Il
disertore,
di Giuseppe Dessì, prefazione di Sandro Maxia, Nuoro Ilisso
In
questi ultimi giorni ho letto “Il
disertore“,
un libro di appena centotrentaquattro pagine, di cui una parte
destinata alla bella e interessante prefazione del professor Sandro
Maxia.
Un libretto dunque, ma dal respiro così ampio che,
quando si arriva all’ultima pagina, si vorrebbe velocemente
ritornare indietro per gustarlo ancora, vedere se qualcosa è
sfuggito alla nostra attenzione; magari un particolare non messo a
fuoco, una caratteristica di uno dei protagonisti, o anche
semplicemente un termine al quale non è stata data la giusta
importanza. Ma andiamo con ordine.
Lessi
già una prima volta questo libro, tanti anni addietro, quando
ero giovane. Ora, a distanza di alcuni decenni, ho sentito il bisogno
di riprenderlo in mano, come ho già fatto con altri, per
rileggerlo in un’età che probabilmente sa comprendere
meglio quello che un autore intende dire quando si accinge a
raccontare una storia.
Ebbene, anche questo è stato una
nuova scoperta. Ritengo infatti di averlo oggi apprezzato e capito
meglio in tutti i suoi risvolti psicologici.
Prima di tutto ho
letto la prefazione, cosa che di solito faccio a lettura ultimata.
Sentivo che in questo caso era importante e poteva tornarmi utile per
capire meglio la storia.
Il professor Maxia ha fatto un’attenta
e accurata presentazione che permette al lettore di conoscere gli
aspetti più importanti della vita di Dessì, ma
soprattutto gli influssi che altri scrittori e studiosi hanno avuto
sui suoi scritti.
Poi ho avviato la lettura della storia vera e
propria. Come ho già anticipato, si tratta di un racconto che
cattura sin dall’inizio l’attenzione del lettore,
coinvolgendolo profondamente.
.
La storia è
ambientata in un paesino della Sardegna, Cuadu, nome di fantasia, e
fin dalla prima pagina si incomincia a parlare della costruzione di
un monumento ai caduti, in ricordo dei settantatré giovani
morti nel corso della prima guerra mondiale. Si tornerà
diverse volte sulla costruzione del monumento, sulle difficoltà
incontrate, ma soltanto nell’ultimo capitolo si conosceranno le
decisioni finali.
I protagonisti di questa coinvolgente storia
sono fondamentalmente due, entrambi di grande spessore, nessuno di
loro prevarica l’altro, tanto diversi per temperamento, si
ritrovano tuttavia in qualche modo a dover intrecciare i loro
destini.
Don Pietro Coi è il viceparroco del paese,
Mariangela Eca è una povera donna che ha perso non uno ma due
figli, una madre sopravvissuta per due volte ai suoi affetti più
cari.
Don Pietro è un personaggio dalla personalità
anche contraddittoria, ma che non può non suscitare simpatia e
benevolenza. Un uomo avanti negli anni, ma ancora forte, rude,
apparentemente, soprattutto nei confronti di Mariangela, sua
parrocchiana, eppure sensibile e capace di prendere delle decisioni
molto difficili, che più volte gli impediscono di riposare la
notte, quando tutto appare più difficile da capire, e molte
domande rimangono senza risposte.
Mariangela è più
o meno coetanea del viceparroco, ma all’apparenza più
vecchia, perché provata dalla povertà e soprattutto dal
dolore per la morte dei figli, un distacco che non riesce ad
accettare. Donna che ha fatto del silenzio una caratteristica della
sua personalità. Lei che non sopporta le tante parole, perché
le ritiene del tutto inutili.
Un personaggio difficile da
dimenticare nella sua semplice complessità, la descrizione che
ne fa lo scrittore, nella sua essenzialità, è perfetta,
e a noi sembra di incontrarla, potremmo anche riconoscerla tra le
tante altre donne di quel tempo.
Un ruolo molto importante ha
anche Urbano Castai, medico in un paese che confina con Cuadu,
Ruinalta. E’ lui l’amico più caro, forse l’unico,
di don Pietro. Un personaggio molto interessante, che appare
piuttosto tardi all’interno della storia, ma che lascia
un’importante traccia di sè.
