Mario Rigoni Stern. Le
stagioni di un uomo
di Renzo Montagnoli
1° Novembre 1921 – 16
giugno 2008.
Sono queste due date che
nel registro del tempo identificano la nascita e la morte di uno dei più grandi
narratori che abbia avuto il nostro paese.
Mario Rigoni Stern ha
vissuto in questo periodo le stagioni della natura e quelle dell'uomo, così
simili tranne per il fatto che prime si ripetono, mentre le altre rappresentano
la parabola dell'esistenza.
Mai come in lui si è
potuto riscontrare l'identità fra uomo e natura, mai come in lui i romanzi e i
racconti sono stati una lunga, attenta e riflessiva autobiografia.
Profondamente legato alla
sua terra natia, a quell'altopiano dei Sette Comuni a
cui pervennero i suoi avi Cimbri molti secoli fa, ne è stato il cantore e
l'araldo, lo storico popolare e il consacratore delle tradizioni.
Eppure nella sua infanzia
nulla lasciava presagire questa naturale inclinazione per la narrativa, ma
certi talenti hanno bisogno di qualche elemento catalizzatore per potersi rivelare
e nel giovane Stern questo è stato rappresentato dalla guerra, a cui aderì
volontariamente, sotto l'influsso di una martellante propaganda del regime che
gli fece credere che fosse il destino di ogni uomo e, nel caso specifico, la
vocazione di un popolo forte, guerriero, addestrato e istruito per la gloria di
una nazione che rivendicava le tradizioni dell'antico impero romano.
Combatté così nel
battaglione Vestone della divisione Tridentina prima
ai confini con la Francia,
poi in Albania, in Grecia e in Russia. A ogni teatro di guerra, pur non
lesinando gli sforzi per compiere il suo dovere, quelle certezze infuse dalla
retorica cominciarono a incrinarsi di fronte alla brutalità del conflitto, alla
nostra inadeguata preparazione e, soprattutto, al pensiero che un uomo contro
un altro uomo non esalta le sue qualità, ma le deprime, le svilisce.
Per quanto nella campagna
di Russia riuscisse a meritare una medaglia d'argento al valor militare, questa
sua trasformazione da indottrinato a uomo di libero pensiero ebbe il suo
compimento proprio nel corso della drammatica ritirata, raccontata in modo
sorprendente per capacità di analisi e per partecipazione emozionale e per
scopi non solo di memoria, ma anche pacifisti.
Nelle rigide temperature
della steppa, in mezzo alle tormente di neve, fra un combattimento e l'altro
per aprire la via che riporta a casa sbocciò un Mario Rigoni Stern rinnovato,
al punto che in epoca successiva ebbe a dire queste parole:
Il momento culminante della mia vita non è stato quando ho vinto
premi letterari, o ho scritto libri, ma quando la notte dal 15 al 16 sono
partito da qui sul Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per
arrivare a casa, e sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un
uomo, e riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento,
quello è stato il capolavoro della mia vita...
Riuscì a tornare, ma non
con tutti i suoi settanta alpini, sempre impressi nella sua memoria, compagni
di sventura che poi riunì in un commovente abbraccio in un romanzo di notevole
bellezza.
Dopo un periodo di
prigionia nei lager tedeschi, terminata la guerra, s'impiegò al catasto di
Asiago, si sposò ed ebbe tre figli. Nel frattempo decise di raccontare la sua
esperienza di quella drammatica ritirata e nacque così uno dei suoi capolavori,
Il sergente nella neve, che venne
pubblicato nel 1953 grazie all'interessamento di Elio Vittorini, da lui
conosciuto due anni prima.
Questo romanzo non è
semplicemente il frutto di un'esperienza vissuta personalmente, non è cioè e la
cronistoria di un evento occorso all'autore, ma per la capacità di analisi, di
estrapolazione dei fatti e per il messaggio pacifista che ne emerge raggiunge
vette di universalità su tematiche di interesse generale che lo rendono
un'opera di ampia e rilevante completezza.
