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  Letteratura  »  Pascoli Caliri, di Sergio Sciacca 10/04/2020
 
Pascoli Caliri


La poesia e la musica un tempo erano la stessa cosa. Omero cantava le gesta di Achille e il fascino di Elena; Saffo e Catullo facevano lo stesso nei confronti delle fanciulle amate. Anche i poeti provenzali modulavano sulle corde della tiorba i loro sentimenti e i poeti della Slavia ortodossa cantavano le gesta degli eroi cristiani accompagnandosi sulle corde delle loro arpe.

Poi lentamente avanzò la specializzazione. I poeti continuarono a recitare i loro versi, ma sempre meno a cantarli (anche se Dante chiamò cantiche e canti le ripartizioni del proprio poema). I poeti successivi continuarono la tradizione e Leopardi di Recanati e Pascoli di Castelvecchio chiamarono Canti i propri componimenti che hanno bensì ritmi musicali, ma rinunciano alla melodia, che tuttora resiste solo nelle canzonette della musica leggera, anche quando le fortissime accentazioni ritmiche sopraffanno le esili ascensioni canore.

Ma la vera poesia è sempre musicale, come dimostrò a suo tempo Mallarmé scrivendo quell’Après midi d’un faune che si completa soltanto nelle suggestive note di Debussy.

Questa premessa probabilmente è prolissa, ma chi scrive queste righe doveva tracciarla perché altrimenti non si comprenderebbe a pieno il senso della creazione che Aurelio Caliri propone al pubblico del XXI secolo,

In questi anni la poesia conserva di musicale il ritmo ineccepibile, i picchi sonori, ma ha rinunciato al disegno melodico come se dei Puritani belliniani ascoltassimo solo le sottolineature dei tamburi o dei timpani.

Aurelio Caliri, che ha al suo attivo la frequentazione di testi poetici condivisi con la musica, riunisce le due arti, con una creazione che dovrebbe suscitare molta più attenzione di quanta gliene accordano i teatri di prosa o di musica reciprocamente isolate. Lo ha sempre fatto: ora ne dà un toccante saggio con una sua creazione dedicata a Pascoli. E’ necessario soffermarsi sul senso della antologia poetica per comprenderne la completezza e soprattutto per intendere i propositi del poeta prescelto per l’esperimento.

Giovanni Pascoli (1855-1912) è l’autore dei Canti di Castelvecchio (pubblicati nel 1903) che notoriamente non sono scritti sul pentagramma. Ma fin da ragazzino il poeta ambiva alla musica scrivendo saggi teatrali e infine anche libretti per opera1. Non solo: intendeva completare la propria creazione con un’opera lirica che, come sappiamo, non venne mai alla luce, ma che gli studi hanno identificato.

Aurelio Caliri ne ha ritrovato la scaturigine. Pascoli era un campagnolo, nel senso che, vissuto da giovanissimo in campagna, ne ricordava sempre la vita ritmata dalle stagioni della natura, dove le humiles myricae e le imprese eroiche si sono sempre alternate nell’antichità (mentre oggi, per nostra sventura, le campagne militari si sviluppano in qualsiasi stagione dell’anno). L’introduzione perfetta dell’Eneide virgiliana sono le Georgiche (i canti sull’agricoltura), così come anche l’eolico Omero nei punti culminanti del suo poema guerresco inseriva paragoni ispirati dalla vita nei campi e addirittura esaltava un eroe greco paragonandolo a…un asino che sotto la gragnola delle bastonate resiste testardo (e vincitore).

Pascoli non aveva animo militare, ma amava la campagna come scenario di una vita serena, a contatto con la natura, con la felicità della vita che ci offre finalità facilmente raggiungibili. Esperienze che portano serenità anche nelle circostanze più fosche.

Tutti sanno del dialogo della cavallina storna con la madre del Pascoli dopo l’assassinio del marito. Sono versi in cui l’uomo vive con gli animali, dialoga con loro e trova in essi la consolazione con quel che i pedanti moralisti considerano sconveniente o immorale; ma se segue la natura, non è mai contrario all’etica. Come sottolineava il dottor Freud più o meno negli stessi anni del Pascoli.

Ritorniamo alla poesia. La quale deve essere fortemente legata alla musica e alla vita immersa nella natura.

