Soqquadri
– Silvano Conti – Gruppo Editoriale Locale
– Pagg, 192 – ISBN 9788896330739
– Euro 15,00
Leggo
per la prima volta la nuova silloge “Soqquadri” di
Silvano Conti e, nonostante il suo linguaggio poetico mi sia
familiare avendo già recensito molte delle sue precedenti
sillogi, rimango questa volta letteralmente spiazzata.
Né
mi aiutano la brillante Introduzione all’opera dello stesso
autore e l’eccellente Postfazione di Maria Cecilia Moretti.
Anzi,
le loro analisi mi sembrano così approfondite e complete che
mi scoraggiano dallo scandagliare ulteriormente le poesie per poterne
a mia volta scrivere almeno una nota di commento. Mi sembra che a
quanto scritto da Conti e Moretti non ci sia nulla da aggiungere, o
meglio, non si possa aggiungere nulla, poiché è
stato detto tutto con dovizia di particolari e con grande competenza.
Si fa avanti nella mia mente l’”impossibile”:
non posso scrivere nulla!
Ma
questo mio atteggiamento da retroguardia non mi soddisfa. Non tanto
perché voglia recensire questo nuovo libro di Silvano e non
saprei da dove cominciare, ma perché quando qualcosa di nuovo
mi lascia un po’ interdetta, allora sento che mi si sta ponendo
una sfida.
L’atteggiamento
giusto è “voler e dover comprendere”. Ed è
questo che mi impongo di fare.
Così
rileggo la silloge, centellinandola, una poesia per volta, cercando
di andare oltre il significato apparente di ogni verso, cercando di
cogliere il poeta “sul fatto” mentre a sua volta scendeva
nei meandri più reconditi della propria anima, perché è
proprio da una profonda interiorità che possono essere
estratti dei veri e propri “tesori”.
Una
lettura che si ripete più e più volte, alla fine
qualcosa mi lascia. E non è l’immedesimazione che mi fa
cogliere il senso profondo racchiuso nei versi, ma una sorta di
percorso a fianco del poeta per cercare di vedere quello che egli
mostra, ma di vederlo con i “miei” occhi.
Ed
ecco che improvvisamente mi si apre un mondo. E penso - e mi dico: “A
volte anche l'impossibile ti dà una possibilità. E non
importa che sia remota o prossima. L'impossibile è un segno.
Devi imparare a decodificarlo. Come se fosse un sogno.
L’impossibile
è come una musica, non scritta su alcun pentagramma, non
suonata su alcuno strumento, ma sentita dall’anima come armonia
profonda”.
E
mi convinco che questo sia l’atteggiamento corretto per
comprendere questa musica poetica che si dispiega per tutta
quest’altra nuova raccolta del Conti.
Del
resto, lo stile lo riconosco.
Silvano
Conti, come tutti i poeti, non può che parlare a partire da se
stesso, dalle sue esperienze, vissute o immaginate, dal suo mondo,
pur trasfigurandolo poi in modo tale che in ogni poesia non si
riconosca più soltanto il poeta, ma che i contenuti siano resi
in forma poetica come contenuti universali, dove «la vita
scorre e filtra, imprevedibilmente bizzarra, riconoscibile
e in incognito» perché, come sottolinea
ancora P. Celan, «le poesie sono formazioni porose» e «la
poesia s’intende col suo stesso autore solo per la durata del
suo farsi - e congeda subito anche lui».
Dunque,
riconoscendo lo stile poetico di Silvano Conti non mi resta che
inoltrarmi a capofitto dentro le “sue” parole!
Ma
il problema della comprensione si ripresenta in tutto il suo spessore
e peso, perché questa volta Silvano usa le parole in modo
diverso dal solito, perché diverso è il suo intento
poetico.
Silvano
con le sue nuove poesie coglie le mille sfaccettature della realtà
come fossero tessere sparpagliate di un puzzle, da ricomporre.
Lo
esprime bene nella poesia Il gabbiano. Qui il poeta-gabbiano
che vola in tutti i cieli, che “levita nel lago denso del
significante”scompiglia le parole a tal punto che appaiono
come“quasi fossero state spaventate”
Il
poeta, cioè, coglie i frammenti di una vita in cui ognuno si
può riconoscere, frammenti di relazioni (tra persone, ma anche
tra persone e mondo) che sono, sempre più, prive quasi di
senso, lacerate da incomprensioni, da difficile comunicazione, se non
da incomunicabilità. Le parole sembrano spaventate perché
è difficile esprimere pezzi di mondo senza riuscire a dar loro
un senso.