L'autore ha saputo
ricreare l'atmosfera in modo tale che il coinvolgimento è totale; si legge, e
poco a poco si è presenti al caposaldo, ci si trova intorno al tagliere con la
polenta di segale, si vivono le pericolose ore dello sganciamento, e infine si
cammina, si combatte, si patisce la fame, si soffre il freddo, si prova
l'angoscia della lunga ritirata.
Già questo è molto, ma Il sergente nella neve è assai di più, è
un'opera dove è sempre presente la natura, ammirata anche quando è inclemente e
con pagine in cui si respirano lo sgomento e l'attrazione per la grandezza
nell'universo, ed è inoltre un'ode sommessa a una virtù ormai purtroppo
desueta, la pietà.
Così, fra un
combattimento e l'altro, descritti magistralmente, c'è il tempo per le
riflessioni di fatti appena accaduti e che nel trascorrere del tempo (l'opera verrà
ultimata qualche anno dopo quel tragico 1943) si sfumano per scoprirne gli
aspetti più reconditi. E' il caso del pasto consumato in un'isba insieme a dei
soldati russi, in una pausa della battaglia di Nikolajewka.
Al riguardo la riflessione di Stern è quanto semplice
ed efficace: “In quell'isba si era creata
tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un'armonia che non era un
armistizio. Era qualcosa di molto di più del rispetto che gli animali della
foresta hanno l'uno per l'altro. Una
volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini.”
C'è tutto il senso della
pietà, prima per se stessi e poi per gli altri, c'è quella comprensione della
propria e dell'altrui debolezza, c'è una ritrovata umanità che supera
ogni barriera e confine.
E' un grandissimo
messaggio di pace di un uomo che, partito volontario per la guerra, ne
ritornerà maturato, ma soprattutto consapevole dell'autentica dignità di ogni
essere umano.
Quello che poi sorprende
in questo primo romanzo è la capacità di prosa poetica che ha l'autore, con
quelle descrizioni brevi, ma ispirate, del firmamento, del Don, della pianura
ghiacciata. Sono stacchi che non sono avulsi dalla narrazione, ma che si
innestano nella stessa in modo preciso e solo quando serve, a riprova di
un'esperienza professionale innata.
Al riguardo Rigoni Stern
si supera nelle ultime pagine con quella ritrovata serenità nel caldo di
un'isba e con le ragazze russe che filano la canapa cantando le loro canzoni
popolari.
Nonostante il successo,
occorsero ben nove anni prima che Rigoni Stern vedesse pubblicato un altro suo
libro, Il bosco degli urogalli, una raccolta di racconti, per lo più
imperniati sulla caccia, in cui il contatto dell'uomo con la natura diventa
centralità e di fatto dà vita a un filone di grande
pregio in cui l'autore asiaghese diventerà insuperabile. La lunga marcia sulla
neve per avvicinarsi alle prede, il silenzio dei monti nel freddo dell'alba, i
boschi in cui si svolge la contesa donano un tocco di magia grazie a una vera e
propria prosa poetica e danno l'idea di un ritorno dell'uomo alle origini,
quando era in armonia con la natura.
Anche questo libro fu un
successo, ma non ne seguirono subito altri, soprattutto perché il lavoro
impegnava e fu solo nel 1970, quando lasciò l'occupazione, che poté dedicarsi a
tempo pieno all'attività di scrittore.
Nascono così nel 1971 Quota Albania, sulla sua esperienza
bellica, e nel 1973 Ritorno sul Don,
in cui in parte completa la narrazione della campagna di Russia e in parte
racconta un viaggio in quelle terre che videro la drammatica ritirata,
effettuato però una trentina di anni dopo.
Sono buoni libri, ma non
ripetono qualitativamente Il sergente
nella neve e Il bosco degli urogalli.
Bisognerà attendere
ancora cinque anni, il 1978, quando uscirà un altro capolavoro, Storia di Tönle,
premiato con il Campiello e con il Bagutta.
E' un nuovo filone, quello
della memoria, delle origini della sua gente di Asiago, una comunità che in
Stern assurge al valore di unica e autentica patria.
