Per
segni accesi – Annamaria Ferramosca –
Giuliano Ladolfi – Pagg. 98 – ISBN 9788866445746
– Euro 12,00
I
poeti sono in genere persone pacifiche, che sentono prima e più
profondamente delle persone comuni le atmosfere che vengono a crearsi
nelle relazioni sociali e, più ampiamente, nelle relazioni fra
popoli e fra l’uomo e la natura.
Colgono,
come si suol dire, i segni dei tempi. A volte anticipano quel che
potrebbe accadere, a partire da qualche dettaglio che intravedono e
che agli altri sfugge e, sulla base di questa particolare
consapevolezza, scrivono poesie che vogliono mettere in guardia, o
che vogliono semplicemente segnalare quel che a loro si è
palesato attraverso la loro fine sensibilità, attraverso i
loro sensi “scoperti”, attraverso quell’esercizio
di osservazione meticolosa, di scandaglio, quasi, che avviene in
maniera del tutto naturale, quasi che le cose si offrissero al loro
sguardo per essere comprese e per far sì che i poeti dessero
loro una voce.
C’è,
nel porsi dei poeti di fronte alle cose che li interpellano, una
sorta di stupore, un atteggiamento quasi di incredulità che in
qualche modo chiede loro di verificare, di perdersi nel richiamo
delle cose, di dar loro l’ascolto di cui hanno bisogno.
Leggendo
più volte la bella e singolare silloge di Annamaria
Ferramosca, Per segni accesi, Giuliano Ladolfi editore - febbraio
2021, ho avuto la sensazione netta di trovarmi di fronte a una
poetessa il cui sentire è finissimo, la cui attenzione è
costantemente vigile, a lei non sfuggono particolari molto
significativi che attraversano il tempo che stiamo vivendo e che
interessano non il suo solo spazio di vita, ma uno spazio che va
oltre i ristretti confini di un paese, o regione, o nazione, per
espandersi a livello planetario.
Scritta
in tempi non sospetti, (non gli attuali, febbraio/marzo 2022, in cui
gli elementi presenti nelle poesie stanno esplodendo in modo
esasperato), la silloge coglieva già elementi di tensione, di
disfunzione nei rapporti tra popoli (ma anche tra persone della
stessa comunità linguistica e sociale), di indisponibilità
a farsi carico dei problemi dei meno fortunati, di non accoglienza
dell’altro, come se si volesse lasciare a ciascuno la
responsabilità di trovarsi a vivere in paesi dove solo la
sofferenza è loro pane quotidiano, mentre in realtà non
si sceglie il posto in cui ci si trova a vivere, in cui si è
nati.
La
Ferramosca sembra toccare con mano le situazioni di cui parla, sembra
viverle sulla propria pelle, tanta è la solidarietà che
si sente vibrare nei suoi versi e l’empatia.
I
versi sembrano scorrere su un filo rosso invisibile, che inizia col
mettere in scena l’origine della vita, (si fermano i vortici
della notte si compie il tempo / l’humus prende forma
imita materia d’alba […] dire di un movimento che
prima non c’era / e pure si predisponeva / con
l’impercettibile forza del germoglio / un tendere
misterioso del seme) per proseguire con le varie vicissitudini
che in una vita accadono e, con calibrato equilibrio, vengono
mostrate, attraverso metafore, miti, dubbi e pressanti domande
(domandepietre, a volte), e realtà concrete, le
emozioni vissute dai protagonisti, le loro prese di posizione fatte
proprie dalla poetessa per dar loro una voce, e che sia la più
accorata e la più incisiva voce possibile.
Attraverso
le poesie di questa silloge, Annamaria Ferramosca si fa portatrice
di valori assoluti, che da tempo sembrano aver perso la loro
preminenza nella vita degli uomini e dei popoli e nel loro rapporto
con la natura (chiamo mi chiamano / respiro il comune
respiro / insieme camminiamo insieme andiamo) - (il
villaggio i fuochi le ombre lunghe / i miei vecchi con me
porto indicibili / i loro occhi del commiato) - (ora
o mai più / è ora di prossimità /
insieme aprire la via nel bosco / luminosa assoluta /
seguirne i segni chiari sui tronchi / fino al limite
dei rami / riconoscere la distanza di rispetto / tra
pianta e pianta tra nido e nido) - (cerco armi nella voce
un canto / per la bambina che improvvisa una danza / le
sue parolecorpo sollevano / onde felici di musica e memoria)…
e così via…
I
versi si dipanano lungo un asse portante che riguarda la natura, la
cui salvaguardia dovrebbe essere intesa non solo per se stessa ma
anche a vantaggio della stessa sopravvivenza degli esseri viventi in
generale e umani, in particolare, e invece la natura subisce
sfruttamenti e violazioni irragionevoli.