Aurelio Caliri per le sue note ha scelto, tra l’altro, lo spunto delle Ciaramelle che, come è noto, furono scritte nel 1901 a Messina e fanno parte dei canti di Castelvecchio. In effetti Castelvecchio è molto più vicino alla virgiliana Mantova che non alla teocritea Sicilia (la culla della poesia bucolica a noi nota), e così il poeta romagnolo trasferisce la propria ispirazione nell’isola, Il componimento viene scritto a Messina e la sua ispirazione è quella delle ciarameddi siciliane, con un trasferimento geografico che sperimentò anche il D’Annunzio quando suggerì a Giuseppe Antonio Borgese di tradurre la propria pastorale tragedia, La figlia di Iorio, nel dialetto di Palermo. Non si tratta di semplici trasferimenti esterofili: la Figlia di Iorio voleva raffigurare i costumi patriarcali che in Sicilia si conservavano molto meglio che in Abruzzo: e Pascoli prese lo spunto dai ciaramiddari che a Natale scendono in città per ricreare l’atmosfera religiosa del presepe a Betlemme.

Questa è l’introduzione. Perché la sostanza della creazione inizia adesso. Ascoltate o riascoltate il canto con cui Caliri modula le note: la sua voce si intreccia con le sonorità della fisarmonica come fanno le pive pastorali. Accennarne l’esegesi sarebbe inutile se da decenni la musica non si fosse piegata alle esigenze commerciali di chi vuole stupire (o istupidire) gli ascoltatori con ritmi ossessivamente scanditi. Qui invece c’è il canto libero, che accarezza le parole, conferisce loro colori e suggestioni.

E non è solo bucolica accademia: ci sono i risentimenti di una vita umana che troppo spesso è funestata dal male (volontario) di altri uomini; che li contrappone in ripartizioni guerresche, in frazionamenti sociali: in lotte tra servi e padroni; tra chi vince e chi perde. Troppo spesso si dimentica nelle nostre scuole, che Pascoli era un fervente sostenitore del proletariato, che ai suoi tempi la borghesia conservatrice considerava come diabolico nemico. Andò pure in carcere (il Pascoli) per avere aderito ai movimenti socialisti. Questo significa che si opponeva al militarismo sfrenato della borghesia europea. E di questo si notano le striature nel canto di Caliri. Anzi c’è una dialettica tra il canto e le vibrazioni strumentali: dove non sempre le une corrispondono alle altre: come avveniva nella polifonia antica quando il canto melodico e la furia della strumentazione indicavano le intenzioni del cantore. E qui abbiamo tre fili che si intrecciano: la parola pascoliana, la musica ricchissima di sonorità e la voce che canta con pacata, pensosa, tonalità. Se si seguono attentamente si notano questi scostamenti e i successivi incontri delle tre ispirazioni. E, volendo, l’ascoltatore può aggiungerne una quarta: la sua personale. Perché la poesia lirica non è fatta per essere ascoltata passivamente come fa chi intende l’espressione poetica come semplice esercizio ripetitivo. L’ascoltatore vero può aggiungere la propria personalità, disporsi in vario modo verso la interpretazione fornita da Aurelio Caliri come musicista, esecutore e creatore. E allora queste creazioni tra musica e poesia non si dimenticano più. Le ricordiamo quando analoghe vicende liete o tristi ci richiamano la fragilità umana, e avvertiamo di essere tutti coinvolti nel dialogo con la natura: la quale può essere dolce madre e nutrice oppure misteriosa, feroce matrigna. Ma esiste accanto a noi ed è lei (e non siamo noi) la vera protagonista della vita.

Ho esemplificato alcuni aspetti di uno solo dei canti di Caliri, abusando della pazienza del lettore che non intendo impegnare in ulteriori suggestioni e rimandi tra passato e presente. Ma va ribadito che ascoltare Caliri che duetta con Pascoli, il quale duetta con la politica del tempo e con la Natura di sempre, non è puro compiacimento artistico. Impone di staccare tutti i pregiudizi retorici e di devices elettronici di cui siamo diventati i servitori. Ascoltare una creazione di tale intensità fa comprendere il senso della Vita nella quale siamo immersi e che sistematicamente ci sfugge.

Sergio Sciacca

Catania 15 marzo 2020

Le idi di marzo

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1Di cui una importante raccolta è stata edita da Antonio De Lorenzi (1928-1995), Testi teatrali inediti di Giovanni Pascoli, Longo editore, Ravenna, 1979. Sulle ambizioni musicali del poeta si sono scatenati gli Aristarchi e gli Scannabue della più recente pubblicistica: dei quali nulla diciamo, perché nulla hanno aggiunto sulla sensibilità umana dell’autore che si sentiva attratto dalla musica.

 
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