Virgilio
e le Georgiche
di Renzo Montagnoli
E' il 39 a.C.
quando Virgilio termina le Bucoliche, la sua opera prima, frutto unicamente di
un desiderio spontaneo di parlare di un mondo legato a quella natura delle sue
terre di cui conserva sempre in cuore la memoria. Questo lavoro ha un immediato
successo, probabilmente anche assai superiore alle più rosee attese del suo
autore. La perfezione stilistica, quasi maniacale, il tema trattato sono
elementi di tale rilevanza che ben presto le Bucoliche saranno adottate come
libro di testo.
Il periodo non è quieto e dopo la morte di Cesare le lotte
intestine per il potere sono fratricide e sanguinose, benché il trattato di
Brindisi, del 40 a.C, fra
Ottaviano e Antonio facesse sperare in un periodo di pace. Dal 39 al 36 Sesto Pompeo combatte una guerriglia, con incursioni piratesche,
contro il regime dei triumviri, in una situazione d'incertezza acuita dalle
continue pressioni dei Germani sul Reno.
E' quindi un'epoca ancora infelice, dominata dall'incertezza, dal
progressivo depauperamento delle attività economiche, che, notoriamente, per
prosperare hanno bisogno di un periodo di stabilità. I primi segni di
un'inversione di tendenza si hanno nel 35 a. C. , quando
Lepido, deposto il titolo di triumviro, lascia di fatto a Ottaviano l'influenza
su tutto l'occidente, mentre Antonio, dopo l'infausta spedizione contro i
parti, si ritira in Egitto. Occorreranno però altri 4 anni di guerre per
arrivare nel 31 a.C.
alla famosa battaglia di Azio, che vede la definitiva
affermazione di Ottaviano, ormai solo al potere.
E il nostro Virgilio che fa in questi anni?
Proprio nel 39 a.
C. entra in rapporto a Roma con il circolo culturale che fa capo a Mecenate e
poiché questi è un sostenitore di Ottaviano Virgilio ha la possibilità di
conoscere il futuro imperatore.
Quell'anno presenta un'altra particolarità, addirittura
rivoluzionaria per l'epoca, poiché Asinio Pollione,
amico del nostro poeta, a cui aveva dedicato ben tre Egloghe, apre nell'atrio
del tempio della Libertà la prima biblioteca pubblica romana. E' un segno
importante, il desiderio che la cultura non sia esclusivamente classista e solo
un personaggio autorevole e indipendente come Pollione poteva darlo, politico
tanto influente che, benché sostenitore di Antonio, dopo la sconfitta di questi
non ebbe a temere conseguenze.
L'entrare nelle grazie di Mecenate, consigliere di Augusto, ricco
di famiglia e liberale, aperto alle arti e alle idee, è indubbiamente un colpo
di fortuna per Virgilio, anche se vi è da dire che l'incontro non è senz'altro fortuito, ma stimolato, quasi imposto dall'anfitrione che
ama circondarsi dei migliori artisti del momento, tanto che alla sua tavola
siedono anche Orazio e Properzio. Diciamo pure che in
casa di questo nobile di origine etrusca si coltiva la cultura ai massimi
livelli e quindi l'autore delle Bucoliche non poteva, né doveva essere assente,
anzi su di lui Mecenate ha dei disegni precisi. Consapevole delle elevate
qualità del poeta mantovano ha deciso di sfruttarle a beneficio di quel
concetto di stato, possente ed eterno, per il quale lui e Ottaviano si stanno
da tempo attivando.
Le guerre civili, l'incertezza dei tempi hanno provocato
contraccolpi seri sull'economia e in particolar modo una disaffezione per
l'agricoltura, determinante, allora come ora, per il benessere e l'equilibrio
dello stato. I campi spesso sono abbandonati o mal coltivati, frequentemente le
terre date ai veterani in compenso del loro servizio risultano poco sfruttate,
proprio per l'inattitudine dei loro nuovi proprietari. Occorre quindi porre
rimedio, richiamare i Romani alla dedizione alla terra, insegnare loro a trarne
il massimo profitto, ma le parole espresse a voce hanno poco effetto, e allora
occorre qualche cosa di scritto, ma grandioso, che
sappia unire la parte didattica a quella letteraria in una fusione perfetta.
