La strategia della paura
di Carlo Bordoni
Il corpo
mutilato di una donna, con reliquie cheyenne e corvi
impalati, composto come un quadro di una natura morta. Contiene un messaggio incomprensibile,
assurdo nella sua atrocità, che solo un uomo può spiegare. È l'incipit
sconvolgente di Natura morta, di Douglas Preston e Lincoln Child (Sonzogno, 2003).
L'uomo è Pendergast. Sì, Pendergast
(solo il cognome) è un agente davvero speciale dell'FBI. Per niente macho.
Antieroe per eccellenza, minuto, pallido, non aggressivo, tutto il contrario
di quello che ci si può aspettare da un tutore della legge; una figura
evanescente e incorporea che sfugge persino a una descrizione fisica accurata.
Sempre vestito di nero, anche sotto il sole torrido, non è mai a disagio e
sfoggia un perfetto à plomb
in ogni occasione.
Nelle situazioni più scabrose se la cava col suo savoir
faire e una perfetta conoscenza della psiche umana,
delle sue debolezze e delle qualità nascoste. Sembra l'erede di Philo Vance, l'investigatore
dandy di S. S. Van Dine, e
coglie sostanziosi spunti da molta letteratura poliziesca, come da qualche
classica spy story, a cominciare da James Bond, di cui ripete il
gusto per le belle cose (ma non sempre per le belle donne), la freddezza,
l'acutezza intellettuale, il piacere per la buona tavola e i buoni vini. Non è
perfetto, Pendergast, è figlio di questo tempo e ha
perso per strada la pretesa di rappresentare l'uomo ideale in un contesto
corrotto. Ma la sua onesta non è mai messa in dubbio, anzi sta al di sopra di
ogni sospetto, come si conviene a un rappresentante della legge. Senza
tentazioni, senza macchie, senza secondi fini.
Puro siccome un angelo. E ricco. Straordinariamente ricco. Tanto che
la professione di agente federale è più che altro un hobby, l'occasione per
giustificare la sua presenza sulla scena del delitto. Quando si muove, lo fa a
proprie spese, senza farsi mancare ogni comodità,
scegliendo gli alberghi migliori e i cibi più raffinati. Qui,
nell'impossibilità di trovare valide alternative al polpettone servito
nell'unica tavola calda di Medicine Creek, si fa
mandare una camionata di ingredienti italiani e li cucina chez
soi: probabilmente un particolare inserito da Douglas Preston, che ha
notoriamente scelto l'Italia e Firenze come sua residenza abituale.
Ma la grande disponibilità di
denaro di questo moderno Philo Vance
non è funzionale solo a sottolineare la sua diversità nel contesto sociale in
cui si muove, peraltro sempre solo, anche se coadiuvato, di volta in volta, da
occasionali spalle: ora una ragazzina dark, Corrie Swanson, altrove dalla rossa archeologa Nora Kelly. La ricchezza smisurata di Pendergast
rappresenta il desiderio di libertà individuale, sottintesa nell'immaginario
collettivo, di affrancarsi dalla burocrazia e da ogni limitazione meschina che impedisca la piena realizzazione dei propri obiettivi. Non a
caso l'estrema solitudine di Pendergast, che ne fa
quasi un essere asessuato e ascetico, è compensata solo dall'affetto di coloro
che lo comprendono (lettori inclusi). L'assistente Corrie
rappresenta il principio di realtà, l'anello di congiunzione col lettore, al
fine di trasferire l'empatia e l'ammirazione verso una figura che, altrimenti, risulterebbe insipida e, alla lunga, scostante.
Sarebbe un perfetto investigatore, Pendergast,
per storie poliziesche d'impianto classico, invece la coppia Preston-Child, i cui prodotti sono ormai etichettati come
“la nuova dimensione della paura”, hanno preferito farne un investigatore
dell'occulto e mandarlo, ogni volta, in missione dentro sconvolgenti storie
d'orrore.
