L’idiota
– Fedor Dostoevskij – Garzanti – Pagg. XXX-709 –
ISBN 9788811810209
– Euro 13,00
Cercando
un altro Egitto
Fatico
sempre a leggere Dostoevskij, mi trascino quasi caparbia, cercando di
superare tutte le mie perplessità fino a quando non giungo,
soddisfatta, a ultimare la lettura. Così è stato anche
per il suo romanzo più gradito dal pubblico di lettori, quello
che, essendo anche il più letto, rischia di essere il più
banalizzato. Dalla celebre citazione “La bellezza salverà
il mondo”, alla lettura in chiave cristologica o ancora alla
più ingenua celebrazione della bontà fatta personaggio,
si rischia di semplificare eccessivamente o peggio ancora di limitare
il potenziale espressivo di tale scritto. Sarebbe invece utile e
opportuno ricondurlo alla biografia dell’autore, ricordare che
è il prodotto di una fatica letteraria ispirata ma purtroppo
canalizzata nel ritmo forsennato dei contratti capestro che
imbrigliavano l’autore a causa delle sue difficoltà
finanziarie, da giocatore. Sarebbe ancor più onesto
evidenziare che non è nemmeno un romanzo perfetto,
stilisticamente parlando. Fatto questo, penso, si potrebbe sgomberare
il campo e parlarne apertamente.
Il
principe Lev Mikolaevic Myskin è un personaggio complesso al
quale neanche il titolo dello stesso romanzo rende giustizia,
confinandolo in un’ambiguità lessicale che si diverte a
sballottarlo tra la demenza e l’eccessiva bontà,
passando attraverso il contrappasso dell’epilessia (piccola
nota autobiografica). Un ragazzo senza radici ma con un albero
genealogico importante, un piccolo granello di sabbia che nessuno
noterebbe in una sterminata distesa di un deserto, andandosi a
confondere con tutti gli altri a lui simili, se quello stesso
granello non inceppasse il meccanismo del mondo nel quale si è
calato. Eppure anche lui è sabbia, come gli altri. Ma è
il granello che disturba, quello che separandosi dalla massa a cui
apparteneva, è capace da solo di fungere da forza centripeta,
da polo di attrazione, anche quando non è presente.
Il
treno Varsavia - Pietroburgo scaraventa in scena, in una vera e
propria drammatica piece corale, un inconsapevole attore che si
ritrova a reggere la scena senza impersonare alcun ruolo, privo in
fondo di quel sottile meccanismo che si chiama finzione.
Semplicemente mette in scena se stesso interagendo però con
attori professionisti i quali seguono tutti, bene o male, il loro
copione. Non si intuisce subito questo scollamento, anche perché
lo strano personaggio, incapace di calcare la scena, appena entrato
nel salotto degli Epancin, subito parla a ragion veduta di
ghigliottine, pena di morte come assassinio legale e del supplizio di
chi ha vissuto gli attimi precedenti una condanna a morte … e
può raccontarlo ( altra interessante nota autobiografica). Il
suo interagire con le signorine Epancin e con la generalessa lo
porterà alla prima goffaggine di una serie infinita, mentre
pian piano entrano in scena, per giustapposizione, tutti gli altri
personaggi. È il bel mondo pietroburghese già
scardinato dalle sue certezze, una sintesi mirabile della nuova
mistura sociale che si insinua nei salotti, li insozza e li
abbruttisce. Un nuovo mondo dove la nobiltà è
tramontata anche se cerca ancora di non arretrare il passo rispetto
al nuovo che avanza. Speculazioni che mettono in crisi i rapporti tra
padri e figli, tra coniugi, tra possibili amanti. Una rete sociale
ingarbugliata, sempre tesa, pronta all’ennesimo sgambetto. Via
via gli innumerevoli personaggi convergono relazionandosi tra di
loro, al centro lui, il principe, portatore di una nuova umanità,
che genera ironia, rabbia, compassione, odio, amore. In prima persona
o di riflesso, facendo emergere su tutte le indimenticabili figure di
Nastasha e di Aglaja e in misura marginale di Varvara. Tre piccole
donne, due polarizzate intorno al principe, l’altra degna
contraltare dell’arrivista fratello Ganja: tre piccoli misteri
del cuore umano capaci di generare al tempo stesso odio e amore. Un
epilogo triste, senza speranza che restituisce il principe al limbo
che lo ha generato.
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