Con
lo scorrere dei versi su quel sottile filo rosso dell’esistenza,
scorre anche un richiamo forte, via via più insistente, più
deciso e convincente, alla presa di coscienza della deriva verso cui
stiamo portando il nostro mondo e con esso noi stessi (altrimenti
// saremo sirene disperate […] solo schiuma d’onde
/ rumore di risacca) - (tutto il caos che piove dalla
fronte / il tremore sgomento dei neuroni) - (mentre
torri schiantano e ponti / deserti avanzano s’inabissano
rive)…
Insieme
a ciò, si fa viva una speranza, che davvero si possa tornare
ad una condizione di vita sostenibile, in cui ciascun individuo,
ciascun popolo possa trovare il proprio status di “umanità
felice” (ci esaltiamo lungo i meridiani / per ogni
lingua viva come bella s’accende / quando si
contamina / e si esulta / nel riconoscere la madre
in ogni terra / e fratelli su ogni terra uguali)…
Questo
avanzamento delle poesie verso una speranza che non deluda è
colto attraverso l’accrescimento dell’enfasi, quel che in
poesia è definito climax ascendente, appunto, e che qui
prosegue con intensità sempre maggiore di poesia in poesia,
dall’una all’altra delle tre sezioni del libro. Con
questa modalità espressiva la poetessa vuole mettere in
evidenza una sorta di “grido” della sua anima, affinché
le sue parole vengano ascoltate e stimolino riflessioni. E affinché
ne conseguano azioni coerenti.
Non
sempre si trovano tanta determinazione e tanta partecipazione emotiva
in libri di poesie che abbiano un fine di così alto livello,
nonostante la conoscenza dei problemi attuali del nostro mondo sia
ormai alla portata di tutti.
Inversamente,
si potrebbe dire che la Ferramosca abbia colto il bisogno profondo
degli esseri umani più consapevoli che tuttavia non possiedono
gli strumenti per mettere ordine nella loro confusa percezione e
abbia voluto dar loro voce.
Annamaria
Ferramosca adegua perfino il suo linguaggio poetico allo scopo che
persegue e che vorrebbe conseguire. In questa raccolta poetica
prevale infatti la chiarezza espressiva, proprio per riuscire a
raggiungere la mente e il cuore di quanti più lettori sia
possibile, perché la consapevolezza delle nostre azioni si
allarghi come in cerchi concentrici, come accade all’acqua
quando vi si lanci dentro un sasso.
Ecco,
le poesie sono i sassi, ma sono anche precisi segni, accesi in tutta
la loro luminosità, perché quel che si è
mostrato alla poetessa come indice di attenzione possa essere visto e
sentito anche da chi voglia capire e interpretare la realtà
in cui vive, anche se in modo indiretto, leggendo le rappresentazioni
che la poetessa porge con l’insieme dei suoi versi poetici.
E,
nel caso specifico di questa raccolta, si tratta di poesie pensate,
sofferte, vissute. E come tali raggiungono chi le legge.
fare
tabula rasa dei pensieri
affidarsi
al buio
con
la sicurezza dei ciechi
sostare
ad ogni angolo della notte
afferrare
i lumi al baluginare dell’alba
sulla
bocca delle sorgenti
nel
luccichio delle nascite
verrà
l’oceano
verranno
le sue vele
saremo
nuovi per nuovi continenti
-
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
vedere
chiare feroci le nostre solitudini
molecole
disaggregata ancora
qualcuno
strappa i legami covalenti ancora
la
vista si oscura
reagire
agli urti come fossero incontri
seguire
empatiche direzioni automatiche
-
voli in stormo come istinti del nido -
accogliere
in gioia i suoni multilingue
quando
si traducono solo sfiorandosi
e
rifondano città
altrimenti
saremo
sirene disperate
aggrappate
ai fianchi delle navi
a
soffiare note strozzate
sui
naviganti legati al palo
storditi
dal nostro sperdimento
d’essere
solo schiuma d’onde
rumore
di risacca
-
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
quel
flauto di Pan suonava
come
retrocedendo nel tempo
chi
ascoltava ne era trapassato
sentiva
di scivolare
in
una terra diafana
di
boschi di nidi
dove
minimi fuochi
accendono
desideri
ritornare
là nello spazio bianco
dove
il primo flauto era nato
e
cantava
già
prima di nascere
-
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
terra
domani
mi
dici ho visto in sogno il futuro
come
da un’astronave guardavo
la
terra venire incontro al suo domani
a
tratti s’illuminava tra i rami
di
lanterne voci onde vivide
da
una mappa poetica sonora
(dal
brusio emerge ogni voce
E
nitida dice con lance di senso)
e
i visi i visi di noi futuri
occhi
e capelli lucenti
pelle
ibrido-bruna
e
le note le note
non
più distinte ma
divenute
paesaggio
bosco
che scivola nella città
savana
fusa nel villaggio
vedere
caprioli in corsa
su
autostrade deserte
e
lupe venute a partorire
negli
hangar silenziosi
sentire
feroce il sole ridere
di
noi umani confusi reclusi
a
schivare corpuscoli armati
ad
attendere lentissima
la
chiarezza
(4
marzo 2022)
Maria
Carmen Lama
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