Chi, meglio di Virgilio, figlio di un agiato proprietario terriero, così legato
al suo ambiente agricolo da cantarlo nelle Bucoliche, può quindi riuscire
nell'impresa?
Mecenate gliene parla, probabilmente lo stimola anche sotto il
profilo delle sue memorie, gli promette gloria, onori e denari.
Virgilio accetta alla condizione di non porre limiti di tempo e di
lasciargli una certa indipendenza nella stesura, in modo che l'opera non sia
solo didascalica, ma anche letteraria.
Mecenate non ha obiezioni, perché è esattamente quello che spera.
E' l'anno 37 a.
C. e il nuovo lavoro terrà impegnato Virgilio per ben sette anni, trascorsi per
lo più a Napoli, città che adora.
E' un periodo di lavoro diviso sostanzialmente in due fasi, la
prima potremmo definire di ricerca delle conoscenze indispensabili per
l'attività didattica (come si coltiva, quando si semina, come combattere i
parassiti, ecc. ) e la seconda di stesura vera e propria, dove deve emergere,
ed emergerà, il genio dell'autore.
Nel 29 a.
C. la nuova opera che ha come titolo Georgiche (dal greco georgéin,
cioè lavorare la campagna), è
finalmente terminata e Virgilio le legge ad Ottaviano, che di ritorno
dall'Oriente, ha fatto sosta ad Atella, in Campania.
E' possibile solo immaginare lo stato emotivo dell'autore, in piedi o seduto
davanti al vincitore assoluto (Ottaviano, tornato a Roma, celebrerà uno
splendido trionfo), mentre legge ad uno ad uno i 2.183
esametri che compongono i 4 libri del nuovo poema. Virgilio è sempre stato, per
natura, abbastanza taciturno, uno di quelli che sembra far fatica a parlare, ma
qui forse la cosa è diversa, qui si tratta infine di declamare il risultato del
suo lungo lavoro.
E' più che logico supporre che
Ottaviano abbia gradito molto l'opera, tanto che lo stesso anno Virgilio inizia
a comporre l'Eneide, il poema che lo impegnerà fino alla morte, ma questa è
altra storia e senza disconoscere nulla a quel testo fondamentale per la
cultura romana e mondiale, al punto che ancor oggi lo si studia, ritorniamo
alle Georgiche.
Ho scritto prima che si tratta di 4
libri per complessivi 2.183 esametri, forma metrica che ben si adatta a un
poema epico-didascalico quale è appunto quello di cui
si sta dissertando.
Ognuno dei quattro volumi tratta
un'attività specifica del contadino; i quattro libri sono divisi in due coppie,
dedicate, rispettivamente, alla coltivazione e all'allevamento. Nell'ambito
della prima coppia, il primo volume tratta del lavoro dei campi, mentre il
secondo della coltivazione delle piante, con particolare attenzione per quelle
tipiche della zona mediterranea, come la vite e l'ulivo; nella seconda coppia
l'allevamento del bestiame più grosso, o nobile, cioè dei bovini e degli equini
è distinto da quello del bestiame “minuto”, quali le api, alle quali è dedicato
interamente il quarto volume. Strutturalmente, come impostazione, ogni libro
inizia con un prologo e
termina con una favola mitologica o con l'esposizione di un fatto storico.
Benché la finalità dell'opera sia
didascalica, Virgilio riesce a creare un capolavoro di pura poesia e di rara
bellezza.
Inoltre, è doveroso riconoscere che un
lavoro puramente didattico, se pur valido, non avrebbe potuto conferire al
poema il senso ideologico che gli è proprio. Ecco quindi l'importanza dei
proemi e dei brani finali di ciascun libro, nonché delle digressioni talmente
ben armonizzate nella struttura da apparire quasi naturali, insomma tutt'altro
che digressioni.
Le Georgiche sono dedicate a Mecenate,
e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che il protettore ne era
l'ispiratore e che aveva caldeggiato, probabilmente ricorrendo anche a
lusinghe, l'intero lavoro; del resto, lo stesso Virgilio non nasconde la
circostanza tanto che terzo libro fa un cenno agli haud
mollia iussa, vale a
dire le ripetute insistenze del nobile di origine etrusca, peraltro assai
prodigo con i letterati che stimava, ma che portavano anche acqua al suo mulino
di consigliere prima di Ottaviano, e poi di ministro dello stesso.