Tönle Bintarn è un
contadino, un pastore, un contrabbandiere per necessità che per sfuggire a una
condanna vaga per tutta l'Europa austro-ungarica, adattandosi a fare a
qualsiasi lavoro, ma sempre con la speranza di tornare, l'unica vera forza che
lo sostiene nonostante le fatiche e le privazioni. Questo piccolo grande uomo è
legato inscindibilmente alla sua terra, all'alternarsi delle stagioni sia della
natura che della vita. Non c'è evento che possa fermarlo, non c'è nulla che
possa dissuaderlo, perché lui è ed esiste solo in funzione di quella piccola
patria fra i monti.
Ritornerà, subirà i
contraccolpi della Grande Guerra e della Strafenspedition,
di cui sarà vittima senza che ci siano carnefici. La violenza di un conflitto
non lo ferma, sempre va, sempre resiste, per poter tornare a quei luoghi a lui
indissolubilmente legati e che sarà costretto a vedere distrutti, profanati
dalla malvagità degli uomini.
In lui non c'è odio, ma solo tristezza e come in una storia dove c'è sempre
un inizio e una fine, Tönle Bintarn
sa quando tirarsi da parte e comprendere che per lui è arrivata l'ultima
stagione.
E' un romanzo di rara e
stupefacente bellezza, un omaggio di Stern alla sua gente e che verrà
degnamente completato nel 1985 da L'anno
della vittoria, che racconta invece del ritorno della comunità ai suoi
luoghi natii, dopo essere stata costretta a lasciare l'altopiano ed Asiago a
seguito dell'attacco austriaco.
Sono pagine di intensa
commozione, con donne, vecchi e bambini, che, a guerra finita, s'incamminano
per raggiungere le loro vecchie case, che troveranno distrutte in uno
sconvolgimento che interessa anche i prati, i boschi, le sommità dei loro monti,
al punto da faticare a riconoscerli. E poi ci sono trincee, proiettili
inesplosi e tanti, tanti, troppi morti insepolti.
I giorni sono difficili,
senza più un tetto, senza forse un futuro, ma la comunità viene prima di tutto
e a poco a poco si ricompattano, si aiutano, si danno da fare, riacquistano
quella dignità di uomini liberi e di popolo che la diaspora sembrava aver
soffocato.
E' gente mite, laboriosa,
il cui contatto continuo con la natura è un'inderogabile necessità; non saranno
molti quelli istruiti, ma tanto hanno da insegnare a tutti, noi compresi, come
il simpatico vecchietto Tana che, durante un'escursione con due compaesani, si
imbatte nei resti di un accampamento austriaco, al centro del quale troneggia
una forca.
La sua osservazione al riguardo è di una logica ferrea ed
estremamente umana: “ Da noi li fucilavano, qui li impiccavano. E invece la loro colpa era di aver avuto paura
e di voler vivere.”.
E' un pacifismo che viene
dall'animo, senza retorica, come molte altre pagine di questo stupendo libro.
La storia di Tönle è un romanzo sull'uomo, sul suo innato sentimento per la terra
dove è nato e vissuto, sulla nostalgia che prevale su ogni evento e che fa
della battaglia per il ritorno a casa un inno al concetto di patria come luogo
dei propri affetti.
L'anno della vittoria è invece un'opera
corale, dove uomini come Tönle, riuniti, esaltano il
concetto di comunità, di identiche radici, indissolubili, inalienabili, tali da
superare ogni difficoltà purché sempre solidali, in un'unica grande famiglia
per cui vale la pena di vivere e di lottare.
Successivamente, nel
1986, esce Amore di confine, una
raccolta di quarantaquattro racconti, del tutto autobiografici, che rinsaldano
il concetto di comunità. Nella varietà delle trame, nell'apparente semplicità
dello stile dello scrittore che, fra le sue caratteristiche, ha una propensione
colloquiale che induce il lettore a pendere dalle sue labbra, anche questo
libro riveste caratteristiche qualitative di indubbio elevato livello.