Propria ora che Stephen King,
finora monarca indiscusso della letteratura di sangue, si era
lasciato alle spalle ogni scena truculenta, per insinuarsi in avventure
basate soprattutto sull'atmosfera e la tensione emotiva, dove il tema del
fantastico è confinato ad aspetti puramente occasionali (emblematici, in proposito,
La bambina che amava Tom
Gordon, Il miglio verde, Buick
8), il nuovo horror americano, di cui Preston e Child, possono essere considerati i più autorevoli
rappresentanti, tornino a puntare sullo splatter. Non c'è compiacimento,
ovviamente, non c'è perversione, ma la cruda esigenza di osservare gli effetti
della violenza.
E mentre King evita accuratamente di
utilizzare gli stessi personaggi in romanzi successivi, allo scopo di tenere
lontano ogni sospetto di identificazione con la letteratura di genere
(notoriamente ripetitiva e seriale), Preston e Child scelgono deliberatamente la serialità,
strizzando l'occhio alla cultura popolare, che ha bisogno, ora più che mai, di
rinnovate certezze e consolazioni sociali.
Nella Stanza degli orrori
(2002), un “Gabinetto del dottor Caligari”
all'americana, giocato con molta competenza in buona parte all'interno del
Museo di Storia Naturale di New York, dove Preston ha
lavorato per molti anni, Pendergast deve affrontare
un novello Jack lo Squartatore che viene dal passato (come non vedervi una
brillante citazione di Robert Block, quello di Sinceramente vostro, Jack the Ripper?) e lascia dietro di sé una scia
d'incomprensibili delitti.
In Natura morta à l'assolata
campagna del Kansas, con le sue immense, labirintiche distese di mais, a celare
un efferato serial killer che compone un macabro rituale per sue vittime.
L'insistenza e la preferenza per la serialità,
piuttosto che per delitti isolati, tradisce oscuri timori, ben radicati
nell'immaginario: l'inarrestabilità e l'irrazionalità di una minaccia
incombente che può colpire dovunque, in qualsiasi momento.
C'è una strategia della paura che fa vendere libri e produrre film di
successo (Relic
è stato portato di recente sullo schermo da Peter Hyams), che soddisfa un pubblico smaliziato, dedito alle
forti emozioni. Esiste chiaramente un piacere della paura che giustifica
l'attaccamento alla pagina laddove il mostro di turno incombe sulla prossima
vittima o se ne avverte la presenza camminando per strade deserte, tra scariche
di adrenalina e sussulti al cardiopalma. Sono le paure dell'uomo contemporaneo,
frutto delle sue ansie, della solitudine, delle angosce esistenziali che si
traducono in uno spettacolo di morte sublimata.
La scelta della località è anch'essa molto kinghiana
e fa parte di un filone di successo che situa l'horror nei luoghi meno probabili
della tranquilla provincia americana: piccole cittadine dove non succede mai
nulla, che si oppongono alla caoticità e al clamore
della metropoli, dove proprio per questa serenità – che talvolta sconfina nella
noia –, l'avvenimento inatteso, brutale, sanguinoso, ha un maggiore impatto,
crea un contrasto stridente tra la quotidianità e la violenza, tra la normalità
e l'eccezionalità.
Il lettore è portato a riflettere (con qualche inquietudine) sulla
possibilità che eventi del genere possano accadere
anche a lui, quando meno se lo aspetta. Le horror stories hanno infranto l'antica
convinzione che eventi straordinari possano accadere solo in luoghi
straordinari (uno sbarco di marziani può avvenire a New York, ma a Lucca mai!,
diceva Giorgio Manganelli). Ora invece s'insinua l'idea che l'imprevisto si
nasconda anche nel luogo più banale e innocui (la
cronaca nera, ahimé, lo conferma con quotidiana
frequenza) ed hanno buon gioco gli scrittori italiani di genere ad ambientare
le loro storie agghiacianti in prossimità di casa
nostra, con sadica puntualità.
In La guarigione di Frederick F., scritto senza l'alter ego, Preston ammicca al mostro di Firenze e alla sua collezione
di reperti anatomici. Il breve ma inquietante racconto è apparso nell'antologia
In fondo al nero (a cura di Gianfranco Nerozzi,
Urania Millemondi, 2003), che raccoglie le prove di
autori italiani (da Baldini a Tonani,
da Bernardi a Di Orazio e
altri), segno indiscutibile che l'horror sta sollevando sempre più interesse
tra un pubblico segnato dalle inquietudini e dalle paure del nostro tempo.