Semi
nudi –
Franca Canapini - puntoacapo –
Pagg. 130 – ISBN 978-88-31428-33-0 – Euro 15,0
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Si
intitola Semi nudi la recente raccolta di Franca
Canapini, edita da Puntoacapo nel 2021, con una intensa prefazione di
Fernanda Caprilli.
La
silloge, divisa in quattro sezioni, ha una copertina con colori
squillanti nel buio, emblematici dello scoppio dell’ispirazione
poetica e del suo farsi parola scaturendo da un fondo oscuro,
portando luce, proprio come il titolo della raccolta che allude alla
parola poetica come ‘seme’ che sottoterra nasce nel suo
humus segreto e poi matura, ‘nudo’ perché
innocente e pronto però a disvelarsi, a dare frutti.
“Torno
all’acqua/ in un lento andare / di risacca // torno al fosso
mio verde…/ torno alla mia natura selvatica”. Con questi
versi si apre la raccolta e in essi si riassume il senso e il
percorso della prima sezione, la più corposa (comprende ben
quarantasei liriche contro le trentasette complessive delle altre tre
sezioni) e intitolata Un anno a passi leggeri sulla terra.
“Terra”
è la parola chiave non solo di questa sezione ma dell’intera
raccolta (la ritroviamo ben quattordici volte, se ho ben contato),
insieme alle parole “verde” e “natura”, a
volte scritte con lettera maiuscola ( si veda ad esempio p.14) e
declinate in tutte le loro manifestazioni: fiori, foglie, animaletti
(acacie, cardo, betulla, biancospino, anemoni, campanule, vitalba,
iris, papaveri, ginestre, tiglio, passerotti, tortore, merli,
colombe...). E’ la riprova di un contatto e di una
compenetrazione dell’autrice con il mondo naturale nella sua
essenza più semplice e vera, colto in tutte le sue stagioni e
ore, componendo un ideale calendario (scorriamo alcuni titoli: Il
vento di febbraio, Tempo di aprile, Notturno di maggio,
Un primo agosto qualunque, Settembre d’argento,
Sera di primavera p.23, Imbrunire p.31) e raggiungendo
in alcuni passi toni di chiara ascendenza pascoliana (si veda in
particolare Notturno di maggio p. 24 e Singhiozzo muto
p. 25).
Si
compie così, poesia dopo poesia, il ritorno all’infanzia
in campagna, con la figura della “madre amorosa”, del
padre, definito “tenace radice”, e con il ricordo
struggente della ‘prima casa’ (“per quanto tu abbia
voluto sfuggirla/ ritorna nei sogni come l’unica Vera” p.
53 ), degli incontri e delle voci nel borgo, in quella età che
Canapini definisce “le torride giornate della giovinezza”
(p. 29), una stagione irripetibile, per lei come per tutti, dominata
dall’”ansia per un futuro che non sapevamo immaginarci’).
Nelle
torride stagioni della giovinezza
i
fiori allegri dei gerani
addolcivano
le scalette di pietra
e
le soglie delle case dei poveri
L’aria
profumava di cibi appena cotti
Da
invisibili piazzette giungevano
rumori
e voci di ragazzi
Si
camminava veloci per quei borghi
spinti
dall’ansia per il futuro
che
non sapevamo immaginarci.
Questa
atmosfera di ‘recherche’ è indicata dal frequente
ricorrere di forme verbali all’imperfetto (si veda anche a p.
33 e 37), a sottolineare il proiettarsi dell’autrice in un
tempo lontano, rivissuto con nostalgia, a tratti quasi intessuto di
mito antico (come ne Vestali del Mediterraneo, p.37 ), un
passato contrapposto a quel presente che, a distanza di tanti anni
dalla giovinezza, ora appare un tramonto venato di malinconia,
depauperato inevitabilmente di energia. Si veda in particolare la
poesia Anche le più alte p. 49, che ha un andamento
musicalmente classico:
...Anche
le più alte di passione fiamme
col
tempo degradano in vile carbone freddo
che
rapido con la terra si confonde…
In
questa lirica compare un’altra parola chiave della raccolta, il
termine ‘tempo’, fil rouge sotterraneo di un’operazione
difficile tentata dall’ autrice: il ricongiungimento tra quel
passato perduto, ma impresso vivamente nell’anima, e il
presente, quasi un’invocata unione tra ‘vivi’ e
‘morti’, che sembra compiersi davvero, anche solo per un
istante, in Una sera d’agosto qualunque (p.34), o
In Suggestione notturna e Il passo dei morti (p. 54 -
55). Il senso del tempo che scorre ciclicamente nel mondo naturale,
mentre nella vita individuale manca un perpetuo rinnovarsi, permea di
sé molti versi, peraltro costruiti e creati in forma
originale. Esemplare la poesia Come di sterpi (p.45) che
sembra suggerire un senso quasi di ‘cupio dissolvi’
ritmicamente espresso dal triplice ripetersi della stessa parola
(“piangere piangere piangere”, “andare andare
andare “), dalla triplice anafora di ‘per’ e dal
climax semantico di ‘sfinirsi sciogliersi liquefarsi svanire’.