Occorrerà però attendere
ancora qualche anno per vedere un altro capolavoro. Nel frattempo Stern scrive
un libro un po' particolare, Arboreto salvatico, ricco di annotazioni botaniche, ma non tanto
da costituire un testo specializzato e quindi essere di poco agevole lettura;
ogni tanto ci sono richiami a fatti di cui l'autore è stato protagonista o
testimone che impreziosiscono l'opera, così come i richiami a quanto altri
hanno scritto della natura, come nelle commoventi ultime pagine, dedicate al
ciliegio. C'è così la visione di una vecchia casa contadina, vuota e
abbandonata, ora posta in vendita per costruire un condominio per i
villeggianti, così che il vecchio ciliegio che nei pressi vi dimora da
tantissimi anni e che porta le ferite della prima guerra mondiale sarà inesorabilmente
abbattuto.
Nell'autore c'è
l'autentico sincero dolore di Ljubov Andreevna quando è costretta a vendere i suoi amati alberi
nel Giardino dei ciliegi di Cechov.
“Mio caro, dolce, meraviglioso giardino…Vita mia, giovinezza mia,
felicità mia. Addio!...Addio.”
Con il ciliegio di Asiago
che verrà abbattuto se ne va un amico, un testimone e protagonista di gioventù,
se ne vanno ricordi, emozioni passate, se ne va un pezzo dell'autore.
Per quanto opera minore, Arboreto salvatico
resta un testo di assai piacevole lettura e in cui sono presenti tutte le
caratteristiche di Rigoni Stern, ma soprattutto quella indispensabile perfetta
unione dell'uomo con la natura.
Nel 1995 esce Le stagioni di Giacomo, premio Grinzane Cavour, il capolavoro di cui accennavo prima.
E' un romanzo struggente
su una gioventù che non poté conoscere le gioie della vita tipiche della sua
età, su un mondo di miseria e di fame in cui tuttavia fiorivano la solidarietà
e il mutuo soccorso, su un fascismo retorico e tronfio che non solo non permise
a tanti, a troppi di vivere dignitosamente, ma che sacrificò inutilmente in una
guerra non sentita proprio quei figli che avrebbero dovuto rappresentare
l'avvenire.
Giacomo, l'amico di Mario
Rigoni Stern, non può essere bambino, ma si deve adattare a qualsiasi lavoro
pur di sopravvivere. Così segue le orme del padre diventando un recuperante,
cioè raccogliendo quanto di bellico è rimasto sull'altopiano. E' un lavoro
duro, pericoloso e anche poco remunerato, ma è l'unico possibile, perché il
regime, nonostante le promesse, non è in grado di creare nuove occasioni di
occupazione, se non per periodi limitati e sempre legati al suo mondo irreale
dove conta solo l'apparenza.
Giacomo è la tipica
figura del ragazzo diventato troppo presto uomo, ma che, nonostante le
avversità, riesce a cogliere i valori della vita, con quel senso di umiltà che
è proprio di chi è povero di beni materiali, ma ricco d'animo.
Conoscerà anche l'amore,
un sentimento delicato delineato in modo magistrale, una storia che non potrà aver
seguito, perché la tempesta della guerra non restituirà il protagonista al suo altopiano.
Questo è un romanzo che
dovrebbe entrare di diritto nei programmi scolastici, affinché i giovani di
oggi abbiano quella memoria di un passato ancor recente che a loro è stata
preclusa da un insensato sistema che promette un inarrivabile benessere di tipo
solo materiale.
Come al solito stupisce
lo stile di Mario Rigoni Stern, quella capacità di narrare come se fosse
davanti al lettore e con pacatezza gli raccontasse la vita di questo suo grande
amico.
Le stagioni di Giacomo si
concludono con il gelido inverno della campagna di Russia.
Successivamente usciranno
altri libri di racconti, tutti di buon livello, come Sentieri sotto la neve, Inverni
lontani, Tra
due guerre e altre storie, L'ultima
partita a carte, Aspettando l'alba e
altri racconti, I racconti di guerra,
libri di sicuro interesse e di piacevole lettura, ma che non possono essere
definiti dei capolavori, per quanto perfettamente inseriti nel ciclo letterario
dell'autore.
