi
hanno identificato.
Aurelio
Caliri ne ha ritrovato la scaturigine. Pascoli era un campagnolo, nel
senso che, vissuto da giovanissimo in campagna, ne ricordava sempre
la vita ritmata dalle stagioni della natura, dove le humiles myricae
e le imprese eroiche si sono sempre alternate nell’antichità
(mentre oggi, per nostra sventura, le campagne militari si sviluppano
in qualsiasi stagione dell’anno). L’introduzione perfetta
dell’Eneide virgiliana sono le Georgiche (i canti
sull’agricoltura), così come anche l’eolico Omero
nei punti culminanti del suo poema guerresco inseriva paragoni
ispirati dalla vita nei campi e addirittura esaltava un eroe greco
paragonandolo a…un asino che sotto la gragnola delle bastonate
resiste testardo (e vincitore).
Pascoli
non aveva animo militare, ma amava la campagna come scenario di una
vita serena, a contatto con la natura, con la felicità della
vita che ci offre finalità facilmente raggiungibili.
Esperienze che portano serenità anche nelle circostanze più
fosche.
Tutti
sanno del dialogo della cavallina storna con la madre del Pascoli
dopo l’assassinio del marito. Sono versi in cui l’uomo
vive con gli animali, dialoga con loro e trova in essi la
consolazione con quel che i pedanti moralisti considerano
sconveniente o immorale; ma se segue la natura, non è mai
contrario all’etica. Come sottolineava il dottor Freud più
o meno negli stessi anni del Pascoli.
Ritorniamo
alla poesia. La quale deve essere fortemente legata alla musica e
alla vita immersa nella natura.
Aurelio
Caliri per le sue note ha scelto, tra l’altro, lo spunto delle
Ciaramelle che, come è noto, furono scritte nel 1901 a Messina
e fanno parte dei canti di Castelvecchio. In effetti Castelvecchio è
molto più vicino alla virgiliana Mantova che non alla
teocritea Sicilia (la culla della poesia bucolica a noi nota), e così
il poeta romagnolo trasferisce la propria ispirazione nell’isola,
Il componimento viene scritto a Messina e la sua ispirazione è
quella delle ciarameddi siciliane, con un trasferimento geografico
che sperimentò anche il D’Annunzio quando suggerì
a Giuseppe Antonio Borgese di tradurre la propria pastorale tragedia,
La figlia di Iorio, nel dialetto di Palermo. Non si tratta di
semplici trasferimenti esterofili: la Figlia di Iorio voleva
raffigurare i costumi patriarcali che in Sicilia si conservavano
molto meglio che in Abruzzo: e Pascoli prese lo spunto dai
ciaramiddari che a Natale scendono in città per ricreare
l’atmosfera religiosa del presepe a Betlemme.
Questa
è l’introduzione. Perché la sostanza della
creazione inizia adesso. Ascoltate o riascoltate il canto con cui
Caliri modula le note: la sua voce si intreccia con le sonorità
della fisarmonica come fanno le pive pastorali. Accennarne l’esegesi
sarebbe inutile se da decenni la musica non si fosse piegata alle
esigenze commerciali di chi vuole stupire (o istupidire) gli
ascoltatori con ritmi ossessivamente scanditi. Qui invece c’è
il canto libero, che accarezza le parole, conferisce loro colori e
suggestioni.
E
non è solo bucolica accademia: ci sono i risentimenti di una
vita umana che troppo spesso è funestata dal male (volontario)
di altri uomini; che li contrappone in ripartizioni guerresche, in
frazionamenti sociali: in lotte tra servi e padroni; tra chi vince e
chi perde. Troppo spesso si dimentica nelle nostre scuole, che
Pascoli era un fervente sostenitore del proletariato, che ai suoi
tempi la borghesia conservatrice considerava come diabolico nemico.
Andò pure in carcere (il Pascoli) per avere aderito ai
movimenti socialisti. Questo significa che si opponeva al militarismo
sfrenato della borghesia europea. E di questo si notano le striature
nel canto di Caliri. Anzi c’è una dialettica tra il
canto e le vibrazioni strumentali: dove non sempre le une
corrispondono alle altre: come avveniva nella polifonia antica quando
il canto melodico e la furia della strumentazione indicavano le
intenzioni del cantore. E qui abbiamo tre fili che si intrecciano: la
parola pascoliana, la musica ricchissima di sonorità e la voce
che canta con pacata, pensosa, tonalità. Se si seguono
attentamente si notano questi scostamenti e i successivi incontri
delle tre ispirazioni. E, volendo, l’ascoltatore può
aggiungerne una quarta: la sua personale. Perché la poesia
lirica non è fatta per essere ascoltata passivamente come fa
chi intende l’espressione poetica come semplice esercizio
ripetitivo. L’ascoltatore vero può aggiungere la propria
personalità, disporsi in vario modo verso la interpretazione
fornita da Aurelio Caliri come musicista, esecutore e creatore. E
allora queste creazioni tra musica e poesia non si dimenticano più.
Le ricordiamo quando analoghe vicende liete o tristi ci richiamano la
fragilità umana, e avvertiamo di essere tutti coinvolti nel
dialogo con la natura: la quale può essere dolce madre e
nutrice oppure misteriosa, feroce matrigna. Ma esiste accanto a noi
ed è lei (e non siamo noi) la vera protagonista della vita.
Ho
esemplificato alcuni aspetti di uno solo dei canti di Caliri,
abusando della pazienza del lettore che non intendo impegnare in
ulteriori suggestioni e rimandi tra passato e presente. Ma va
ribadito che ascoltare Caliri che duetta con Pascoli, il quale duetta
con la politica del tempo e con la Natura di sempre, non è
puro compiacimento artistico. Impone di staccare tutti i pregiudizi
retorici e di devices elettronici di cui siamo diventati i servitori.
Ascoltare una creazione di tale intensità fa comprendere il
senso della Vita nella quale siamo immersi e che sistematicamente ci
sfugge.
Sergio
Sciacca
Catania
15 marzo 2020
Le
idi di marzo
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