Perché
ancora oggi la poesia non è sociale
di
Giuseppe Piazza
La
nostra storia culturale, nonostante tante generose rivoluzioni
sociali e scientifiche, è stata e continua ad essere
sostanzialmente denominata dal senso di particolari parole
convenzionali che, a lungo andare, hanno definitivamente sovrapposto
la loro essenza concettuale sulla realtà storica,
costringendola a misurarsi, in vario modo e in ogni circostanza, con
esse. L’aspetto più rilevante di queste parole sta tutto
in quel mondo psicologico che esse hanno solidamente edificato nella
coscienza, come risposta definitiva ai problemi esistenziali e morali
della vita, tanto che l’uomo è stato facilmente educato
a credere e a ritenere che la vita sia stata concettualmente sempre
così, e che si sia servita di queste parole particolari e non
anche di altre, e con nessun altro significato fuori di quello da
esse proposto, come di solito avviene con le parole di natura
religiosa. E’ innegabile, e gli effetti continuano ad essere
ancora oggi sotto gli occhi di tutti, come sia stato evidente il
fallimento storico della morale professata in dipendenza di
quest’ordine di parole, che in ogni tempo mai hanno risparmiato
all’umanità gli orrori di una guerra, né di una
ingiustizia sociale, né, soprattutto, in alcun modo, mai hanno
assecondato la sua naturale tendenza alla libertà di pensiero,
anzi, con ogni mezzo, sempre più strettamente l’hanno
ostacolato, accrescendo la sua storia di sventure e vessazioni morali
di ogni genere. In tutto questo, cosa, ha fatto
la
poesia?
Forse
il pregiudizio di comodo della sua inutilità sociale, che
frequentemente si è imposto, anche e soprattutto con l’avallo
di poeti laureati, avrebbe dovuto metterla al riparo dal dar conto
concreto della sua esistenza nella vita degli uomini, apparendo solo
sufficiente averla considerata come espressione dei loro sentimenti
interiori, come se poi essi non si nutrissero di quei medesimi tempi
culturali registrati dalla presenza di quelle stesse parole che in
tutto informano il suo pensiero? Ha forse mai seriamente insinuato il
sospetto sulla validità sociale e culturale delle parole, che
sono anche sue, attraverso cui l’uomo si educa, attraverso cui
si porta dietro il suo passato, attraverso cui assume dei parametri
per giustificare o riprovare le sue azioni? Il poeta, specie del
Novecento, anche quando è stato eccellente per i risultati
artistici, è stato insufficiente per la realtà morale
dell’uomo e del suo tempo, perché si è limitato a
leggere le sue inquietudini dai risultati determinati dalle
componenti politico-sociali, comportandosi come un positivista,
piuttosto che come un filologo spregiudicato, capace di rivoltare le
parole dall’altra parte, per svelarne le lunghe manipolazioni e
deformazioni culturali. Forse per questo suo consueto aspetto di
discrezione verso il mondo delle parole, il poeta non ha mai messo in
discussione la realtà concettuale delle parole che ha usato, e
se talvolta ne ha fortemente sentito il peso opprimente, il suo
intendimento progettuale non è però approdato ad un
chiaro e consapevole esito critico ma a quello intellettualmente
prevedibile e negativo della pagina bianca, del mutismo e
dell’impotenza della parola, aspetti questi che rivelavano i
limiti culturali e storici in cui si muoveva l’orizzonte delle
sue ricerche e dei suoi fini, un lavoro destinato, al di là
delle straordinarie innovazioni formali, alla sterilità,
perché privo di proposte e finalità sociali. Così
la mente, pur nel mutare delle circostanze storiche e culturali, si è
ritrovata e si ritrova davanti sempre lo stesso uomo, la cui
esperienza viene riletta con l’unico registro logico che lo
inchioda alla sua natura, più che alle sue parole. Noi siamo
il prodotto delle nostre parole e dei nostri pensieri, che, come si
sa, affondano i loro umori proprio nei concetti che le parole ci
hanno costruito culturalmente.