Ed
ecco che il poeta, caparbiamente, mentre sottolinea questo dato di
realtà, insegna anche un modo per venirne fuori, per superare
il malessere che deriva dalla frammentazione dell’anima.
Dove
si colloca l’uomo autentico, in tutto questo scomporsi del
nostro mondo, anche privato, delle nostre esperienze, delle nostre
stesse capacità di trovare un senso almeno per noi stessi?
Il
poeta ci invita a scendere nella nostra interiorità, a
individuare a nostra volta i nostri frammenti di vita, di anima, di
mondo, e poi a trovare la forza di portare ad unità la nostra
individualità, la nostra personalità, il nostro stesso
ambiente di vita.
Un’altra
poesia molto significativa nel senso appena indicato, brevissima, in
soli quattro versi va in profondità fin quasi nelle viscere
del silenzio. La poesia è Ho rotto il casting: davvero
un insieme volutamente disordinato di lemmi, che il poeta accosta per
assonanza (più che per vicinanza semantica) e perché
interessano sensi diversi. In definitiva, è un po’ come
un gioco, oltretutto un po’ pericoloso, perché si tratta
di rompere la “figura” del silenzio, fatta di
quasi-cristallo.
Ma
era, già di suo, un silenzio “roco” (ossimoro!),
un silenzio che ha voce - non limpida -
E
tanto vale, allora, spezzarlo questo silenzio, con parole purché
siano, purché ci sia una qualche forma di comunicazione!
Nelle
due poesie Motu Proprio e La quinta stagione - Osiride,
il tema è l’anima: nella prima è non rispettata,
stanca, scomposta, frammentata, ma non riesce a ricomporsi, perché
non ha alcun desiderio di gioire; nella seconda, l’anima giunge
alla sua “ultima” (la quinta!) stagione, affranta,
mortificata: così appare ad Osiride, nella “pesatura”
prima che possa accedere all’al di là.
Qui,
in entrambe le poesie, il finale sottinteso è semplicemente
una sorta di rassegnazione. A volte si può non avere la forza
di reagire. Le cose possono anche restare come il destino le vuole.
A
queste poesie fanno quasi da contrappunto altre due: Random e
Participio futuro.
La
prima è un “inno all’alba”: quando niente va
come dovrebbe (o almeno come si vorrebbe), non resta che attendere
l’alba e con essa il nuovo giorno, per scoprire che l’attesa
non è stata vana.
Il
poeta ha perso per un attimo la consapevolezza di sé, ha
volentieri abbandonato se stesso per sentirsi “goccia di
cielo”, cioè tutt’uno con la natura, con l’alba
che sorge, mettendo in sordina per un po’ l’aridità
dei desideri. Questa momentanea distrazione che si configura come
un’assenza a se stessi, risulta comunque rigenerante: c’è
ancora qualcosa che può attirare l’attenzione e
gratificare con la sua “bellezza”!.
La
seconda poesia appare, già dal titolo, indicativa
dell’atteggiamento del poeta: in contrapposizione al participio
passato, che indica che tutto dovrebbe essere “avvenuto”,
“compiuto”, il poeta comprende che “è tutto
da rinviare a tempi migliori” se mai verranno. Si parla di un
viaggio molto particolare e non c’è nulla di strano a
rimandarlo in un futuro magari prossimo, o anche remoto. Si tratta in
fondo soltanto di una pausa…
Silvano
Conti è anche molto attento a tematiche sociorelazionali. In
tal senso, nella poesia Femminicidio, mette in scena un fatto
compiuto, dove quel che risalta maggiormente, di fronte allo sgomento
per l’accaduto, sono le “nove sillabe di silenzio”
nelle quali si racchiude il grido ultimo della donna e che sono più
eloquenti di qualsiasi parola o lamento.
Il
tema è particolarmente complesso perché antico e mai
risolto.
Una
poesia piuttosto intrigante è Muschio maschio, anche
questa brevissima: in soli quattro versi le parole si susseguono
apparentemente per allitterazione, ma a me non pare inverosimile che
il poeta, nella sua giocosità formale, abbia lasciato scorrere
sotto le parole una parabola della vita, con le sue fasi di crescita
- maturazione - speranza - disillusione con un finale
inesorabilmente tragico.
