Il
trittico su Ezzelino da Romano e i suoi discendenti
di
Renzo Montagnoli
In
questi giorni di forzata clausura, complice anche un tempo non
proprio generoso che mi impedisce di effettuare i lavori dell’orto,
ho pensato di rileggere alcuni libri, ovviamente quelli che a suo
tempo mi hanno più impressionato. Così ho posto mano, e
occhi, al trittico su Ezzelino da Romano e i suoi discendenti,
tre volumi di estremo interesse e veramente molto belli scritti a suo
tempo da un romanziere, che è ancor prima storico, e che
risponde al nome di Marco Salvador. Per quanto corposi e nonostante
l’ottica di fermarsi di tanto in tanto su qualche punto, o per
fare una riflessione autonoma, o per esser parte di quella del
protagonista del libro, purtroppo ho esaurito la lettura in un tempo
abbastanza breve, e quel purtroppo esprime il mio rammarco per
essermi dovuto separare troppo presto da personaggi e vicende
affascinanti e che l’abilità dell’autore ha reso
ancor più avvincenti.
Il
primo, in ordine cronologico, è La palude degli eroi,
in cui si narra, procedendo secondo i quadri di una pala d’altare,
dell’ultimo periodo della vita di Ezzelino da Romano e delle
peripezie del suo figlio naturale Guido. L’impatto del lettore
con questa vicenda in cui si fondono mirabilmente guerre fra papato e
impero, atroci vendette, amicizie fraterne, odi irriducibili, amori,
rimorsi e pentimenti è uno di quelli che lascia il segno e che
provoca l’inevitabile desiderio di leggere anche gli altri due.
Non amo tessere lodi sperticate, ma qui l’autore della celebre
serie sui Longobardi si supera per capacità di
disegnare una trama secondo un ritmo che non viene mai a calare, se
non in rari casi e quando ciò appare indispensabile. Sembra di
assistere a un film su una vicenda medievale (l’epoca è
il XIII secolo) e si è portati, condotti per mano dall’autore,
a instaurare un rapporto affettivo con Guido da Romano, che sfugge
miracolosamente, ma non senza danni, alla vendetta dei nobili
vittoriosi su Ezzelino e sul fratello Alberico e la sua numerosa
famiglia. Salvador è meticoloso, ma non pedante nel narrare, e
cerca fra l’altro di trasmettere l’atmosfera dell’epoca
curando anche particolari che possono apparire trascurabili, come
l’abbigliamento, ma soprattutto ricorrendo alla discrasia fra
religione e superstizione, alla continua ossessione della morte, che
di fatto è imperante, vuoi per le guerre che per le malattie e
per le carestie, e che si riassume a volte in una danza macabra, in
cui le frequenti condanne a morte hanno caratteristiche di bestiale e
tremendo supplizio, come se gli esecutori ritraessero dal dolore e
dal terrore dei condannati nuova linfa per proseguire una vita di
conquiste, di sconfitte, di alleanze, di tradimenti, insomma una
specie di inferno in terra. Ezzelino da Romano, detto il Terribile,
che la storia ricorda per le sue efferatezze non era in effetti più
crudele dei suoi avversari, ma come poi si instaurerà una
damnatio memoriae per il pontefice Alessandro VI, papa Borgia,
accusato dei più orrendi delitti senza essere peggiore de i
suoi accusatori, anche nel caso del nostro personaggio, di parte
imperiale, i motivi per dipingerlo così feroce erano più
politici, nell’eterna lotta fra ghibellini e guelfi. In effetti
Salvador, senza assolvere Ezzelino, nemmeno lo condanna, consapevole
che i personaggi storici, quanto più grandi sono, tanto sono
più temuti e invidiati, e molto più spesso odiati. Di
altro genere invece é la simpatia che l’autore mostra
per Guido, combattutto a lungo fra il desiderio di vendetta e
l’aspirazione a una vita serena, sentimenti entrambi ben
delineati, perché l’erede di Ezzelino non è
uguale al padre, ha almeno innato un senso di pietà che
dimostrerà in occasione dell’esecuzione di una sentenza
contro famiglie trevigiane ribelli, concedendo clemenza almeno alle
donne. Personaggi di vario genere si succedono nella trama, che è
frutto di un racconto che Guido fa della sua vita e che intende
lasciare ai figli; poi, sopraggiunta la vecchiaia, ritrovata la
serenità, gli acciacchi si manifestano e il racconto cessa,
per essere ripreso in poche pagine dai figli che portano a nostra
conoscenza l’avvenuta morte del padre. Sono poche ispirate
pagine che finiscono per commuovere, ma il lettore è preso,
più che da una tristezza, da una malinconia per la
consapevolezza che non avrà più il piacere di leggere
di questo straordinario protagonista.
