Fiori e fulmini
di Cristina Bove
Prefazione di Renzo Montagnoli
Immagine di copertina di Cristina Bove
Elaborazione Grafica di Elena Migliorini
Edizioni Il Foglio
http://www.ilfoglioletterario.it/
ilfoglio@infol.it
Collana Autori Contemporanei Poesia
Diretta da Fabrizio Manini
Poesia – Silloge
Pagg. 180
ISBN: 978 - 88 – 7606 – 163 – 9
Prezzo: € 15,00
Più che una Silloge si tratta di un autentico spaccato di vita, una
lunga sequela di odi poetiche apprezzabili stilisticamente e contenutisticamente, che parla a favore della forza
interiore e delle capacità espressive di Cristina Bove.
La prima lettura invita subito a una segnalazione, un consiglio, più che
altro: un libro che racchiuda il meglio della raccolta, che veda la luce al più
presto per non disperdere nel tempo la voglia di fare.
Perché Cristina è poeta vero, che sa coniugare stile e interiorità,
malesseri e gioie dell'anima con il gusto di raccontare in rime sciolte libere
e liberate da pastoie metriche: gli scritti sono il dettato del cuore.
Anche se redatte evidentemente in epoche diverse (magari non
lontanissime), cambia poco lo stile sempre a Lei riconducibile che si evolve
nel tempo, che matura insieme alla sempre accurata
scelta delle parole, delle figure retoriche, delle metafore efficaci con le
quali cela il vero ed esalta il sogno (e viceversa).
Il tutto si accompagna, quale precisa scelta dell'autrice, all'assoluta
mancanza di punteggiatura, lasciando alla naturale musicalità del verso il
centro del raccontare.
Questo fa sì che in talune poesie i “pons”, i giochi di parole, riescano a esprimere con
leggerezza sentimenti ed emozioni (vedi “Ad
una ad una”), padroneggiati saldamente e parte di un lessico di valenza
costante ed evoluta.
Così come “Al raduno”,
surreale visione che colpisce per originalità e tematica (una “vecchiaia vista
alla rovescia”, se mi si consente l'espressione), nella quale si affaccia
improvvisa la persa gioventù da quelle stesse vesti prima occupate da corpi
cadenti, nell'esaltazione dei doni fantastici della “vita” e del “nuovo”.
Poesie libere e liberate, dicevo, depurate dagli orpelli del fatuo e
dell'inutile e pregne invece di significati sottili e di un “segno” leggero che
tutta la contraddistingue. La disposizione stessa delle parole sul foglio assicura
ritmo alle intime scelte del poeta e significato spesso mutevole, in un
esercizio non facile sospeso sul baratro della banalità (senza “scivolate”
significative).
In “Brulicava di luci” “leggera filigrana ondeggia sopra gli archi lunari
e ne accarezza di rami flessi le colonne attorte”. E ancora “s'azzardano le mani a carezzare un ricordo
di sogno fatto d'acqua”. La leggerezza si fa parola, la parola asseconda il
moto consolatorio dell'anima.
Mi piace citare ancora “E condurrò”
per le visioni evocate, vive e allucinate, contorte e avviluppate l'una
all'altra dell'Equatore, del Sole, di Lune “corrusche” , di un Fiume dalle tracce d'oro, del Tempo che consuma,
dell'Ombra incisa nella notte. Fiori di un giardino sconfinato, verde a
dismisura come una valle piena di coloratissime farfalle stralunate.
Piacevoli le liriche in cui trionfa l'amore, in cui il gioco delle
parole trascende l'oggetto del desiderio fino a sublimarlo, angelicandone
la figura, ripulita dallo sporco delle ali al contatto con il terreno. Lo stile
è sorretto da una scrittura mai scarna, pur se tendente
all'essenziale, densa di significati e silenzi mai domi che si
trasformano in immagini vissute.
Amore, etica e spiritualità vanno a braccetto, nel figurare l'Eterno che
occhieggia come in un gioco di ombre cinesi, soprattutto nei versi dettati
dalla solitudine e dalle grida talvolta disperate dell'Autrice. Delicata e
pudica nel raccontare momenti intimi, come in “Figli”: ”attraverso me ci siete – ora siamo
tutti insieme” .
Poesia moderna che si nutre d'antico, epopee
del Mito che hanno radici all'insù, nel presente, mentre più rade le immagini
ispirate al futuro, che si apre improvviso nella lirica “I ragazzi”, “corpi fatti di musica e richiami”, “futuri genitori dei
nuovi figli liberi dal tempo”. Particolarmente efficaci le liriche brevi,
nelle quali è un singolo pensiero a volare, sintesi e compendio dell'essere,
sempre rifuggenti dall'apparire.
“Sono viva perché nella mia notte qualcuno
accese un sogno di poesia” (in “Ho visto la città “ : è la poetica
della Bove, l'alfa e l'omega, il suo rapporto con la realtà e le tante domande
che spesso scaturiscono dal rapporto (talora irrazionale) con essa. Come
giudicare altrimenti, infatti, la spietata disamina di “Homunculus”, che coniuga l' “orribile visu” descritto con
la presenza di “esseri lievi e tenui come
veli assorti nei ricordi d'altri Cieli” ?
Lo stile asseconda i concetti, si fa Poesia Visiva in “Incantesimo”, dove crea delle
dissolvenze di forma e contenuto, in quel “niente”
che piano si scioglie e si asciuga come una lacrima al sole, simbolo di un
destino terribile ma non disperato. Non c'è mai autentica perdizione nella
poesia di Cristina: più spesso accettazione e la tendenza a fare delle parole
insegnamento e saggia morale, impalpabile e diafana, sul limitare estremo delle
liriche. Come in scritti d'altri tempi, o romanzi d'appendice.
La forza del “sé” prorompe dall'interno come un geiger con la maturità
del vissuto, come un dono che consoli e sveleni i
sentimenti meno nobili: “sentire nel cuore la dolcezza della musica amando chi la
suona” (“La Saggezza”).
Stringendo le file di questa lunga disamina (tante erano le poesie e
articolate), è possibile riconoscere l'elemento vincente della Silloge nella
concretezza del Sogno, che si esprime con particolare forza
commentando la stanchezza del ballerino con una semplice constatazione “Quanto gli può costare un paio d'ali ?”
Sì, Cristina, è lì il segreto della vita, saltare gli ostacoli a piè
pari con le giuste soluzioni.
Bella “prova d'autore”, in cui il poeta è nudo di fronte ai temi che
tratta, affetti, amore, famiglia, tempo, visioni cosmiche e naturalistiche,
stati d'animo, ricordi e sogni. Le ultime liriche gettate sulla carta quasi con
rabbia e sentimenti contrastanti: “Sulla
sabbia”, “Nuovi faraoni”, Siamo noi”, “Sogno”, “Volo”.
Nulla manca in questa Silloge, neanche i brividi che ci destano “le tredici Lune”, “la
scienza assoluta e beffarda”, e la morte che ci penetra dentro nella poesia
“Volo”, ove “quel che resta nella carlinga è notte….(mentre)….fuori è l'alba”.
Al lettore (e al critico) il dispiacere che le righe scritte siano finite, e trionfi il bianco del foglio che ottunde gli
occhi, nel ricordo della condivisa e partecipata lettura.
Luciano Recchiuti