QUANDO IL
SERIAL-KILLER INSEGUE LA REALTA'
di Carlo Bordoni
Douglas
Preston & Lincoln
Child
Il libro dei morti
ed. orig. 2006, trad.
dall'inglese di Andrea Carlo Cappi,
pp. 502, € 18,00,
Sonzogno, Milano, 2007.
Una coppia di scrittori che scrive a distanza: questa,
forse, è la caratteristica più evidente che distingue il modo di produrre della
premiata ditta Preston & Child.
Un libro l'anno, immancabilmente, dal 1995, da quando il sodalizio ha preso
vita: Lincoln Child, stanco di fare il redattore di una grande casa editrice, desideroso di
passare dall'altra parte; Douglas Preston,
stanco di passare il suo tempo nelle stanze del Museo di Storia Naturale di New
York, dove svolge da anni l'attività di curatore. L'uno resta
a New York, l'altro sceglie l'Italia e Firenze per dedicarsi alla scrittura a
tempo pieno. Come si fa a scrivere a quattro mani e a distanza? Il metodo
adottato da Preston & Child
è di un'estrema semplicità: definita la storia a grandi linee, fissati i punti
nodali e la funzione dei personaggi, iniziano a buttare giù il testo,
inviandoselo reciprocamente. Ognuno rilegge, revisiona, integra e modifica il
testo dell'altro, finché la stesura non raggiunge un livello soddisfacente e
non diviene definitiva.
Per questo, anche sottoposto alla lettura critica più
severa, non si nota la differenza tra i due registri, tra le personalità dei
due autori, dato che entrambi sono intervenuti nella scrittura dell'altro al
punto da modificarla radicalmente. Ne esce uno stile originale, assolutamente autonomo
che sembra appartenere a un terzo autore “in assenza”. Un po' come l'Ellery Queen del romanzo giallo,
pseudonimo di Frederic Dannay
e Manfred B. Lee, un alter
ego che prende vita propria e assume una personalità indipendente.
Più ancora dei titoli precedenti (tutti complessivamente autoconclusivi), Il libro dei morti va letto in
sequenza dopo La danza della morte (2005, ed. it.
2006), di cui rappresenta il necessario completamento. In parte ciò è dovuto a una mutata disposizione degli autori, che sembrano
essersi decisi a dar vita a un gigantesco affresco, fitto di intrecci personali
e destinato a sfociare in una saga che mantiene, al centro, la figura di Pendergast e dei suoi amici (l'archeologa Nora Kelly, il tenente D'Agosta, il
giornalista Smithback).
In parte, tuttavia, è anche dovuto all'inattesa
introduzione sulla scena del misterioso fratello di Pendergast,
Diogenes, la cui scomparsa nel cratere di Stromboli
lascia presagire un terzo atto: ma non subito, perché il nuovo romanzo, Wheel
of Darkness (2007), appena uscito negli Stati
Uniti, vede Pendergast e la sua pupilla, Constance Greene, impegnati in un
Grand Tour e coinvolti nella ricerca di un misterioso
oggetto trafugato da un monastero tibetano.
Come nel primo romanzo, The Relic
(1995), il centro dell'azione si svolge all'interno del Museo di Storia
Naturale di New York, dove Preston ha lavorato per
molti anni come curatore. Nei meandri del museo, che l'Autore descrive con
meticolosa puntualità, è stata trasferita in toto
un'antica tomba egizia, sulla quale grava una maledizione. Murata fin dagli
anni Trenta, dimenticata da tutti, la tomba di Senef, gran Visir del faraone Tutmosi
IV, si presta magnificamente alla realizzazione del piano criminoso di Diogenes, il fratello malvagio di Pendergast,
che vuole vendicarsi di lui, facendolo credere colpevole di una serie di
delitti, iniziati in La danza della morte con una serie di spettacolari
uccisioni pubbliche e destinati a culminare in una carneficina dentro il museo.
Vittime predestinate, come allora, le personalità più in vista di New York.
Di particolare pathos e suspense è l'ultima parte del
romanzo, che narra la disperata fuga di Diogenes
attraverso l'Italia (con una sosta in una Firenze assai ben descritta nei
particolari, da cui trapela l'amore di Preston per la
sua città di adozione), fino all'isola di Stromboli, dove Diogenes
si rifugia, inseguito dal fratello e da Constance,
l'eterea ma determinata fanciulla che ha sedotto e abbandonato, spingendola al
suicidio.