Il
sapere però che ci sono ancora pagine che parleranno degli
eredi di Ezzelino stempera il cielo cupo che sembrava essersi
addensato sul nostro capo; e infatti già si trova il secondo
romanzo, L’erede degli dei, in cui si parla del
pronipote di Ezzelino, Corrado da Romano, ed è la genesi di un
cavaliere, dagli inizi quando è ancora fanciullo fino alla
sua investitura; dopo non ci saranno che battaglie, disgrazie, per
raggiungere, in età avanzata e dopo tante tribolazioni,
un’autentica pace interiore. Tutta la storia appare come un
lungo affresco, tale da coprire la parete di una grande stanza, il
cui pittore non è il Leonardo della battaglia di Anghiari, ma
quel Marco Salvador che ha fatto fremere i nostri cuori con La
palude degli eroi. Ambientato nel XIV secolo, noi mantovani
ritroviamo anche la nostra città, quando i Gonzaga non erano
ancora i Signori di una corte che diventerà fra le più
note d’Europa, ma si apprestavano a iniziare la scalata al
potere con la cacciata della famiglia dominante, i Bonacolsi, e
grazie all’aiuto, non disinteressato, di Cangrande della Scala
rappresentato dal suo consigliere Corrado da Romano. Anche in questo
romanzo le vicende sono tante, come tanti appaiono i personaggi, ma
sono talmente ben delineati che non solo è difficile
confonderli, ma addirittura si imprimono bene nella memoria. Le
pagine scorrono veloci, le parole si trasformano in immagini, si è
presenti come spettatori attoniti, anche se il desiderio sarebbe di
essere partecipi, Corrado da Romano non è solo un nome, è
un uomo che si desidererebbe aver conosciuto e questo è
esclusivo merito dell’autore.
Già
finito? No, per fortuna, perché c’è il terzo e
ultimo libro, in un’epoca più avanti e abbraccia un
periodo di circa un 150 anni, fino agli inizi del XVI secolo, cioè
fino alla caduta del Patriarcato di Aquileia e l’asservimento
alla Serenissima. In pratica nelle
storie di Guido e di Nicolò, figli di Corrado, generato da
altro Corrado, a sua volta figlio di Alberico, ultimo
discendente di Ezzelino da Romano, si raccoglie un arco di tempo
piuttosto lungo, con le convulse vicende della Patria, di quelle
terre friulane contese da Impero e Serenissima, pronti ad alimentare,
per i propri interessi, le numerose faide che contrappongono i
potenti di quello che un tempo fu uno stato forte, il Patriarcato
di Aquileia. E’ un periodo
convulso, di continue lotte intestine, dove la rettitudine e la
coerenza è di pochi, perché di tutti i sentieri che si
percorrono il più arduo, quello che impone più
sacrifici, è quello dell’onore e non è un caso
se l’ultimo volume della triloigia è intitolato Il
sentiero dell’onore. Che
si tratti di Guido o di Nicolò poco importa, e non è
tanto perché sono i semi generati da Ezzelino da
Romano, bensì perché sono stati allevati nel rispetto
per se stessi, che consiste prima di tutto nell'obbligo non solo di
non venir mai meno alla parola data, ma di perseguire senza
cedimenti quegli ideali di giustizia che da soli possono giustificare
un'esistenza e anche la sua fine. Sono
due anime pure, due personaggi che scivolano sul marciume di un’epoca
senza esserne contaminati, grandi nel perseverare quegli ideali di
giustizia che solo anime autenticamente nobili possono avere e
conservare in un periodo di sfacelo continuo. Non riusciranno a porre
rimedio, ma indicheranno la strada giusta per una futura non
impossibile redenzione.
Ecco,
il trittico si chiude qui, nella consapevolezza che non avrà
seguito; infatti Salvador ha scritto poi solo dello splendore
nell’Italia meridionale del principato Longobardo di Salerno e
Benevento con Il trono d’oro, di una vicenda giudiziaria
per sodomia nella Venezia del XIV secolo con Processo a Rolandina
e dell’origine della sua famiglia, in pratica i suoi avi,
emigrati da Firenze a Venezia agli inizi del ‘300 con Una
saga veneziana. Si tratta di tre libri molto belli, assai
piacevoli da leggere, a cui spererei, almeno per l’ultimo, che
l’autore facesse seguito con altri, perché secondo me
c’è ancora spazio temporale per parlare dei suoi avi.
Invece non c’è più possibilità di scrivere
dei Da Romano, il che mi rammarica, ma mi consola il fatto che resta
sempre l’opportunità, come mi è capitato ora, di
rileggere i tre volumi, ritrovando sempre il grande piacere provato
la prima volta.
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