Non
basta, come credo, esprimere la nostra problematica sensibilità
in un confronto continuo e dolente con la realtà, se poi non
si rimuovono consapevolmente dalle parole che usiamo le incrostazioni
culturali che le deformano e che ci impediscono di spingere lo
sguardo severamente fin nelle loro radici inautentiche. L’uomo
non si muta e migliora accrescendo il solo suo benessere economico,
ma soprattutto eliminando le false strutture intellettuali che hanno
determinato il percorso storico e civile della sua vita. Per questa
complessità di situazioni, che stanno a monte del fare vera
poesia, ancora oggi tutto sembra immodificabile per la poesia, ed
immodificabile concettualmente essa stessa; le parole, messe alla
prova concreta della storia, finiscono sempre con il riproporre le
stesse prospettive esistenziali e i limiti conoscitivi, sicché
ci si acquieta nella assuefazione che vuole la poesia come
espressione di sentimenti personali o di riflessioni su fatti e
situazioni storico-sociali rilevanti, senza mai però
culturalmente andare al di là del dato di fatto in sé,
tanto che l’uomo può venire ritrascritto in una prevista
ricapitolazione esistenziale, in cui da sempre esteticamente getta
ponti ardimentosi di prospettive ed erige puntelli per trovare una
soluzione plausibile di verità, un pretesto mentale per
sostenere le sue riflessioni. In tali ricorrenti ed immodificate
circostanze culturali, come aiutare con la poesia l’uomo ad
uscire fuori da questa situazione mentale dolorosa, se la poesia
obbedisce anch’essa agli stessi risvolti psicologici delle
parole di cui il poeta si serve per le sue relazioni quotidiane? E
poi, come riconoscere quelle autentiche e culturalmente appropriate e
valide da quelle strumentalizzate ed artificiose? La soluzione
sembrerebbe insuperabile data l’unità psicologica
dell’uomo, sia quando agisce come poeta e sia quando si trova a
riflettere di fronte a delle situazioni della sua esperienza sociale.
Ma se noi consideriamo che le parole con cui siamo stati educati per
leggere la vita, la storia, l’intimo nostro pensiero, sono
parole che ci hanno dato soluzioni chiuse, a differenza
dell’intrinseca mobilità della mente che sempre si
scopre problematica ed in ritardo con il fluire del tempo e delle sue
mutevoli e sorprendenti esperienze intuitive, allora dovrà
essere compito morale di una nuova e seria cultura aprire un più
reale dialogo con il pensiero dell’uomo, perché egli
possa responsabilmente ricostruire concetti non più assoluti e
rigorosi, ma tali da essere espressione concreta dei suoi nuovi
travagli mentali, misura del suo reale agire ed organizzarsi in modo
da sfuggire ad ogni manipolazione interessata e consentirgli così
di giungere ad una nuova e provvisoria sintesi conoscitiva sulla
scorta anche di un fecondo e consapevole relativismo critico. Ma la
poesia oggi, anche se è vivace e dolente espressione del
nostro tempo, resta, tuttavia, ancora molto lontana da ogni seria
funzione sociale e culturale, perché non osa mettere in
discussione, attraverso un profondo ripensamento critico, i
contenuti, la psicologia delle sue parole; non osa assumere il
presente storico istituzionalizzato nelle grandi parole sociali, per
confrontarsi con esse in una dialettica che superi il semplice segno
grafico, codificato spesso in una sospensione vaghissima, che, per la
sua suggestione musicale, crede di aver risolto il problema.
La
poesia oggi più di ieri deve problematizzare le grandi parole
morali della tradizione, attraverso cui si è stati educati a
leggere il mondo, per scoprire la responsabilità che esse
hanno avuto nel determinare le azioni dell’uomo. Solo così
si può onestamente sperare di cambiare il mondo e di
consentire all’uomo di essere un saggio padrone del proprio
destino. Perché, se è vero che noi siamo i nostri
pensieri, è altrettanto vero che noi siamo educati e anche
deformati dalle parole che contengono i concetti dei nostri pensieri.
La poesia che è la parola per eccellenza, non può
moralmente ignorare il proprio materiale culturale, e, a sua volta,
il poeta, che ne è il più diretto fruitore ed
organizzatore se vuole giovare alla poesia e farla uscire dal
pregiudizio della sua inutilità sociale, pur senza mai
rinunciare in privato alle proprie emozioni, deve darsi da fare per
rieducare l’uomo del suo tempo, e non solo, con una nuova ed
autentica riproposizione di situazione umana, da cui sappia far
trasparire gli schemi storico-culturali che hanno determinato le
strutture mentali dell’uomo occidentale, in special modo, che,
nonostante tutto ,continua ancora a leggere la propria vita tenendo
immutabile in mano il libro degli altri. Ed infine ci chiediamo, dopo
questa premessa, quale soccorso culturale autonomo e nuovo di
rinnovamento può offrire la parola poetica nella struttura
mentale del nostro uomo? Ha essa un rapporto con la società o
solo risponde ad un bisogno espressivo interiore di chi la utilizza?