Rigoni Stern è da tanto
che scrive, gli anni cominciano a passare, i ricordi poco a poco prendono il
sopravvento sul presente. Non si è inaridita la vena creativa, ma non riesce a
cogliere qualche cosa di nuovo. E' forse tempo di bilanci, di riflessioni su
ciò che si è fatto e su cu quello che invece si è dimenticato, o ci è stato
impossibile fare.
Il talento e la
creatività hanno un ultimo guizzo in un'opera di sublime bellezza e così nel
2006 esce Stagioni.
Questo volume infatti parla stagioni, sempre uguali nel loro avvicendarsi
e pure sempre così diverse.
Ma non si tratta solo dei
periodi dell'anno, bensì anche di quelli di una vita e in questi riemergono i
ricordi dei predecessori che già vissero quelle stagioni.
Mario Rigoni Stern ci
offre un'opera straordinaria, frutto di esperienza di vita, di profondo
rispetto e amore per la natura.
Le sue parole scendono
sulla carta svolazzando come fiocchi di neve, le osservazioni, le memorie si
accavallano, dando luogo a una narrazione in apparenza discontinua, ma che
finisce con l'avvincere in modo inequivocabile.
L'autore comincia con
l'inverno (Sono nato alle soglie
dell'inverno, in montagna, e la neve ha accompagnato la mia vita) e la neve
è lo sfondo di scenari che si avvicendano, fra il presente del bosco e il
passato della drammatica campagna di Russia, emblemi della natura e della
violenza dell'uomo.
Gli eventi del tempo
trascorso sono giustamente mediati, quasi un intermezzo del presente, invece
vivo, vitale, emergente dalle pagine con il profumo dell'aria, i richiami degli
animali, lo scenario che prende corpo e che idealmente sembra che compaia di
fronte agli occhi.
Ecco, questa capacità di
trasmettere, di dare vita a immagini che toccano tutti i sensi è semplicemente
sbalorditiva e suscita un'emozione che cresce pagina dopo pagina.
Dopo l'inverno viene la
primavera ( Sensi e fantasia ti aiutano a
scoprire la primavera del bosco, che è misteriosa, segreta, viva), con
l'odore fresco dell'erba bagnata, con i trilli delle allodole, con il risveglio
di tutta la natura, ma anche con il percorso nel bosco dello scampato al lager
tedesco, l'inizio esaltante della ritrovata libertà; i ricordi in una stagione
viva sono più numerosi e così si passa da una visita a Versailles durante il
crepuscolo alla figura del nonno adorato, che fumava i sigari Virginia e che
ora riposa con i suoi vecchi compagni “nati
sotto Francesco Giuseppe e morti sotto Vittorio Emanuele”.
L'estate ha le sue
caratteristiche (L'estate in montagna è
sempre breve; anche la notte estiva è breve a rinfrescare l'aria; la luna
calante e il crepuscolo dell'alba, con le due diverse tonalità, creano una luce
sparsa sulle cime e nell'alta valle, ma dentro il bosco la notte ancora non si
dissolve.), con le femmine del cervo che si appartano per dare alla luce i
piccoli e con il taglio rituale del bosco, ma anche con memorie più estive,
come la storia di Nello del Dosso o le vacanze nel Salento, o in Croazia.
E infine arriva l'autunno
(Le foglie degli aceri montani hanno
preso la luce dall'ambra e la brezza del mattino le stacca dai rami,
adagiandole al suolo).
Il sottobosco è
rigoglioso ed è la stagione buona per la caccia, magari per una battuta a Naturno, quasi un rito di origini antiche; ma è anche
un'ultima stagione, con il toccante episodio dello zio Arrigo che, ormai molto
anziano, si trascina faticosamente sull'altipiano a rivedere i luoghi dove ha
combattuto durante la prima guerra mondiale, a rievocare e a risentire
l'incombenza della morte, quasi il tentativo di esorcizzarla ora che per lui la
vita volge al termine.
A questa stagione si
accompagna una dolce malinconia e il libro si chiude, così com'era iniziato,
con le avvisaglie di neve, un perpetuarsi di stagioni, di nascite e di morti,
un infinito ciclo vitale.
Leggere questo libro è
come scrutare dentro l'anima dell'autore, riscoprire con lui i valori di
un'esistenza semplice, in perfetta sintonia con la natura.