Vi sono poi parecchi
altri personaggi, che appaiono in alcuni capitoli, scompaiono per un
po’ per ritornare in seguito. Sono il marchese Roberto Manca di
Tharros, un nobile decaduto, il commendatore Alessandro Comina, il
nuovo ricco, l’arciprete Tarcisio Pau, che rimprovera a don
Pietro il fatto di essere stato per tanti anni un cacciatore,
Gregorio, il marito di Mariangela, personaggio “sfumato”,
credo volutamente, sempre in ombra rispetto a lei, così
potente nella manifestazione del suo dolore. Senza dimenticare
Saverio e Giovanni, i loro due figli, entrambi partiti per la guerra.
Giovanni, il figlio dal carattere difficile, Saverio, il più
buono, secondo la mamma, ma anche il più fragile. Lui, di cui
sappiamo ben poco inizialmente, ma il cui aspetto e carattere vanno
prendendo forma gradualmente.
E poi i giovani con le fusciacche
rosse, sono i minatori che lavorano nelle miniere dell’Iglesiente,
e che nel fine settimana ritornano a Cuadu. Giovani che si oppongono
allo strapotere dei cosiddetti “prinzipales”, e che in
seguito cercano di opporsi ai gruppi fascisti che in quel periodo
incominciano a essere presenti anche in paese e nella non lontana
Iglesias.
Tante particolari mi verrebbe da rendere ancora più
espliciti per capire una storia che Dessì ha saputo raccontare
così bene, ma non voglio svelare niente di più di
questo straordinario racconto che, secondo il mio parere, è un
vero capolavoro.
Un piccolo gioiello che racchiude dentro la
grande storia una piccola storia fatta di povertà e di dolore,
diversa e nello stesso tempo uguale a quella di tante altre persone
comuni che quasi sempre non hanno voce.
E allora grazie agli
scrittori come Giuseppe Dessì che danno loro voce e dignità.
***
Di
seguito due brani tratti dal settimo capitolo.
“Mariangela,
messa la caffettiera sulla brace del fornello, aspettava che montasse
il bollore. Guardava sempre l’angolo della finestra e faceva
con la testa quel movimento abituale, come se inghiottisse. Poteva
aspettare indefinitamente, senza rispondere alle domande che le
venivano fatte, e non c’era in lei né tracotanza né
imbarazzo, ma un’antica, sottile persuasione di silenzio.”
“Il
prete versò il caffè nelle tazzine, le fece un cenno:
lei prese la sua. Aveva la sua stessa età, ma sembrava più
vecchia.
La
guardò mentre sorbiva il caffè soffiandoci su a ogni
sorso. Aveva sempre bisogno di guardarla per convincersi di quanto
fosse invecchiata, che non era più forte come un tempo, come
prima della morte dei figli. Se la ricordava sempre com’era
tanti anni prima, quando i figli erano piccoli. Giovanni robusto,
prepotente, e l’altro, Saverio, mingherlino e malaticcio.”
Cenni
biografici
Giuseppe
Dessì nacque
a Cagliari nel 1909, ma dimostrò sempre un grande attaccamento
a Villacidro, il paese delle sue origini.
Visse una giovinezza
abbastanza complicata, ma poi, grazie ad alcuni incontri importanti,
quello con lo storico Delio Cantimori e quello con Claudio Varese,
che poi fu sempre grande amico, riuscì a dare una svolta alla
sua vita.
Si recò a Pisa, dove si laureò in
Lettere. E fu in quella città che pubblicò, nel 1939,
una prima raccolta di racconti, La
sposa in città,
e anche il suo primo romanzo, San
Silvano.
Nel
1942, pubblicò Michele
Boschino,
nel 1949, Storia
del principe Lui,
nel 1955, I
passeri; due
raccolte di racconti invece videro la luce nel 1957, Isola
dell’Angelo e La
ballerina di carta.
Nel 1959, L’introduzione
alla vita di Giacomo Sgarbo,
e nel 1961, Il
disertore.
Nel 1966 pubblicò ancora una nuova raccolta di racconti, Lei
era l’acqua.
Infine,
nel 1972, vide la luce Paese
d’ombre,
che vinse il Premio
Strega.
Scrisse
anche per il teatro, tra le altre opere, La
giustizia e Eleonora D’Arborea.
Dopo
la sua morte furono pubblicati altri due libri, la raccolta di
racconti Come
un tiepido vento,
e il romanzo La
scelta.
Giuseppe
Dessì dedicò alla Sardegna anche numerosi articoli, che
furono poi raccolti, nel 1987, da Anna Dolfi nel libro Un
pezzo di luna.
Piera
Maria Chessa
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