Recensione di ''Tu non dici parole'' di
Simona Lo Iacono (Giulio Perrone editore, Roma 2008)
Miserere! - Osservazioncelle del
tutto personali su ''Tu non dici parole'' di Simona Lo Iacono (Giulio Perrone
editore, Roma 2008)
Esistono fondamentalmente due tipi di
parole: quelle leggére e quelle pesanti. Sono le stesse parole, capiamoci, ma
la loro collocazione le rende volatili o plumbee: è dunque il posto in cui si
mettono le parole a designarne la forza; ed è lo spazio temporale, l'epoca
storica in cui le parole cadono, a
dar loro un senso forte o debole. Il contesto, in soldoni, lavora
sui lemmi scolpendoli e rendendoli maschere tragiche o comiche o ironiche e via
discorrendo. Lo stesso vediamo quando ci troviamo a discorrere dello stesso
argomento con diverse persone e in diverse situazioni ambientali.
Le parole di per sé hanno comunque
un'anima poco mutevole, fissa come il Cielo che - per chi crede nel Dio
cattolico - le ha donate agli uomini non per prostituirne la bellezza ma per cantare
le lodi di un uomo redimibile e di un Redentore amorevole e compassionevole.
Ben altra cosa, perciò, rispetto a chi agisce in malafede (nel romanzo tardogotico di Simona Lo Iacono molti, a
partire dall'arcivescovo Angimbè, il quale ''Usa parole. Proprio lui, che delle
parole conosce solo la peggior parte'', sta scritto a pag. 151) e ben altra
cosa anche rispetto a chi ha degli squilibri emotivi altrettanto forti quanto
debole è la sua personalità reale, interiore (penso al truce capopopolo Pilosa,
strumento diabolico nelle mani dell'insensato agire dell'Angimbè).
La bellezza delle parole dunque ne è
solo un aspetto, sebbene, analogamente alla Luna, se ne possa in Terra vedere
con facilità solo una faccia, quella appunto violenta - chi ha cattivi intenti,
si sa, nota solo gli aspetti facili ed utilitaristici di tutto. E sebbene
questa bontà-bellezza delle parole sia recondita, nel racconto Francisca,
Pititta e Tufania (siciliane del Seicento) ne posseggono solo gli aspetti
positivi, celesti e divini: loro riescono a vedere l'altra faccia dei verba, cioè quella che corrisponde al
loro animo gentile e caritatevole di giovani donne schiacciate fra la pazzia
teocratico-inquisitoria dei Tribunali ecclesiastici seicenteschi e la brutalità
men che animalesca dei ribelli alla masaniello maniera. La faccia difficile
delle parole, per molti inavvertibile anzi preclusa, è invece per questi tre
personaggi muliebri la piú semplice e naturale, la spontanea espressione di
vaticinii e sentimenti veri, unici. È l'occasione per colloquiare con gli Enti
Supremi in una confidenza rasentante l'osmosi e la... diremmo la santità!
Le tre donne parlano dunque non per
comunicare (ed imporre) delle turpi decisioni ma per esprimere quanto - causa
limitatezza mentale e spirituale - nessuno è in grado di cogliere: infatti il latino inconsapevole di Francisca si
muta nel latinorum dell'arcivescovo
Angimbè. Figura molto manzoniana, questa, che ci rimanda un po' anche
all'avvocato Azzeccagarbugli. C'è molto Manzoni, infatti, qui, ma senza alcuna
pretenziosità... solamente un omaggio fra le righe. Che risulta commovente e
corroborante, almeno al sottoscritto.
Il puro
latino di Francisca, dicevasi, rappresenta uno strumento di fede eccelsa e primigenia, un profluvio di verba scorrenti come acqua di ruscello,
una litania la cui suggestione è tutta musicale, a voler dichiarare il candore
dell'Agnello di Dio, l'agnello sacrificale che s'incarna, pariteticamente,
nelle tre amiche di ''Tu non dici parole''. Sono parole bianche, albine,
immacolate, armoniche e bambine… le stesse che, nella bocca di Angimbè, si
colorano del nero del quale la sua perversione spirituale le vuol tingere, anzi
sporcare, immiserire. E quel ''Miserere, miserere, miserere'' costituente lo slogan di Francisca (la quale per il
resto è afasica con quasi tutti) ben si adatterebbe al Pilosa, alla perpetua di
don Pippino e al curato stesso, se costoro fossero capaci di elevare una
siffatta preghiera, la cui umiltà è, invece, esclusiva dotazione degli ultimi
fra gli ultimi.
L'argomento del romanzo, di questo
variopinto, religiosissimo dramma siciliano secentesco, è cosa molto trattata
dagli autori moderni (Bufalino e Vassalli in primis), ma qui assume dei guizzi
di originalità non sottovalutabili perché, al di là dell' (azzeccato) uso di
vocaboli dialettali, raramente credo si sia letta in Italia un'opera narrativa
lunga interamente incentrata sul problema dell'interpretazione del linguaggio
scritto ed orale - per di piú estendendo tale eterno problema al dilemma
concernente il rapporto fra giustizia umana e giustizia divina (punto di forza
dell'opera).
Per quanto riguarda lo stile e la
sintassi adoperati, potrei solo suggerire a Simona Lo Iacono che in molti casi
le sue bellissime (ed originali) suggestioni poetiche e la leggibilità del
testo in genere, non avrebbero assolutamente perso forza anche se espresse
evitando le eccessive cesure del testo, ovvero la prosa ritmica di tipo
paratattico - faccio un esempio: ''Se è fuggito non resta che fuggire. Se l'ha
lasciata non resta che cercarla. Anche se non sa nemmeno che direzione
prendere, Francisca, che nome invocare''. Ecco, qui, con delle virgole o dei
punto e virgola al posto dei punti fermi il risultato sarebbe stato uguale, a
mio avviso, ottenendo dei periodi piú complessi e strutturati, piú discorsivi
diciamo (i soggetti delle frasi erano presenti già prima e sottintesi, dunque
non costituiscono un ostacolo). Ma queste ultime sono osservazioni del tutto
marginali... magari motivate dal mio attaccamento alla prosa di autori come Brancati
o Calvino e a stilemi pienamente narrativistici.
Questo romanzo storico, ambientato
nella Sicilia (a Bronte) del Seicento e tutto al femminile, resta un'opera prima notevole, soprattutto in quanto
tentativo di compendiare il ritmo (endecasillabico o a verso libero?) del
cuore con la fluidità prosastica della trama. Cosa già fatta, certo: ma solo
secoli fa. Eccitante rivedere cose simili nell'era della banalità tecnologica e
della confusione, in cui il Manzoni
ci manca poco che diviene, agli occhi di tutti, Piero Manzoni – quello della ''Merda d'artista'', qualcuno se lo
ricorderà, purtroppo.
Una piccola nota va infine inclusa
nella presente recensione: una maggior attenzione alla lettura delle bozze
finali l'editore avrebbe dovuto mettercela, cosí scongiurando qualche
manciatella di refusi che purtroppo compare qua e là nel testo – pur non dando
alcun serio fastidio alla lettura... Dopotutto l'amore per le parole belle (e queste di Lo Iacono lo
sono veramente) andrebbe messo in pratica anche dagli editori, per mezzo della
propria attenzione alla precisione tipografica dei testi.
Sergio
Sozi