Nel corso della storia letteraria la parola poetica non ha mai potuto
prescindere da questi due ambiti umani, anche quando essa si è
presentata nelle forme più irrazionali e meno disposte ad
essere comunicabili. La parola poetica ha sempre, in ogni modo,
voluto porsi come mediazione tra il soggetto-poeta e la società
addentrandosi nei diversi aspetti della personalità del poeta
stesso e delle situazioni storiche che hanno determinato il modo di
sentire e di proporsi di quello. Questo discorso, che suona
apparentemente contraddittorio con quanto di sopra ho scritto e
sostenuto a proposito della non socialità della poesia,
considerata nei suoi contenuti, serve invece, a confermare la mia
convinzione sulla marginalità della parola poetica nel
prendere coscienza della reale psicologia dell’uomo sociale in
tutte le epoche, meno dannosa nelle epoche classiche, più
devastante e duratura nella nostra, proprio per il prevalere nella
mente dell’uomo di una educazione culturale in funzione di un
sistema di idee e di valori considerati definitivi. Parole queste per
ogni stagione, si direbbe, parole sempre le stesse nella loro
incidenza psicologica e culturale, parole che non hanno più
bisogno di essere revisionate dalle conquiste filologiche e storiche,
o da una disinteressata analisi di comparazione e di storicizzazione
dei loro contenuti concettuali. Cosa ha fatto il poeta in questa
prospettiva per dare alle sue parole un senso originario e storico e
non solo emozionale ed esistenziale? La narrazione favolosa e
conviviale o sentimentale della parola poetica classica rispondeva ad
un bisogno naturale di conoscenza e di espressività, il suo
mondo concettuale variava di lusinghe personali e di proiezioni
mitiche, si estendeva invincibilmente a comprendere tutte le intime
forze della fantasia e della retorica, e allargava sempre più
il suo libero orizzonte intellettuale in una piena adesione
intellettuale con quanto la riflessione morale induceva a meditare
sulle malinconie esistenziali e sui rapporti sociali, sui quali pure
incombevano ritualità e tensioni spirituali che, a lungo
andare, finivano con il deformare ogni sana riflessione culturale e
psicologica .Ma se l’ambito della parola poetica e morale
antica lasciava un largo margine speculativo sempre aperto alla
curiosità e all’esperienza razionale, che trovava dentro
di sé un mondo di suggestioni su cui poteva anche ridire non
così avvenne con la nuova visione della vita e del mondo, che
seguì la fine del vecchio ordinamento politico e culturale.
Quello che successe dopo nella sfera concettuale delle parole è
ancora sotto gli occhi di tutti, perché i suoi effetti morali
perdurano ancora nella nostra psicologia e nella nostra storia.
L’angoscia esistenziale dell’uomo moderno non è
solo figlia di un semplice o brutale contrasto tra leggi naturali e
leggi politiche, non ha niente, perché da sempre antico e
presente, delle sconvolgenti rimozioni freudiane, incidenze
biologiche che crescono nella fatalità delle nostre
combinazioni emotive, perché essa è essenzialmente
figlia della pretestuosa serietà di favole e parole chiave che
si imposero come patrimonio culturale onnipresente e
onnicondizionante, e restringendo,per di più, ogni pensiero,
ogni atto ,ogni evento nella loro proiezione morale. L’infelicità
dell’uomo occidentale non ha origini solamente politiche ed
economiche, ma soprattutto culturali. Non che gli antichi fossero del
tutto felici, per dirla con il Leopardi, ma almeno non si negarono il
diritto di vivere e morire liberamente e soprattutto di pensare
secondo coscienza, e di rinnovarsi. Il mio non è ovviamente un
discorso che vuole toccare i problemi della bioetica, come potrebbe
far pensare la precedente allusione alla libertà del morire,
ma mostrare se l’uomo con le attuali parole culturali della sua
educazione mentale sia diventato più responsabile e
disinteressato, o se anche, in ultimo, più felice. E tutta la
storia, invece, ci dimostra il contrario.E questo perché non
si vuole, come un grande progresso pedagogico, revisionare e
storicizzare le parole chiave che ancora ci guidano e ci condizionano
in ogni pensiero, in ogni giudizio. Non si vuole più accordare
alla mente dell’uomo quello stesso diritto intellettuale che
ebbe la nostra civiltà occidentale e cristiana di sostituirsi
a quella antica nella proposizione di nuove parole. E’ come se
l’uomo avesse concluso la sua capacità mentale di creare
parole e formule liturgiche irrazionali per immettere linfa nuova in
tronchi vecchi e dare al suo pensiero più freschi materiali
per nuove dimensioni civili. E in tutto questo che c’ entra la
poesia? Ma se la poesia, per riconosciuto statuto è
essenzialmente parola, e la parola è l’espressione
dell’educazione completa dell’uomo, e se l’uomo
continua a credersi sempre sotto lo stesso cielo, non è forse
anche colpa della poesia che non si stanca mai di ricapitolare l’uomo
dentro l’assuefazione di parole e di sentimenti dal registro
psicologico e culturale invariabile?
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