Senza
voler addentrarmi oltre in poesie specifiche, mi piace cogliere il
senso complessivo che ritorna, nonostante tutto, anche in questa
silloge, dove a volte il poeta trova vie di fuga di fronte a una
realtà che gli appare quasi insensata, a volte “registra”
dettagliatamente quel che accade, in un soliloquio spiazzante fatto
di sguardi, pensieri, ricordi, ma senza alcuna concretezza.
Il
poeta, perso nella rievocazione di un tempo felice, non sa più
chi sia, non si riconosce.
Oppure,
occupa il suo pensiero nell’osservazione attenta di quel che
gli si presenta sotto gli occhi curiosi e vede nascere dal silenzio
le sue poesie, come luce, come nutrimento dell’anima, così
che anche le cose apparentemente insignificanti possano trovare il
loro spazio di meraviglia.
Del
resto, il pensiero ha una peculiare facoltà, quella di coprire
distanze incommensurabili nel tempo di uno sbattere di ciglia, così
che il poeta raggiunge, nel suo fitto silenzio, una dislocazione
spazio-temporale che lo fa sentire a proprio agio.
La
ricerca di questi momenti di leggerezza diventa, per il poeta, quasi
una forma di ossessione: è l’attesa di qualcosa di
fortemente desiderato, di qualcosa di piacevole, che però
spesso si scontra con una realtà poco gratificante, al limite
del nonsenso. Per quanto il poeta si sforzi di cercare sempre oltre
(come in Oltremania), non intravede altro che nulla. È
un po’ come l’attesa mortificante di Godot…
Ma
il poeta è sempre consapevole che il fare altro per non
pensare, per distrarsi da ciò che desidera, è qualcosa
che ha vita breve, il desiderio frustrato gli fa apparire la verità
come disillusione, nonostante neppure la lontananza riesca a sopire i
suoi desideri e, talvolta, la sola immagine (pensata, disegnata)
dell’amata gli basta per ritrovare la propria quiete.
In
questa silloge, come nelle precedenti, Silvano Conti porta dentro il
suo mondo, ben trasfigurato in espressioni poetiche nelle quali anche
il lettore si riconosce ed è questa connotazione “universale”
delle sue poesie che le rende piacevolmente fruibili.
Ma
qui al lettore viene richiesta un’attenzione maggiore, una
risistemazione dei propri frammenti di vita, per ritrovarsi integro,
pur in una realtà che tende a sopraffare l’individuo, in
generale.
Si
dice che la poesia non abbia alcun intento predeterminato, non abbia
funzione pedagogica o critica o estetica, ma a posteriori, è
lecito, credo, darne una lettura che colga proprio questi intenti.
Leggere
poesie come queste dei Soqquadri non può lasciare indifferenti
e se la lettura vuole andare in profondità si ritorna poi in
superficie necessariamente cambiati, più ricchi, più
consapevoli di se stessi e di quel che in qualche modo ci coinvolge.
In
conclusione, vorrei riprendere il pensiero di Paul Celan, riguardo
alla “oscurità” della poesia. Egli
sosteneva che «la poesia è in quanto poesia oscura,
e oscura perché è poesia”… ma «la
poesia vuol essere compresa, vuole, proprio perché è
oscura, essere compresa: come poesia, come “buio
poetico”» - e ancora: «nella poesia viene detto
qualcosa, ma -di fatto- in modo che il detto rimane non detto finché
chi lo legge non se lo lascia dire».
Ed
è proprio con queste convinzioni celaniane, da me pienamente
condivise, che ho potuto procedere nell’analisi di questa
silloge.
Nonostante
il primo approccio mi avesse quasi del tutto dissuasa, è
infine giunto il momento del tuffo nell’impossibile che,
insperatamente, mi ha dato una possibilità. Averla colta non
mi assicura certamente di essere riuscita a comprendere appieno il
pensiero del poeta, ma le poesie in fin dei conti sono di chi le fa
proprie, di chi le legge come se rispecchiassero il proprio pensiero.
E quanto ho fin qui scritto è soltanto una mia
interpretazione. Ogni altro lettore potrà servirsi della
propria chiave interpretativa e trovare nuovi sensi, nuove emozioni,
nuove conoscenze.
L’Introduzione
dell’autore e la Postfazione all’opera di Maria Cecilia
Moretti saranno a loro volta indispensabili letture per inquadrare
anche dal punto di vista filosofico e sociale la poetica di Silvano
Conti, così come nei Soqquadri rinnovata e spinta oltre i
limiti del pensiero comune.
Maria
Carmen Lama
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