Non c'è una pagina che
sia inferiore all'altra e tutto è in perfetto equilibrio, come la vita di un
uomo che è in pace con tutto e con se stesso.
Stagioni è stato il canto del cigno, il
messaggio finale che compendia tutta l'opera di un autore fecondo che ha
lasciato una traccia indelebile nella letteratura.
Poi è venuta la malattia
e l'ultima stagione si è avviata alla conclusione.
Mi sarebbe piaciuto
conoscere di persona Mario Rigoni Stern, sarebbe stato un mio grande desiderio
sedermi davanti a lui e guardarlo negli occhi.
Sono sicuro che avrei potuto vedere Giacomo che con suo padre va alla
ricerca di residuati bellici su un altopiano ancora sconvolto dalla guerra, fra
trincee appena celate dalla natura che lenta riprende il suo posto. E poi si
sarebbero susseguite altre immagini, come il ritorno degli sfollati in un' Asiago completamente distrutta, il loro iniziale
scoramento, ma poi la volontà di ricominciare, tutti insieme, uniti come una
grande famiglia, oppure il sorriso del vecchio Tönle
che continua a camminare lungo le strade dell'impero austriaco per guadagnare
qualche cosa per sé e per i suoi, con il pensiero sempre rivolto alla sua
terra. Né avrebbe potuto mancare la figura dell'alpino Giuanin,
che chiede al sergente maggiore Mario Rigoni Stern “
Sergentmagiù ghe rivarem a baita?”
Sono immagini vive,
sempre presenti in me, perché l'autore le ha vissute così intensamente da saperle
trasmettere con le sue parole.
Mario Rigoni Stern ha
scritto della sua vita, ma ha saputo cogliere nel particolare quell'essenza
eterna che è propria di ogni uomo. Non c'è finzione nei suoi libri, non c'è invenzione, ma
solo una realtà che l'ha toccato e che lui con la sua sensibilità è riuscito a
tradurre magistralmente in parole. Anche il fatto più umile, quello che
potrebbe essere quasi insignificante diventa così “il fatto”, non un fatto,
assurge a motivo di profonde riflessioni, viene recepito come parte di noi,
come evento che potrebbe toccarci.
E' forse questa la
grandezza di questo autore, cioè questa capacità di saper cogliere nel
particolare tutto quello che può essere un patrimonio comune, e lo fa con
delicatezza, con accenti spesso poetici, riuscendo a infondere, nonostante
argomenti anche dolorosi, una grande serenità, la stessa serenità che albergava
nel suo cuore.
E' morto verso gli inizi
dell'estate astronomica, ma a me piace pensare che avrebbe desiderato incamminarsi
in un bosco innevato, raggiungere un bell'abete, sedersi appoggiando la schiena
al tronco, nell'attesa di quell'ultimo sonno che tanti soldati ha colto nella
ritirata di Russia.
Avrebbe ascoltato il
cinguettio di qualche uccello e il sospiro del vento fra i rami e quando si
sarebbe accorto che il corpo ormai gelido avrebbe intorpidito anche i sensi,
sono sicuro che avrebbe detto queste ultime parole:
“Giuanin,
sèma rivà a baita.”.
Fonti e bibliografia:
Wikipedia;
Infolibro;
De Tzimbar von Siben Komoinen (I Cimbri dei Sette Comuni);
Il sergente nella neve (1953)
- Premio Bancarellino
1963;
Il bosco degli urogalli (1962);
Quota Albania (1971);
Ritorno sul Don (1973);
Storia di Tönle (1978) – Premio
Campiello e Premio Bagutta;
Uomini, boschi e api (1980);
L'anno della vittoria (1985);
Amore di confine (1986);
Il libro degli animali (1990);
Arboreto salvatico (1991);
Le stagioni di Giacomo (1995) – Premio Grinzane Cavour;
Sentieri sotto la neve (1998);
Inverni lontani (1999);
Tra due guerre e altre storie (2000);
L'ultima partita a carte (2002);
Aspettando l'alba e altri racconti (2004);
I racconti di guerra (2006);
Stagioni (2006).