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  Letteratura  »  Sergio Sozi ha recensito Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono, edito da Perrone 29/10/2009
 

Recensione di ''Tu non dici parole'' di Simona Lo Iacono (Giulio Perrone editore, Roma 2008)

 


Miserere! - Osservazioncelle del tutto personali su ''Tu non dici parole'' di Simona Lo Iacono (Giulio Perrone editore, Roma 2008)

 

Esistono fondamentalmente due tipi di parole: quelle leggére e quelle pesanti. Sono le stesse parole, capiamoci, ma la loro collocazione le rende volatili o plumbee: è dunque il posto in cui si mettono le parole a designarne la forza; ed è lo spazio temporale, l'epoca storica in cui le parole cadono, a dar loro un senso forte o debole. Il contesto, in soldoni, lavora sui lemmi scolpendoli e rendendoli maschere tragiche o comiche o ironiche e via discorrendo. Lo stesso vediamo quando ci troviamo a discorrere dello stesso argomento con diverse persone e in diverse situazioni ambientali.

Le parole di per sé hanno comunque un'anima poco mutevole, fissa come il Cielo che - per chi crede nel Dio cattolico - le ha donate agli uomini non per prostituirne la bellezza ma per cantare le lodi di un uomo redimibile e di un Redentore amorevole e compassionevole. Ben altra cosa, perciò, rispetto a chi agisce in malafede (nel romanzo tardogotico di Simona Lo Iacono molti, a partire dall'arcivescovo Angimbè, il quale ''Usa parole. Proprio lui, che delle parole conosce solo la peggior parte'', sta scritto a pag. 151) e ben altra cosa anche rispetto a chi ha degli squilibri emotivi altrettanto forti quanto debole è la sua personalità reale, interiore (penso al truce capopopolo Pilosa, strumento diabolico nelle mani dell'insensato agire dell'Angimbè).

La bellezza delle parole dunque ne è solo un aspetto, sebbene, analogamente alla Luna, se ne possa in Terra vedere con facilità solo una faccia, quella appunto violenta - chi ha cattivi intenti, si sa, nota solo gli aspetti facili ed utilitaristici di tutto. E sebbene questa bontà-bellezza delle parole sia recondita, nel racconto Francisca, Pititta e Tufania (siciliane del Seicento) ne posseggono solo gli aspetti positivi, celesti e divini: loro riescono a vedere l'altra faccia dei verba, cioè quella che corrisponde al loro animo gentile e caritatevole di giovani donne schiacciate fra la pazzia teocratico-inquisitoria dei Tribunali ecclesiastici seicenteschi e la brutalità men che animalesca dei ribelli alla masaniello maniera. La faccia difficile delle parole, per molti inavvertibile anzi preclusa, è invece per questi tre personaggi muliebri la piú semplice e naturale, la spontanea espressione di vaticinii e sentimenti veri, unici. È l'occasione per colloquiare con gli Enti Supremi in una confidenza rasentante l'osmosi e la... diremmo la santità!

Le tre donne parlano dunque non per comunicare (ed imporre) delle turpi decisioni ma per esprimere quanto - causa limitatezza mentale e spirituale - nessuno è in grado di cogliere: infatti il latino inconsapevole di Francisca si muta nel latinorum dell'arcivescovo Angimbè. Figura molto manzoniana, questa, che ci rimanda un po' anche all'avvocato Azzeccagarbugli. C'è molto Manzoni, infatti, qui, ma senza alcuna pretenziosità... solamente un omaggio fra le righe. Che risulta commovente e corroborante, almeno al sottoscritto.

Il puro latino di Francisca, dicevasi, rappresenta uno strumento di fede eccelsa e primigenia, un profluvio di verba scorrenti come acqua di ruscello, una litania la cui suggestione è tutta musicale, a voler dichiarare il candore dell'Agnello di Dio, l'agnello sacrificale che s'incarna, pariteticamente, nelle tre amiche di ''Tu non dici parole''. Sono parole bianche, albine, immacolate, armoniche e bambine… le stesse che, nella bocca di Angimbè, si colorano del nero del quale la sua perversione spirituale le vuol tingere, anzi sporcare, immiserire. E quel ''Miserere, miserere, miserere'' costituente lo slogan di Francisca (la quale per il resto è afasica con quasi tutti) ben si adatterebbe al Pilosa, alla perpetua di don Pippino e al curato stesso, se costoro fossero capaci di elevare una siffatta preghiera, la cui umiltà è, invece, esclusiva dotazione degli ultimi fra gli ultimi.

L'argomento del romanzo, di questo variopinto, religiosissimo dramma siciliano secentesco, è cosa molto trattata dagli autori moderni (Bufalino e Vassalli in primis), ma qui assume dei guizzi di originalità non sottovalutabili perché, al di là dell' (azzeccato) uso di vocaboli dialettali, raramente credo si sia letta in Italia un'opera narrativa lunga interamente incentrata sul problema dell'interpretazione del linguaggio scritto ed orale - per di piú estendendo tale eterno problema al dilemma concernente il rapporto fra giustizia umana e giustizia divina (punto di forza dell'opera).

Per quanto riguarda lo stile e la sintassi adoperati, potrei solo suggerire a Simona Lo Iacono che in molti casi le sue bellissime (ed originali) suggestioni poetiche e la leggibilità del testo in genere, non avrebbero assolutamente perso forza anche se espresse evitando le eccessive cesure del testo, ovvero la prosa ritmica di tipo paratattico - faccio un esempio: ''Se è fuggito non resta che fuggire. Se l'ha lasciata non resta che cercarla. Anche se non sa nemmeno che direzione prendere, Francisca, che nome invocare''. Ecco, qui, con delle virgole o dei punto e virgola al posto dei punti fermi il risultato sarebbe stato uguale, a mio avviso, ottenendo dei periodi piú complessi e strutturati, piú discorsivi diciamo (i soggetti delle frasi erano presenti già prima e sottintesi, dunque non costituiscono un ostacolo). Ma queste ultime sono osservazioni del tutto marginali... magari motivate dal mio attaccamento alla prosa di autori come Brancati o Calvino e a stilemi pienamente narrativistici.

Questo romanzo storico, ambientato nella Sicilia (a Bronte) del Seicento e tutto al femminile, resta un'opera prima notevole, soprattutto in quanto tentativo di compendiare il ritmo (endecasillabico o a verso libero?) del cuore con la fluidità prosastica della trama. Cosa già fatta, certo: ma solo secoli fa. Eccitante rivedere cose simili nell'era della banalità tecnologica e della confusione, in cui il Manzoni ci manca poco che diviene, agli occhi di tutti, Piero Manzoni – quello della ''Merda d'artista'', qualcuno se lo ricorderà, purtroppo.

Una piccola nota va infine inclusa nella presente recensione: una maggior attenzione alla lettura delle bozze finali l'editore avrebbe dovuto mettercela, cosí scongiurando qualche manciatella di refusi che purtroppo compare qua e là nel testo – pur non dando alcun serio fastidio alla lettura... Dopotutto l'amore per le parole belle (e queste di Lo Iacono lo sono veramente) andrebbe messo in pratica anche dagli editori, per mezzo della propria attenzione alla precisione tipografica dei testi.

 

 

Sergio Sozi

 

 

 
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