Quasi ogni giorno la televisione ci porta dentro casa immagini e
particolari di cronaca che sembrano presi di peso da romanzi splatter: madri
assassine, vicini che sterminano famiglie intere per futili motivi, figli che
fanno a pezzi i genitori, in un crescendo che non ha più limiti.
Gli scrittori di horror fanno fatica a star dietro alla realtà con i
suoi dati brutali che superano anche la fantasia più sbrigliata. Leggendo Preston & Child si ha la
palpabile sensazione di trovarci di fronte a un disperato sforzo iperrealista,
teso a recuperare una crudezza, un'efferatezza delle descrizioni macabre che si
dimostri originale o in qualche modo inatteso, rispetto alla cronaca nera.
A quel tipo d'informazione a cui siamo ormai
abituati e che ci fa sembrare “normale” ogni atto di ferocia consumato
sull'uomo, in un crescendo che non ha più limiti. Criminal minds, un serial televisivo in prima serata, non esita
a mettere in scena reperti anatomici sanguinolenti, nel più puro stile
splatter, nella convinzione ormai di non scioccare più nessuno, neanche nella
fascia oraria protetta. L'orrore, in quanto genere letterario, è costretto a
trovare nuove strade per atterrire, per scatenare la paura in lettori sempre
più disincantati. Ci si trova di fronte a una duplice possibilità: operare una
continua escalation di violenza descrittiva, arrampicandosi sugli specchi,
nella ricerca esasperata di sempre maggiori atrocità, oppure scegliere la
strada (più ardua) della devianza, dello scarto psicologico, dell'inquietudine
esistenziale. Una formula già sperimentata da Stephen
King in molti suoi romanzi, che però sembra aver
esaurito, almeno per il momento, le sue possibilità. Anche King,
come Preston & Child, è
tornato alla materialità inequivocabile del sangue versato: The Cell (2006), Duma Key (2007). Segno che anche l'horror, se vuole
perseguire nuove strade, se intende sperimentare inedite modalità per scatenare
la paura in chi legge, deve ripartire da zero. Con umiltà e una certa dose di
ingenuità. In fondo i lettori cambiano. Non sono gli stessi di
quando, negli ormai lontani anni Settanta, King
scriveva le prime prove d'autore: a una o due generazioni di distanza, tutto
può essere nuovo, può ricominciare da capo, adeguandosi a un presente più
degradato.
Quando la coppia Preston & Child deve immaginare l'orrore più profondo, un crimine da
incubo che, in altri tempi, avrebbe infestato i sogni di incauti lettori, non
trova di peggio che mettere in scena una serie di omicidi gratuiti, privi di
apparente movente, la cui gratuità e casualità dovrebbe alimentare paure
irrazionali, proprio perché priva di un disegno logico, e quindi
incontrollabile. Mostruosità teratogene che si
annidano nelle menti distorte di veri geni del male che rivelano insospettate
capacità distruttive, ricche di fantasia omicida e di perfezionismo tecnico.
Gli assassini sono sempre letali, temibilissimi, onniscienti e incombenti. Non
sbagliano mai una mossa, sono puntuali e meticolosi, quasi privi di difetti, al
punto da farci pensare che se impiegassero le loro doti nel campo degli affari,
sarebbero uomini di successo e potrebbero così sublimare le loro turpi pulsioni
senza andare in giro ad ammazzare qualcuno.
Sono bravissimi, organizzatissimi e spesso fanno tutto da soli. Gestiscono
il loro business inconfessabile nel più assoluto riserbo, riuscendo a fare cose
che i comuni mortali non potrebbero tentare neanche alla luce del sole, con
l'aiuto di uno stuolo di specialisti e di segretarie tuttofare. Non è facile la
vita del serial-killer: deve destreggiarsi in un oceano di piccole incombenze,
dai segnali da lasciare alle lettere da scrivere, dalle impronte da cancellare
ai corpi da occultare; il tutto senza destare sospetti, vivendo una vita
apparentemente normale, una doppia vita che deve causargli uno stress
altissimo.