Quello
che convince ed è, a mio parere, apprezzabile è proprio
l’uso delle parole, del loro ordine, suono, significato ovvero
un gioco, solo apparente bensì sapiente, che dimostra una
personale e originale padronanza delle cosiddette ‘figure
retoriche’, quelle antichissime inventate dai greci e riprese
dai latini, che non a caso hanno dato loro i nomi con cui sono
universalmente conosciute (metafora, ossimoro, allitterazione,
anafora, enumerazione, etc. ), ma senza le quali non esiste poesia e
nemmeno creatività vera, perché non esiste ritmo,
musicalità, estro, simbiosi tra contenuto e forma.
E
nelle poesie di Semi nudi questo gioco di figure c’è,
così come un uso libero del verso e della sua spaziatura,
caratteri che si abbinano e sposano con quello che l’Autrice
sente e vuole esprimere, con il tormento sottile e insieme la voglia
testarda di vincere la malinconia e vivere il tempo di vita che resta
così come sarà, con una sofferta ma conquistata
‘serenita’ e ‘misura’, parole che pervadono
altre poesie ( p 77, 92, 108), non a caso anche in riferimento al
valore della poesia come esercizio liberatorio. La poetessa scopre
finalmente la sua anima, specie nelle successive sezioni, la
riconosce e le toglie quella maschera di ghiaccio che ha descritto
nella poesia Islanda (p. 85) e messo pian piano a fuoco nella
poesia La matrioska. CIATRE
I
tanti volti, ruoli, finzioni della donna Franca - e di tutte le donne
sempre – si aprono una dietro l’altra proprio come nella
bambola russa e lasciano il posto ad una Sibilla del Sogno,
titolo dell’ultima sezione, in cui la donna matura si sente
‘ricongiunta‘ a quella bambina nel verde della sua
campagna e che se, a tratti ‘de-lira’ (ossia, secondo
l’etimo antico, esce dal solco), niente altro fa che
esprimere finalmente la sua libertà, il suo andare “decisa”
nel bosco della vita, sperimentando forme poetiche originali.
Un
cammino intrapreso dall’autrice tra smarrimenti, lotte, ideali,
per giungere al difficile “osso delle cose’ (Bisogna
crederci, p. 76), al lavoro in silenzio del cervello, grazie
proprio ai tanti amati libri (a cui dedica l’intensa poesia
Amico libro p. 87), al viaggio nella poesia sua e di altri
autori italiani e non, magari Leggendo poesie alle quattro del
mattino (p. 90), rischiando anche di esser presa per “romantica”
o “folle cavalla nella notte” (Follia magica,
p.99). Sicuramente un cammino percorso con slancio, a volte con
ingenuità, spesso con delusioni nelle pieghe della storia
collettiva.
Prima
di giungere a questa meta Franca Canapini ha dovuto ripercorrere
nella sezione Con dedica le tappe del suo rapporto con i
figli, il marito, i giovani di ieri e di oggi, le sue battaglie
contro il nucleare, contro le fedi intolleranti dei Foreign fighters,
lo sfruttamento del lavoro, l’umiliazione degli emigranti e la
sua profonda comprensione e appoggio per le “anonime madri di
famiglia”, mai vestite di lustrini ma tanto utili alla società
(p. 73). Valga per tutte le poesie di questa sezione citare Chiedilo
al ciliegio, che nella prefazione Fernanda Caprilli definisce a
ragione “una delle più belle poesie della raccolta”.
Una
raccolta, Semi nudi, certamente condotta sul filo della
autoreferenzialità, del bilancio di vita personale di chi,
giunto alla soglia dei settanta anni, delinea lucidamente l
‘occasione di vita’ rimanente - Kairos in greco
come l’omonima bellissima poesia a p. 40 - ovvero quella
striscia di sabbia da vivere “in un’onda lenta”,
“aspettando che qualcosa passi / che qualcosa accada / che
qualcuno torni”, come un pescatore esausto che non vuol sapere
il ‘pesce della quantavita che ci rimane”.
Come
non riconoscersi, almeno per quanto riguarda gli esponenti della sua
stessa generazione, in tanti di questi versi? e come, nella veste non
tanto di critico letterario ma di poetessa, non sentire consonanza
con le sue tematiche? l’attenzione per l’ambiente e la
natura, la passione per la scrittura poetica, la sensibilità
per gli altri, il disincanto per le ideologie, ma in particolare la
consapevolezza del tempo trascorso, quel “tempo che trasforma”
con cui chi scrive ha dato titolo ad una poesia e poi al suo ultimo
libro.
Lasciando
a chi vorrà il piacere di leggere questo libro, citiamo a
conclusione tre versi in cui è bello riconoscersi
perfettamente, tratti da Ape con zinnia gialla (p. 30) in cui
l’ape, sulla scorta anche qui pascoliana, è il poeta
stesso:
“Ho
dato e dato – magari errando a volte
ma
senza risparmio di me stessa,
per
amore, sempre”.
Patrizia
Fazzi
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