E' curioso notare che vi furono due
edizioni dell'opera, la prima appunto nel 29 a.C e l'altra dopo il 26 a.C, in cui Virgilio sostituì con la favola di Orfeo e Euridice l'elogio per il poeta Gallo, che si era tolto la
vita in Egitto dopo aver perso i favori di Ottaviano. Quella giunta fino a noi
è appunto la seconda ed è di questa pertanto che di seguito parleremo.
Come si è detto l'opera consta di
quattro libri; di seguito ne parlo.
Libro I
In premessa troviamo una dedica
all'ispiratore, a Mecenate, ma poi si parla subito del lavoro dei campi,
riguardo al quale c'è già una doverosa precisazione, una digressione è
possibile anche chiamarla, che entra di diritto a far parte del senso
ideologico ed è quando scrive che al lavoro gli uomini sono obbligati da una
dura legge imposta da Giove e che prima di lui invece regnava
l'età dell'oro.
…
Prima di Giove non v'erano agricoltori a lavorare la terra,
e neanche si poteva segnare i confini
dei campi e spartirli;
tutti gli acquisti erano in comune, la terra
da sé donava,
senza richiesta, con grande liberalità,
tutti i prodotti.
Egli aggiunse il pericoloso veleno ai tetri serpenti,
e volle che i lupi predassero, che il
mare si agitasse,
e scosse il miele dalle foglie e nascose
il fuoco
e fermò il vino che fluiva sparso in
ruscelli,
affinché il bisogno sperimentando a poco a poco
esprimesse
le varie arti e cercasse la pianta del
frumento nei solchi
e facesse scoccare il fuoco nascosto
nelle vene della selce.
….
E' certamente una dura realtà il
lavoro, ma non è imposto da un uomo agli altri uomini, bensì da Giove, cioè da
un Dio, affinché gli uomini acquisiscano il talento per ottenere ciò che prima
avevano senza fatica. In poche righe si fonde la necessitò del lavoro con la
nobiltà dello stesso, perché imposto da una divinità e perché gratificante per
chi lo compie in quanto frutto delle sue capacita, insomma un segno distintivo
che nobilita lo sforzo quotidiano. Vi è da rilevare che l'opera è destinata
soprattutto ai proprietari terrieri per tradizione e che quindi la loro fatica
è da intendersi più come organizzazione dell'impresa che come materialità del
lavoro, in tali casi destinato agli schiavi. Ciò non toglie tuttavia che
benefici di questo spirito ideologico anche il militare reduce da tante guerre
e che si è visto assegnare, come buonuscita, un po' di terra, che non di rado
dissoda e coltiva insieme ai servi. Da questi esametri discende quindi il
famoso detto che il lavoro nobilita l'uomo.
Nel parlare poi dei pronostici del
tempo, indispensabili per le colture, approfitta Virgilio per una digressione
relativa ai prodigi accaduti dopo l'assassinio di Cesare.
…
La Germania udì uno strepito d'armi in tutto il cielo,
e le vette delle Alpi tremarono di moti
inattesi.
Anche un immenso grido fu udito spesso
Nei boschi silenti, e nell'oscurità della notte
Apparvero fantasmi paurosamente pallidi, e le bestie
(parlarono
- prodigio! – si arrestano i fiumi, la terra si apre,
e lagrima nei
templi il mesto avorio e sudano i bronzi.
…
Sono versi di grande efficacia, di
immediata presa sul lettore, perché, oltre a riuscire a ingenerargli immagini,
ricreano un'atmosfera densa di esecrazione per il brutale omicidio di Cesare,
quasi asceso con la sua morte alla figura divina.
A voler esser maligni, in tal modo si
giustifica chi eliminò i congiurati e si gettano i prodromi per dimostrare che
i vendicatori, o meglio il vendicatore, visto che era rimasto solo Ottaviano,
era il degno successore del conquistatore delle Gallie,
per diritto terreno e anche per scelta divina.
Libro II
Si tratta esclusivamente della coltura delle
piante, delle loro varietà, dei lavori necessari, dei climi, dei terreni, con
particolare riguardo a quelle tipicamente mediterranee come la vite e l'ulivo.
All'inizio, può sembrare scontato, c'è un'invocazione a Bacco.
