Introduzione a
Il sosia, il doppio, il replicante.
Storia e metamorfosi di una figura letteraria,
di
Giuseppe Panella
Edizioni
Elara, Bologna, 2009
Il tema del
doppio è uno dei più affascinanti in letteratura e bene ha fatto Giuseppe
Panella, studioso molto attento ai fenomeni culturali, a riprenderlo dalle sue
radici. Di solito, infatti, le analisi sulla figura dell'altro prendono il via
dall'Ottocento, dal secolo, cioè, in cui è maggiormente avvertito il disagio esistenziale
e si prepara la scoperta dell'inconscio.
Più
coerentemente Panella risale a Platone, il cui Simposio svela l'origine della doppiezza: la separazione per ordine
di Giove dell'essere primigenio, l'androgino che conteneva, nella sua totalità,
i principi del maschile e del femminile. Da questa separazione avrebbe origine l'insoddisfazione
degli esseri umani, condannati a ricercarsi per ricomporre l'unità perduta.
Vero è che la spiegazione mitologica di Platone si limita alla divisione dei
sessi e non spiega, se non in parte, l'angoscia di fronte all'altro-da-sé, il vedersi
rispecchiato in un altro essere separato dal proprio corpo.
Lo fa,
invece, Plauto nell'Anfitrione,
cogliendone gli aspetti comici e paradossali nella commedia degli equivoci
impostata sulla figura del servo Sosia (appellativo destinato a maggior
fortuna), e da qui all'omonima pièce teatrale di Molière e a quella di von Kleist, è un susseguirsi nel tempo di un tema sentito
profondamente nella modernità, dove ha assunto connotazioni psicotiche.
L'effetto di
fronte alla copia del proprio corpo è sconvolgente poiché mette in dubbio l'idea
di sé, la coscienza come individuo distinto dalla madre, che si è formata nei
primi mesi di vita. Dubitare della propria identità, osservarla in un altro essere,
visto dall'esterno, può provocare una scissione, uno sdoppiamento della
personalità. Il sosia è visto come colui che ruba la vita, si interpone tra sé
e le persone amate, ne prende il posto nella comunità. La fantasia piacevole di
“vedersi” vivere dall'esterno, come un estraneo, poter essere un altro come
il personaggio di un film, può trasformarsi in spaesamento, aggravare il
maggior timore dell'uomo, secondo solo a quello della morte. Ma, come osserva
Otto Rank, lo studioso freudiano che ha sviluppato questo
tema in un saggio illuminante (a cui Panella dedica un intero capitolo), al
motivo del doppio, che nel materiale folkloristico si presenta soprattutto nel
significato di anima e di morte, non è estraneo il narcisismo.
Perché l'ambiguità
destabilizzante del doppio è scatenata dall'angoscia esistenziale
dell'individuo cosciente: è il naturale retaggio di un passato ancestrale non
rischiarato dalla luce della coscienza. La coscienza di sé presuppone l'identità
individuale, che il doppio minaccia, mette in discussione, respinge verso
l'indistinto e il mancato riconoscimento sociale. Il doppio è dunque un
elemento destabilizzante per la cultura del logos,
capace di rompere il fragile equilibrio e provocare uno stato di alienazione
dalla realtà che può sfociare nella schizofrenia.
Non è un caso
se buona parte dei grandi “doppi” della letteratura occidentale si risolvono
nella pazzia, dal Medardo dell'Elisir del diavolo di Hoffmann al mister Hyde di Stevenson, tanto per sottolineare le due estremità
temporali del xix
secolo (primo Romanticismo e Vittorianesimo),
in cui l'ambiguità della doppiezza è tra i temi più sentiti.
Lo sguardo di
Panella è coinvolgente ed esaustivo: va a recuperare ogni indizio in cui il
senso della doppiezza sia utilizzato, dimostrazione solo in apparenza di una trovata
per stupire il lettore o divertirlo (come in Plauto), ma in fondo conferma di
un disagio che si vuol esprimere (come in Hoffmann),
per potersene liberare.
A cominciare
dallo splendido esempio di Borges, nel racconto Le rovine circolari, dove
il meccanismo aristotelico del regressus ad infinitum utilizza il sogno dell'altro per confondere
l'autonomia del sé. L'eterno ritorno della realtà come effetto della sua
inesistenza. Il ricorso al sogno è ripreso in uno degli ultimi racconti di
Borges, L'altro, variante tarda dell'incontro
con se stesso (a trent'anni di distanza) che coglie il tema della senilità.
Doppio e
sdoppiamento hanno un legame così forte con le questioni inerenti l'equilibrio mentale da essere stati indicati da Freud (lettore
della novella L'uomo di sabbia di Hoffmann) tra i principali responsabili del “perturbante”,
termine con il quale è stato reso in italiano l'unheimlich, fonte di angoscia e
spaesamento, di fronte all'incertezza di sé e all'estraneità dell'ambiente. E
il perturbante, si sa, è causa prima della paura, il sentimento più forte che
accompagna l'uomo fin dalla sua nascita.
Si può quindi
ritenere che dietro la manifestazione del “doppio” si nascondano le più
temibili paure dell'uomo e che la necessità vitale di esorcizzarle (cominciando
proprio dal lato comico di Plauto) sia alla base stessa di diversi motivi
letterari. Il Golem, creatura medievale celebrata nel romanzo di Meyrink, cavalca la paura e la utilizza in difesa del
popolo ebraico; lo stesso meccanismo psicologico che sottende alla creazione
del mostro di Frankenstein della
Shelley, dove non è più utilizzata la magia per dare la vita all'altro-da-sé, ma l'elettricità. Frankenstein, proprio in virtù della
data di composizione (il 1818) è un po' lo spartiacque tra un doppio casuale,
di natura magica o divina (come nell'Anfitrione)
e un doppio artificiale, costruito dall'uomo, ma non per questo meno
terrificante e minaccioso.
Da allora il
doppio, alimentato dalla tecnologia, si è variamente incarnato in una miriade
di esseri fantastici, robot, automi, replicanti e androidi sempre più
perfezionati e simili all'uomo, da cui finiscono per non essere più
distinguibili, come nell'ormai classico Blade Runner, da un racconto di Philip K. Dick.
Nell'articolata e complessa parabola evolutiva del doppio (da maschera a
creatura cibernetica) si è tornati alla più inquietante presa d'atto che l'altro-da-sé è perfettamente identico
al suo originale e se ne distingue per un semplice tratto di “consapevolezza”.
Un tratto così sottile ed effimero da mettere in dubbio ogni certezza e
riproporre, nella sua angosciante percezione interiore, la questione originaria
a cui è riconducibile l'essenza stessa del problema del “doppio”: la perdita
dell'identità individuale.
In un vecchio film di John Carpenter, Starman, tratto
dal romanzo di A. D. Foster, l'alieno di turno “clona” un essere umano e vive
come l'altro, senza alcuna differenza sensibile. Come dire che l'alterità è un
fatto interiore. Il che richiama altre situazioni consimili, sulle quali il
cinema si è spesso diffuso, a cominciare da L'invasione
degli ultracorpi di Don Siegel, che ha goduto di
numerosi remakes, dove appunto dei “cloni” vegetali
prendono il posto dei loro omologhi umani per impadronirsi del mondo. Dal “doppio”
si scivola, però, verso il tema dell'invasione, altra grande paura che
attanaglia l'immaginario sociale. Ma questa è un'altra storia
Carlo Bordoni