Cosmopolis
di
Don DeLillo
(Einaudi,2003, pagg.180,
Euro 16,00)
A cura
di Alberto Carollo
Mi ha
sempre colpito in DeLillo
la capacità – quasi una sorta di chiaroveggenza – di restituirci con la sua
opera una radiografia dettagliata della situazione attuale della società
“cosiddetta” postmoderna -
e nella fattispecie quella che ne è l'emblema, cioè la società
statunitense – nei suoi molteplici aspetti: politico, sociale, religioso,
antropologico, artistico.
La
diagnosi, attenendoci alla metafora medica, è sempre azzeccata e nella maggior
parte dei casi è infausta (sic!).
In questo
romanzo breve non siamo certo all'altezza di quello che è finora ritenuto il
suo capolavoro, Underworld;
siamo distanti da quel grande affresco della recente storia americana; siamo
lontani da quel complesso intreccio, da quella partecipazione emotiva e dalle
vette di lirismo raggiunte colà, riguardassero anche la prosaica questione
dello smaltimento dei rifiuti (dove la gestione del problema assurgeva a scala
di valutazione del grado di civiltà delle odierne società occidentali!). In Cosmopolis
DeLillo sceglie di parlare del declino della new-economy e di fatto, in questo
ultimo gelido inno a New York (il romanzo è significativamente dedicato a Paul Auster),
sferra un violento attacco al mostruoso mondo del capitalismo americano e ai
suoi riti tecnologici.
La storia è
piuttosto esile ma come accade negli ultimi DeLillo,
vedi Libra e Body Art, la situazione di
partenza diviene un pretesto per scattare un'istantanea, quasi il dettaglio di
una fotografia d'insieme di vaste proporzioni. Il ventottenne miliardario Erick Packer esce dal suo
lussuoso attico a tre piani e sale sulla sua limousine con un capriccio:
attraversare la città per andare a Hell's Kitchen e farsi un taglio di capelli dal vecchio barbiere
di fiducia del padre. La macchina è un vero e proprio ufficio su quattro ruote;
dispone di una serie di monitor collegati con le borse, permettendo a Packer e ai suoi tecnici di tenere d'occhio gli alti e
bassi dei mercati. Packer si rivela ben presto
ossessionato dalla tecnologia che il suo status gli mette a disposizione;
l'ansia di conoscere in tempo reale le fluttuazioni dei suoi titoli, una
partita senza esclusione di colpi ingaggiata contro lo yen
e la sua inarrestabile ascesa e non da ultimo una vaga minaccia che attende
alla sua incolumità lo faranno precipitare per gradi in una spirale di follia
autodistruttiva.
L'incedere
della limousine viene interrotto più volte dai meeting di Packer: ora un esperto di computer, poi un matematico, il
medico personale che vigila costantemente sul suo stato di salute e gli
pratica, mentre è intento a conversare di economia con una collaboratrice,
un'esplorazione rettale. Altri ostacoli si frappongono tra lui e il suo
obiettivo, aprendo squarci su scenari metropolitani convulsi e perturbanti, non
del tutto inediti ma con uno sguardo obliquo, calati in una dimensione al
limite del surreale:il passaggio del corteo
presidenziale e le sommosse violente dei manifestanti estremisti no-global, il
set di un film dove sosta per interpretare un ruolo di comparsa, un rave-party
o il funerale un rapper prematuramente scomparso.
Di tanto in
tanto incontra la moglie, bella e ricchissima, sposata per procura, figura
senza arte né parte che Eric cerca di interpretare come se si trattasse di un
enigma.
Il romanzo
ha subito le stroncature di una parte della critica letteraria anglo-americana
vicina agli ambienti dell'establishment e anche da noi non ha riscosso
l'attenzione che meritava. Alcuni commentatori hanno parlato di una certa
piattezza, di una lettura poco coinvolgente. Certo è difficile provare simpatia
per uno come Erick Packer.
I suoi dialoghi sembrano più dei lunghi soliloqui; incontra un sacco di gente,
con le donne che ha intorno consuma anche del sesso frettoloso e nevrotico ma
in ogni caso non c'è mai un reale contatto. Il pathos, se c'è, è rintracciabile
nella chiacchierata col vecchio barbiere che lo conosceva da ragazzino o nel
confronto finale con un suo ex-impiegato, Benno Levin doppio negativo di Packer e
sua nemesi.
Del resto
cosa potremmo aspettarci da una gelida e brillante intelligenza come quella di Packer, fine conoscitore di scienza, poesia, arte;
sacerdote della tecnocrazia, muscoloso e ricchissimo, persino bello; cosa
potremmo aspettarci da uno che si trastulla con un bombardiere nucleare in
disarmo?
Il gioco
mortale dei vertici della Finanzia Mondiale che DeLillo
svela e immortala in immagini di rara efficacia non ha nulla di intrigante. La
sua asetticità sentimentale è resa magistralmente da
un'asciuttezza formale, dalla cifra raffinata alla quale ci ha abituati,
ammirevole impasto di prosa e poesia che pur senza venire meno al proprio
rigore si ammanta a volte di connotazioni metafisiche, di improvvise
ricognizioni in scenari dove presente e futuro si confondono nella stretta
interdipendenza tra denaro, tecnologia e civiltà: "In effetti i dati, in
sé, emettevano una concentrazione spirituale e irradiavano scintillii luminosi,
un aspetto dinamico del processo vitale. Era questa l'eloquenza degli alfabeti
e dei sistemi numerici, ora pienamente realizzata in forme elettroniche, nella
riduzione del mondo alla binarietà di 0 e 1, l'imperativo digitale che definiva ogni respiro dei billioni di esseri viventi sul pianeta".
Don DeLillo è nato
nel 1936 nel Bronx, da una famiglia di origine italiana. Vive lontano dalle
mondanità della società letteraria, ma pubblica sulle riviste più importanti
degli States, dal “New Yorker”
all'”Harper's”, e lavora molto per il teatro. E' considerato il grande maestro
della narrativa postmoderna americana. Ha esordito nel '71 con Americana.
Altre opere: Rumore bianco, Libra, Underworld,
Body Art, Mao II e due commedie: Valparaiso
e la stanza bianca.