Fin qui la coltivazione dei campi e le stelle del cielo;
ora canterò te, o Bacco, e con te i
virgulti
silvestri e i rampolli dell'ulivo che cresce
lentamente.
…
Sono toni e versi decisamente poetici
che ben introducono e predispongono alla vera e propria parte didascalica,
assai ben realizzata, mai greve, anzi assai snella al punto che lettura e
apprendimento diventano egualmente gradevoli. Non manca anche un accenno alla
terra natia e alla perdita dei campi a vantaggio dei veterani di Filippi, più
ampiamente trattata e lamentata nelle Bucoliche.
…
Se ti sta più a cuore curare armenti e vitelli
o agnelli e capretti che devastano i
seminati,
cercherai le balze e i lontani luoghi della
feconda Taranto,
o una campagna quale perse la sventurata
Mantova,
e pasceva in erbosi corsi d'acqua candidi
cigni;
….
In questo libro tuttavia rivestono una
particolare importanza ben tre digressioni, quella nel corpo della coltivazione
delle piante e che è una lode dell'Italia
….
Ma la terra dei Medi ricchissima di vegetazione boschiva,
e il maestoso Gange e l'Ermo opaco d'oro
non gareggiano con le glorie dell'Italia,…
…
Con l'inclusione da parte di Augusto
nel territorio Italico delle Gallie si ha una
situazione dello stivale assai analoga all'attuale, mentre prima notoriamente a
nord si arrivava al massimo alla linea Magra-Rubicone.
Si può dire quindi che l'Italia è tale da oltre duemila anni e che già allora
costituiva una meraviglia tale da incantare un poeta come Virgilio, il primo di
tanti, anche esteri, che vedranno nel nostro paese quasi un paradiso terrestre.
La seconda digressione si ha dove si
parla della coltivazione della vite e sono lodi della primavera.
….
La primavera è propizia alle fronde, propizia alle foreste,
a primavera le terre si gonfiano e
chiedono semi produttivi.
Allora l'onnipotente padre Etere discende con fertili
piogge nel grembo della lieta sposa, e
grande,
commisto al grande corpo, genera tutti i
frutti.
….
E' appena il caso di rilevare la
metafora per la rigenerazione della terra, con il concepimento a cui interviene
una divinità di origine greca, quell'Etere che altri non era se non una divinizzazione
dell'atmosfera nella sua parte più alta, in pratica dell'aria purissima che
solo gli dei potevano respirare.
Particolare poi è la dinamicità della
scena descritta, tale da assorbire completamente l'attenzione del lettore a cui
pare di assistere a una copula fra il cielo e la terra.
La terza digressione è nell'ambito
della parte che tratta della coltivazione delle piante di particolare
interesse, quali l'ulivo e il melo, ed è costituita dalle lodi della vita
agreste.
…
O troppo fortunati, se comprendono i loro beni,
gli agricoltori! ai
quali lontano dalle armi discordi
la terra giustissima produce agevole
vitto dal suolo.
…
Hanno una sicura pace, una vita ignara d'inganni,
ricca di vari beni, un riposo in ampi
terreni,
grotte e vivi laghi, fresche vallate
e muggiti di buoi e dolci sonni sotto
gli alberi,
…
E' certamente una visione bucolica, di
una vita semplice, ma anche quieta, regolata dall'alternarsi del giorno e della
notte, nonché delle stagioni, un chiaro invito a ritornare alle terre a chi le
aveva lasciate per trovare rifugio nelle opulente, ma
nevrotiche città.
Libro III
Vi si parla dell'allevamento del
bestiame grosso, cioè dei tori, delle vacche e degli equini, nonché di quello
piccolo, ma non meno importante, quali gli ovini, gli animali da cortile, ecc.
Inizia con l'invocazione alle divinità
pastorali, anche perché il tema trattato è un po' diverso da quello delle
colture ed è pertanto necessario trovare un nuovo percorso per arrivare alla
gloria, così che Virgilio ritornerà alla natia Mantova e al suo fiume Mincio,
sulle cui rive innalzerà un tempio in onore di Ottaviano.
…
… Per primo, tornando in patria, se vita mi basti,
condurrò con me le Muse, trattele dal vertice aonio;
per primo, o Mantova, ti riporterò le palme idumee
e in un verde campo edificherò un tempio
di marmo
vicino alle acque, dove il grande Mincio
scorre
in lente anse, orlato sulle rive da tenere
canne.
