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  Letteratura  »  Alberto Carollo ha recensito I frutti dimenticati, di Cristiano Cavina, edito da Marcos y Marcos 16/04/2009
 

I frutti dimenticati, Cristiano Cavina
(Marcos y Marcos, 2008), pp. 201, Euro 14,50.



E' straordinaria, nei libri di Cristiano Cavina, la naturalezza con la quale l'autore implicito e il narratore coincidono. L'uomo Cavina è probabilmente contiguo allo scrittore/personaggio dei suoi romanzi, ma questo non ha assolutamente importanza per il lettore che, ben lungi dal chiedersi il perché di alcune scelte stilistiche – in un momento in cui la narrativa italiana discetta di autofiction e autobiografia romanzata -, si fa travolgere dalla vitalità espressiva, dal talento innato di questo grande affabulatore. Se lo scrittore vero è colui che meno rivela l'artificio della propria scrittura, l'epica di Casola Valsenio, piccolo paese dell'Appennino romagnolo, e del suo cantore si caricano di significati ancestrali degni della migliore tradizione popolare italiana. “A Casola era tutto un coltivare frutti dimenticati, e li celebravamo in una festa il terzo fine settimana di ottobre.” Pere volpine, azzeruole, sorbi, giuggiole, piante destinate all'oblio, coltivate dalle suore orsoline nella versione più aggiornata dell'hortus conclusus, del giardino dell'Eden. Ma frutto dimenticato è anche Cristiano, che non ha mai conosciuto suo padre. A trentatré anni, per un paradossale scherzo del destino, tutti i nodi cruciali della sua vita vengono al pettine: il babbo esce come da un varco temporale, e si rivela al figlio che aveva abbandonato; ha i giorni contati, è irrimediabilmente malato. “Aveva lasciato un vuoto maestoso, da imperatore in esilio, e adesso cercava di riempirlo con quell'acconto di uomo, seduto su una panchina; nemmeno i piccioni lo guardavano come si deve.”
E come in una tragedia greca o in un romanzo di Verga un singolo evento, anche se di questa portata, non arriva mai solo. Il papà assente riemerge dal fiume del passato proprio quando Cristiano scopre che diventerà padre a sua volta e nel momento in cui non è più sicuro del suo amore per Anna, la futura mamma di suo figlio. Poi sopraggiungono le complicazioni della gravidanza, il confronto con la malattia e la morte, e una nuova vita che con difficoltà si ritaglia il suo posto in questo mondo.
C'è uno scarto sostanziale tra questo libro e i precedenti di Cristiano Cavina. In “Alla grande” avevamo il recupero del mondo incantato dell'infanzia; in “Nel paese di Tolintesàc” erano le storie dei Cavina, concerto corale quasi felliniano, a uscire dal calderone della memoria e “Un'ultima stagione da esordienti” recuperava l'irruenza e la goliardia della pre-adolescenza. Tutto un ripiegarsi all'indietro. Ne “I frutti dimenticati” l'attualità è stringente e informa di sé pure l'alternanza dei tempi del racconto: il presente al capezzale del papà morente e l'imperfetto dei ricordi d'infanzia. Da una parte il micromacrocosmo di provincia, visto con la meraviglia intatta e la freschezza del fanciullo: la santità di nonna Cristina, il coraggioso palombaro-bambino che si immergeva nella camera della nonna come fosse il fondo dell'oceano e il suo comò un forziere pieno di tesori; l'amico Franceschino che riteneva che le stelle cadenti fossero un errore di Dio che non le aveva attaccate col Vinavil alla volta celeste; dall'altra il presente incerto, disseminato di errori che nessun fiore di Bach è in grado di risanare, dove Cristiano scende a patti col suo Dio “super-vigile urbano” affinché prenda lui e risparmi la sua compagna e il nascituro da altre sventure, dove un uomo in disarmo riconosce che le colpe dei padri si ripercuotono sui figli, che non finiscono mai di scontarle. Una parziale quadratura del cerchio si avrà nell'incontro con il genitore assente. Cristiano lo assiste negli ultimi giorni della sua agonia, raccontandogli le storie della sua infanzia, stabilendo un legame proprio quando l'uomo lascerà questo mondo. Il passato è speculare al futuro: Cristiano si separa da Anna proprio nel momento più delicato, abbandonando il piccolo Giovanni. A questa sua maledizione personale rimedia come può con l'unico antidoto ch'è in grado di distillare. Raccontando le sue storie.
Sul piano dello stile è sconcertante la leggerezza con la quale l'autore riferisce del suo dramma. La costruzione del racconto è di per sé esile; brevi frasi, tanti punti e continui a capo, una semplicità e linearità che riportano alla mente le parabole evangeliche che ci leggevano al catechismo. Le piccole grandi cose della vita, lo smarrimento per il babbo ritrovato, la rabbia e il senso di colpa, l'ironia e la pietà: una vasta gamma di sentimenti viene rappresentata con misura e equilibrio, senza mai deragliare nel patetico. Il narratore parte penalizzato ma ricade in piedi, in virtù dell'amore che rivolge al nuovo nato: “Non gli levo gli occhi di dosso perché, tra le altre cose, lui è il mio faro. Getta una luce attraverso le tenebre. “ E ancora: “Ho sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare (…) Ho bisogno di una vita intera, solo per cominciare a chiedere scusa.”

 

Alberto Carollo

 
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