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ottobre 1943 – Giacomo Debenedetti –
Einaudi – Pagg. 90 – ISBN 9788806225728
– Euro 9,50
Senza
titolo
Quando
Debenedetti pensò di commemorare la tragedia della
deportazione di oltre mille ebrei in seguito al rastrellamento del
ghetto di Roma, a detta del figlio Giovanni intervistato in occasione
dei settant'anni della prima pubblicazione del libro, la necessità
primaria fu quella di riportare i fatti in modo cronachistico usando
l’espediente del narratore anonimo. Prevalse la pietà di
fronte alla tragedia; non si sentiva l’autore di appropriarsi
del dolore e tanto meno di fare in modo che apparisse come frutto del
suo lavoro: furono i fatti a generarlo. Certo è che il dolore
va saputo raccontare; come disse Moravia nella postfazione a una
delle diverse edizioni, scritta su richiesta proprio di Antonio, il
figlio di Giacomo, “ la pietà prevalse sull’estetismo”.
Indubbio rimane l’alto valore letterario dello scritto. Sono
pagine piene di grazia, raccontano l’antefatto della tragedia,
non solo il tentativo della donna di popolo di avvisare gli ebrei
dell’imminente pericolo di cui fortuitamente è venuta a
conoscenza, e del suo affannarsi invano, ma anche il ricatto a cui
furono sottoposti gli ebrei - la consegna di cinquanta chili d’oro
da racimolare in un tempo strettissimo - per evitare l’arresto
di duecento di loro. È la grazia del venerdì sera,
quella del popolo laborioso che si prepara alla festa del sabato, è
la ritualità della sinagoga, è la vita intima delle
abitazioni dove gli ebrei si rifugiano alle prime avvisaglie del
calare delle tenebre, memori di pregresse notti dolorose nella storia
del loro popolo. Sono presentati, questi uomini e queste donne, in
una ingenuità tale da sentire quasi l’esigenza di
spronarli, insieme alla povera Celeste che, se almeno fosse stata una
signora, l’avrebbero ascoltata … Quelle stesse case,
quelle stesse vie del ghetto sono poi squassate dalla retata la
quale, iniziata alle prime luci dell’alba, intorno alle cinque
del mattino, e conclusa entro il primo pomeriggio, coglie nel sonno i
suoi poveri abitanti. E allora imperversa il caos, non tanto quello
del fuggi fuggi, l’abbiamo detto, gli ebrei sono fiduciosi e
increduli, il loro sentire mal si concilia con l’azione
necessaria per la fuga, ma quello dell’animo, quello che di
contro paralizza e lascia ancora la flebile speranza di potersela
cavare nascondendosi dietro la porta della propria abitazione. È
poi il caos della retata, paradossalmente condotta con la
meticolosità dei tedeschi essa viene invece dominata dal caos:
salvarsi o perdersi per sempre diventa puro gioco del destino,
nonostante la precisione con al quale è stata compilata la
lista. È la parte più tesa della narrazione, rende in
modo mimetico la concitazione. Segue poi il ritmo lento dell’attesa,
quello che precede il lungo viaggio senza ritorno. I vagoni piombati,
la consapevolezza del macchinista, il sommesso vociare, stipato in
spazio angusto, incrociato dai civili colti nella loro quotidianità
gravata ora da un nuovo peso, quello dell’impotenza. Molti
furono i civili che aiutarono gli ebrei; quelli sopravvissero forse
fino all’eccidio delle Fosse Ardeatine, degli altri tornarono
in sedici.
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