Al centro sarà Cesare, signore del tempio. Ed io
vincitore per lui e insignito della
porpora tiria,
sfrenerò cento quadrighe lungo il fiume.
…
Da notare il passaggio da una visione
elegiaca del luogo natio, dove la semplice perfezione della natura risalta in
poche misurate parole, all'impeto trionfale in onore di un Ottaviano già di
fatto divinizzato. Un incontro fra sacro e profano dove la sacralità è della
natura e la caducità dell'uomo in quest'atmosfera si trasforma, si sublima
nella figura del futuro imperatore.
Anche in questo libro esistono delle
digressioni, quella sull'amore
….
Ma certo si distingue tra tutti il furore delle cavalle:
Venere stessa ne istigò l'animo, il giorno che le quadrighe
potniadi divorarono a morsi le membra di Glauco.
Amore le guida oltre il Gargano, oltre il risonante
Ascanio, superano monti, attraversano fiumi.
…
Sono versi di notevole forza tesi a
dimostrare che nulla può fermare l'amore, soprattutto in queste cavalle che
fecero a pezzi un Glauco che impediva loro l'accoppiamento nel timore che
potessero perdere velocità e agilità. Quindi, l'aspetto sessuale è proprio
della natura e non può essere negato è quel che sembra dirci Virgilio.
E quella sulla peste degli animali nel Norico
…
Il turbine che s'avventa
sul mare portando tempesta non
(è fitto
come
le numerose malattie degli animali. I morbi
non
assalgono i corpi singolarmente, ma gli interi pascoli
(estivi
ad
un tratto, e il gregge, la sua speranza, e tutta la razza
(dal ceppo.
Bene lo sa chi vede le
aeree Alpi e i castelli
sulle
alture del Norico e i campi della iapide
Timavo,
anche
oggi dopo tanto tempo regni deserti
di
pastori, e balze vuote in lungo e in largo.
…
Ci si riferisce grosso modo al territorio dell'odierna Austria e
dell'Istria, funestato nei tempi remoti da un'epidemia di peste animale,
talmente violenta da far sì che anche anni dopo greggi di pecore e bovini
fossero in pratica inesistenti.
Libro
IV
Dei quattro questo secondo me è il più bello, oltre a essere il
più complesso per il significato metaforico che dà voce al messaggio politico e
ideologico dell'opera.
Inizia con l'apostrofe a Mecenate
Proseguendo, dirò del
dono celeste dell'aereo miele.
Volgi lo sguardo,
Mecenate, anche su questa parte.
Ti canterò mirabili
spettacoli di modeste cose,
e
i magnanimi capi, e, per ordine, l'indole
e
le attitudini di tutta una gente, e i popoli e le battaglie.
…
A prima vista sembrerebbe trattarsi di un poema evocativo di gesta
gloriose dei romani e invece in questo libro si parla solo dell'allevamento
delle api.
Ma se per completezza e attenzione è un trattato di altissimo
valore, non è difficile, esametro dopo esametro, rendersi conto che anche in
questo caso siamo in presenza di una metafora, se pur grandiosa.
Questi piccoli insetti, assai laboriosi, hanno
infatti una struttura societaria, caratterizzata dall'assoluta fedeltà
alla propria casa e alle norme che regolano questa convivenza, ognuna di loro
fa scrupolosamente il lavoro che le è stato assegnato, partecipando ali beni e
alle risorse comuni, disposta anche a morire nell'interesse di tutti,
manifestando sempre un'assoluta dedizione alla propria regina.
E' certamente una visione stoica, ma tutte le caratteristiche di
cui sopra si rispecchiano, in modo assolutamente fedele, nel più puro idealismo
di Ottaviano.
E così il libro non è solo un tributo al prossimo imperatore, ma è
anche lo stimolo affinché chi legge segua sempre l'esempio delle api.
Non a caso Virgilio ricorre a questi insetti, che sono così
positivi per natura. L'uomo, essere superiore, perché allora non dovrebbe
essere come loro? E' un chiaro messaggio politico volto a ricostituire, dopo
anni di guerre fratricide, una concordia nazionale intorno alla figura del
nuovo soggetto, pacificatore e garante dell'unità e della prosperità di Roma.
