L'Aleph di Gianfranco Franchi
“But they will
teach us that Eternity is the Standing still of the Present Time”
di Patrizia Garofalo
Partirei dal titolo che non è mai stato per il
nostro autore una griffe
ma la tematica dalla quale si snoda l'opera che, in questo caso, non definirei nè romanzo, né antiromanzo.
Pagano deriva da “pagus”,
cioè “villaggio pre-cristiano privo di credenze”:
quindi libero di mutare, cercare, scoprire l'irripetibilità di ognuno in un
percorso o meglio attraversamento confuso ma variegato, doloroso ma cosciente e
lucido attraverso una città, un quartiere, una via.
Ambientazioni esterne ed interne sono sempre
collegate in parallelo con lo stato d'animo del protagonista che vive, sogna, soffre ma sceglie.
Non è Dublino ma Roma la città dove tutto è
rivisitato, corretto, accettato, denigrato, amato, senza però
le fasi di distacco che accompagnano il mirabile testo dell'“Ulisse” di Joyce.
Tutto è compatto pur variante come l'ottica
incantevole di un caleidoscopio le cui molteplici forme costituiscono
l'alternarsi contemporaneo degli stati d'animo che smarriscono l'autore e il
lettore e poi li ricongiungono proprio nell'alternarsi di essi.
Ne “L'Aleph” Borges scrisse: “Obliarono miseri il fattore bellezza”; “La
scrittura è l'unico mezzo che possiede l'uomo per rivelare e fissare la sua
verità umana. Il mezzo per capire e limitare la vaghezza dell'emozione… cioè di
darle realtà”.
Bellezza e scrittura sono gli elementi che
percepisco e colgo come elementi coesivi del testo: “Sono un'isola e non mi lascio
popolare” (p. 20); “Cammino per il nostro cimitero a cielo aperto, adorando la
bellezza distesa della città (…) Roma ha perso la memoria di sé stessa” (p.
24); “Da qualche tempo, almeno, non mi voglio più ammazzare” (p. 28); “Devo
ricostruire (…) un mondo, in altre parole, in cui abbia senso vivere e sentire. Amare,
soffrire (…) dormire” (p. 37).
Roma diventa farneticante, compulsiva,
grassa, ignorante, fatiscente; pur amata, si restringe ad un quartiere… dove
una mansarda protegge, una gatta fa compagnia mentre,
contemporaneamente, l'autore si dichiara “isola” e “partita iva”.
L'autoconvincimento di
omologazione è poco credibile, è provocatorio anche se
la koinè è smembrata, la comunicazione tranciata e violentata.
Si apre una voragine su Via Fonteiana
dove da bambino lo portavano sul carrozzino… lì… nel quartiere di Pasolini, Gadda, Caproni…
Gianfranco entra… tutto si ripassa, si vede, se ne coglie il significato… si
ritorna alla terra madre… all'archetipo… alla Patria che nasconde l'etimo di padre… Pagani… liberi e svincolati: “La mia terra mi ha inghiottito e adesso la posso
raccontare” (p. 86).
Gianfranco Franchi… e la
scelta di scrivere, scrivere, scrivere. Potremmo avvicinarci e tentare di
essere arcipelaghi comunicanti. L' autore pone a fine testo versi struggenti su
Roma… vista, vissuta, odiata, amata della quale sceglie comunque d'esserne
cantore, riconfermando la valenza in un mondo che, pur sbriciolato, accende di luce tutte le pagine che riecheggiano non solo il nerudiano “non ti amo più… ma quanto ti ho amato” ma
soprattutto: “ti vedo così malridotta e per questo… io ti canterò”
Gianfranco Franchi (Trieste, 1978), narratore, poeta e
critico letterario romano e mitteleuropeo.
Gianfranco Franchi, “Pagano”, Il Foglio Letterario, Piombino
2007.
Prefazione di Gordiano Lupi.
Postfazioni di Francesca
Mazzucato e Patrick
Karlsen.