I frutti dimenticati, Cristiano
Cavina
(Marcos y Marcos, 2008), pp. 201, Euro 14,50.
E' straordinaria, nei libri di Cristiano Cavina, la
naturalezza con la quale l'autore implicito e il narratore coincidono. L'uomo Cavina è probabilmente contiguo allo scrittore/personaggio
dei suoi romanzi, ma questo non ha assolutamente importanza per il lettore che,
ben lungi dal chiedersi il perché di alcune scelte stilistiche – in un momento
in cui la narrativa italiana discetta di autofiction
e autobiografia romanzata -, si fa travolgere dalla vitalità espressiva, dal
talento innato di questo grande affabulatore. Se lo scrittore vero è colui che
meno rivela l'artificio della propria scrittura, l'epica di Casola
Valsenio, piccolo paese dell'Appennino romagnolo, e
del suo cantore si caricano di significati ancestrali degni della migliore
tradizione popolare italiana. “A Casola era tutto un
coltivare frutti dimenticati, e li celebravamo in una festa il
terzo fine settimana di ottobre.” Pere volpine, azzeruole,
sorbi, giuggiole, piante destinate all'oblio, coltivate dalle suore orsoline
nella versione più aggiornata dell'hortus conclusus, del giardino dell'Eden. Ma frutto dimenticato è
anche Cristiano, che non ha mai conosciuto suo padre. A trentatré anni, per un
paradossale scherzo del destino, tutti i nodi cruciali della sua vita vengono
al pettine: il babbo esce come da un varco temporale, e si rivela al figlio che
aveva abbandonato; ha i giorni contati, è irrimediabilmente malato. “Aveva
lasciato un vuoto maestoso, da imperatore in esilio, e adesso cercava di
riempirlo con quell'acconto di uomo, seduto su una panchina; nemmeno i piccioni
lo guardavano come si deve.”
E come in una tragedia greca o in un romanzo di Verga un singolo evento, anche
se di questa portata, non arriva mai solo. Il papà assente riemerge dal fiume
del passato proprio quando Cristiano scopre che diventerà padre a sua volta e
nel momento in cui non è più sicuro del suo amore per Anna, la futura mamma di
suo figlio. Poi sopraggiungono le complicazioni della gravidanza, il confronto
con la malattia e la morte, e una nuova vita che con difficoltà si ritaglia il
suo posto in questo mondo.
C'è uno scarto sostanziale tra questo libro e i precedenti di Cristiano Cavina. In “Alla grande” avevamo il recupero del mondo
incantato dell'infanzia; in “Nel paese di Tolintesàc”
erano le storie dei Cavina, concerto corale quasi felliniano, a uscire dal calderone della memoria e
“Un'ultima stagione da esordienti” recuperava l'irruenza e la goliardia della
pre-adolescenza. Tutto un ripiegarsi all'indietro. Ne
“I frutti dimenticati” l'attualità è stringente e informa di sé pure
l'alternanza dei tempi del racconto: il presente al capezzale del papà morente
e l'imperfetto dei ricordi d'infanzia. Da una parte il micromacrocosmo
di provincia, visto con la meraviglia intatta e la freschezza del fanciullo: la
santità di nonna Cristina, il coraggioso palombaro-bambino che si immergeva
nella camera della nonna come fosse il fondo dell'oceano e il suo comò un
forziere pieno di tesori; l'amico Franceschino che
riteneva che le stelle cadenti fossero un errore di Dio che non le aveva
attaccate col Vinavil alla volta celeste; dall'altra il presente incerto,
disseminato di errori che nessun fiore di Bach è in grado di risanare, dove
Cristiano scende a patti col suo Dio “super-vigile urbano”
affinché prenda lui e risparmi la sua compagna e il nascituro da altre
sventure, dove un uomo in disarmo riconosce che le colpe dei padri si ripercuotono
sui figli, che non finiscono mai di scontarle. Una parziale quadratura del
cerchio si avrà nell'incontro con il genitore assente. Cristiano lo assiste
negli ultimi giorni della sua agonia, raccontandogli le storie della sua
infanzia, stabilendo un legame proprio quando l'uomo lascerà questo mondo. Il
passato è speculare al futuro: Cristiano si separa da Anna proprio nel momento
più delicato, abbandonando il piccolo Giovanni. A questa sua maledizione
personale rimedia come può con l'unico antidoto ch'è in grado di distillare.
Raccontando le sue storie.
Sul piano dello stile è sconcertante la leggerezza con la quale l'autore
riferisce del suo dramma. La costruzione del racconto è di per sé esile; brevi
frasi, tanti punti e continui a capo, una semplicità e linearità che riportano
alla mente le parabole evangeliche che ci leggevano al catechismo. Le piccole
grandi cose della vita, lo smarrimento per il babbo ritrovato, la rabbia e il
senso di colpa, l'ironia e la pietà: una vasta gamma di sentimenti viene
rappresentata con misura e equilibrio, senza mai deragliare nel patetico. Il narratore parte penalizzato ma ricade in piedi, in virtù
dell'amore che rivolge al nuovo nato: “Non gli levo gli occhi di dosso perché,
tra le altre cose, lui è il mio faro. Getta una luce attraverso le
tenebre. “ E ancora: “Ho sbagliato tutto quello che si poteva
sbagliare (…) Ho bisogno di una vita intera, solo per cominciare a chiedere
scusa.”
Alberto Carollo