Il fatto che questo concetto venga espresso in un poema, non
direttamente, ma per via metaforica costituisce un'assoluta novità, perché
inaugura il condizionamento attraverso la parola scritta, un antesignano del
potere dei media che, purtroppo, possiamo verificare continuamente ai giorni
nostri.
E' indubitabile tuttavia la buona fede dell'autore che, più che
imporre, desidera rendere partecipi i lettori dell'avvento di una nuova era,
quella augustea, che lui ritiene la migliore in assoluto, quella più legata al
concetto di stato romano derivante dall'epoca repubblicana, una comunità di
cittadini intenti allo sforzo comune per il benessere reciproco.
Ma c'è anche un'altra chiave di lettura, ancora politica e un po'
filosofica, pure se gli effetti si eguagliano.
Poiché l'età dell'oro è solo un ricordo, quando addirittura non è
una fantasia, il lavoro necessario per vivere e che nobilita l'uomo non può
prescindere da una sua razionale organizzazione per uno scopo comune, demandata
a uno solo, affinché le sue decisioni siano univoche e uguali per tutti. Costui
rappresenta i cittadini e come tale è il pilastro dello stato, senza il quale
ben presto tutto crollerebbe. Non è più tempo per triumviri, per decisioni
frutto di mediazioni, che portano a dissidi, e quindi l'unico capo è la
migliore soluzione possibile, tanto più se questi è una persona di grandi
capacità e personalità come Ottaviano.
E' indubbio che una simile finalità abbia incontrato gli
entusiastici favori di Mecenate, consigliere e poi ministro del futuro
imperatore; Virgilio, infatti, nella stesura dell'opera era andato addirittura
oltre gli scopi per i quali essa era stata ideata, un risultato di grande
rilievo, soprattutto in un momento in cui era indispensabile che i Romani
ritrovassero quell'unità da tempo smarrita.
Era terminato un periodo e ora se ne doveva iniziare uno nuovo, ma
era necessaria la partecipazione di tutti, sotto un'unica illuminata
guida. E questa idea era stata portata
avanti nel poema con grande efficacia, non esponendola direttamente, ma
attraverso una metafora di grande bellezza che non poteva non conquistare il
lettore.
Anche qui ci sono delle digressioni, due per l'esattezza.
Virgilio vorrebbe infatti anche cantare
dell'arte del giardiniere e dell'orticultore, ma è materia troppo specialistica
per lui, che preferisce rinunciare, sperando che chi verrà dopo di lui possa
occuparsene. Ciò nonostante, non può fare a meno di parlare, come emblema della
bellezza di quest'arte, del sereno episodio del vecchio di Còrico.
E davvero se già sul
finire della mia fatica non dovessi
(raccogliere
le
vele e affrettarmi a dirigere la prua a terra,
forse
canterei anche la cura del coltivare i floridi orti,
i
rosai di Pesto che fioriscono due volte l'anno,
come
l'indivia si compiaccia di abbeverarsi ai ruscelli,
e
le verdi rive godano dell'apio, e attorto fra l'erba
cresca
sul ventre il cocomero;…
Infatti
ricordo sotto le torri della rocca ebalia,
per
dove il bruno Galeso bagna bione
coltivazioni,
di
aver veduto un vecchio di Corico, che possedeva
pochi
iugeri di terra abbandonata, infeconda ai giovenchi,
inadatta
alla pastura di armenti, inopportuna a Bacco.
Questi, tuttavia,
piantando radi erbaggi fra gli sterpi,
e
intorno bianchi gigli e verbene e il fragile papavero,
uguagliava
nell'animo le ricchezze dei re, e tornando a casa
a
tarda sera colmava la mensa di cibi non comprati.
…
Un uomo può essere felice anche con poco, quando da quel poco
sappia trarre tutto quello che può dare; in buona sostanza è questo
l'insegnamento che si ritrae da questa digressione, ma a voler cercare la
malizia potrebbe anche significare che ognuno deve essere contento di ciò che è
e di quel che ha, insomma un pensiero teso a pietrificare, rendendole
immutabili, le classi sociali.
La seconda digressione è la lunga favola dell'invenzione di Aristeo, che fa da cornice alla vicenda di Orfeo che
discende negli Inferi al fine di richiamare in vita l'adorata sposa Euridice.