Malgrado tutte le difficoltà il serial-killer riesce a mantenere la
calma e la lucidità, a svolgere il suo lavoro senza sbavature e persino a
divertirsi. Sennò perché darsi tanto da fare, se non c'è un po' di
soddisfazione? Un lavoro ingrato, eppure l'horror riesce sempre a scovare
professionisti che si prestano magnificamente alla bisogna.
Di fronte a serial-killer d'eccezionale capacità non potevano che
opporsi investigatori di pari livello. Altro che tenenti Colombo scalcinati e
mezzi orbi, privi di un'adeguata tecnologia, costretti ad aggirarsi su
bagnarole che cadono a pezzi, forti solo della lucida logica e dell'intuizione
personale! Veri antieroi, caricature commoventi del superuomo borghese degli
anni Trenta.
Il protagonista in positivo di Preston & Child, Pendergast, è tutt'altro che
sprovveduto: sì, Pendergast (solo il cognome: solo
più tardi si è venuto a sapere il nome, Aloysius). È un agente davvero speciale dell'FBI. Per niente macho. Antieroe
per eccellenza, minuto, pallido, non aggressivo, tutto il contrario di quello
che ci si può aspettare da un tutore della legge; una figura evanescente e
incorporea che sfugge persino a una descrizione fisica accurata. Sempre
vestito di nero, anche sotto il sole torrido, mai a disagio, sfoggia un
perfetto à plomb
in ogni occasione. Nelle situazioni più scabrose se la cava col suo savoir faire e una
perfetta conoscenza della psiche umana, delle sue debolezze e delle qualità
nascoste. Coglie sostanziosi spunti da molta letteratura poliziesca, come da
qualche classica spy story, a cominciare da James Bond, di cui ripete il
gusto per le belle cose (ma non sempre per le belle donne), la freddezza,
l'acutezza intellettuale, il piacere per la buona tavola e i buoni vini. Non è
perfetto, Pendergast, è figlio di questo tempo e ha
perso per strada la pretesa di rappresentare l'uomo ideale in un contesto
corrotto. Ma la sua onestà non è mai messa in dubbio, anzi sta al di sopra di
ogni sospetto, come si conviene a un rappresentante della legge. Senza
tentazioni, senza macchie, senza secondi fini. Puro siccome un angelo. E ricco.
Straordinariamente ricco. Tanto che la professione di agente federale è più che
altro un hobby, l'occasione per giustificare la sua presenza sulla scena del
delitto. Quando si muove, lo fa a proprie spese, senza farsi mancare
ogni comodità, scegliendo gli alberghi migliori e i cibi più raffinati.
Se assomiglia a Philo Vance,
l'investigatore dandy di S. S. Van Dine, lo è solo in parte, poiché in realtà è molto di
più. Ha tutte le qualità e gli attributi necessari a far fronte a criminali
geniali, perché lui stesso ha un'intelligenza superiore, qualità fisiche
straordinarie, capacità e cultura e, soprattutto, un patrimonio ragguardevole a cui attingere liberamente. In più, come se non bastasse,
non è affatto un outsider, un estraneo al corpo di polizia, costretto a mediare
e a confrontarsi continuamente con le istituzioni, perché è un agente dell'FBI,
ma così libero di muoversi, di agire in piena autonomia, da far invidia al più
famoso “privato”, al Philip Marlowe
di Raymond Chandler.
Sarebbe un perfetto investigatore, Pendergast,
per storie poliziesche d'impianto classico, invece la coppia Preston & Child, i cui
prodotti sono ormai etichettati come “la nuova dimensione della paura”, hanno
preferito farne un investigatore dell'occulto e mandarlo, ogni volta, in
missione dentro sconvolgenti storie d'orrore.
Nel giugno 2008 uscirà negli States
l'edizione inglese di Dolci colline di sangue (2006), il romanzo inchiesta
scritto con Mario Spezi, che ha portato questi
all'arresto con l'accusa d'inquinamento delle prove e Preston
alla decisione di non rientrare in Italia. Il libro s'intitolerà The Monster of Florence e c'è da
scommettere che scatenerà ancora polemiche e strascichi giudiziari, dimostrando
ancora una volta come tra l'orrore fantastico e quello reale, con cui dobbiamo
fare i conti quotidianamente, non c'è poi molta differenza.