Per l'artifizio di Aristeo, vale a dire
il metodo per riprodurre gli sciami delle api dai cadaveri delle bestie in putrefazione
il collegamento a quanto prima scritto in ordine all'allevamento di questi
insetti è puntuale e raccordato in modo del tutto preciso.
…
Ciò quando gli Zefiri
cominciano a sospingere le onde,
prima che i prati
risplendano di nuovi colori,
e
la garrula rondine sospenda il nido alle travi.
Intanto nelle ossa
disfatte ribolle l'umore intiepidito,
e
animali, tutti da vedere, di straordinaria foggia,
prima
privi delle zampe, poi stridenti di penne,
brulicano,
e sempre più invadono la tenue aria,
finché
erompono come pioggia effusa da nuvole
estive
o come frecce scagliate da un arco
quando
i veloci Parti si gettano nei primi scontri.
Chi, o Muse, qual dio ci
forgiò una simile arte?
Di dove cominciò questa
nuova esperienza degli uomini?
Il pastore Aristeo, fuggendo dalla penea Tempe,
perdute,
come raccontano, le api per freddo e per fame,
si
fermò afflitto alla sacra sorgente del fiume,…
Da rilevare, la straordinaria grazia con cui è descritta la
primavera, in aperto e voluto contrasto con l'orrida scena delle carcasse
d'animali, ancora una metafora della vita che segue alla morte, un lungo
infinito cerchio che nei disegni del divino porta una naturale rigenerazione,
un concetto diffuso all'epoca e che trova in Virgilio la sua puntuale applicazione
nella memoria delle
sue origini celtiche.
Nell'ambito del lungo racconto dell'invenzione di Aristeo si innesta il mito di Orfeo ed Euridice,
tanto caro agli antichi, e qui riportato per rafforzare il concetto di
Anassagora, secondo il quale “Nulla si crea, tutto si trasforma, nulla si
distrugge”. La morte non è che un passaggio e dai corpi inanimati nasce nuova
vita.
Il tono usato nel raccontare il dolore di Orfeo per la perdita
della sua Euridice raggiunge vette di sublime
bellezza.
….
Ella certo navigava ormai
fredda sulla barca stigia.
Raccontano che per sette
mesi continui egli pianse,
solo
con se stesso, sotto un'aerea rupe presso l'onda
dello
Strimone deserto, e narrava la sua storia nei gelidi
antri,
addolcendo
le tigri e facendo muovere le querce con il
( canto:
come
all'ombra di un pioppo un afflitto usignolo
lamenta
i piccoli perduti, che un crudele aratore
spiandoli
sottrasse implumi dal nido: piange
nella
notte e immobile su un ramo rinnova il canto,
e
per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti.
Nessun amore o nessun
connubio piegò l'animo di Orfeo.
…
Sono versi che riflettono un acuto lirismo, frutto della
metabolizzazione di una vicenda mitologica che l'animo sensibile di Virgilio
aveva recepito nella consapevolezza che l'amore può diventare un sentimento di
intenso dolore, che quella
che è la felicità dell'oggi può tramutarsi nella pena di domani. I sentimenti
forti hanno sempre come contrapposizione patimenti altrettanto grandi.
L'opera termina in modo inusuale per Virgilio
…
Quando cantavo sulla cura
dei campi e del bestiame,
e
sugli alberi, mentre il grande Cesare presso il profondo
Eufrate fulmina in guerra
e vittorioso dà leggi
Ai popoli consenzienti e
si apre la via dell'Olimpo.
In quel tempo me Virgilio nutriva la dolce
Partenope,
sereno fra opere di un'oscura quiete:
io
che rappresentavo la poesia dei pastori, e, audace di
(giovinezza,
io
cantai, o Titiro, all'ombra di un ampio faggio.
Viene naturale chiedersi il perché di questo epilogo
autobiografico, veritiero nella parte in cui Virgilio parla di se stesso, ma
falsato allorché presenta riferimenti a Cesare, che poi è Ottaviano, in quanto
in quel periodo non ci furono eventi bellici, se non una spedizione di
Ottaviano in Siria volta più che altro a dimostrare la potenza di Roma.
Il motivo assai probabilmente risiede nel fatto che Virgilio,
proprio grazie a Ottaviano, era riuscito a ottenere, a titolo di risarcimento
per le terre mantovane a suo tempo confiscate e date ai reduci di Filippi, un
idoneo podere proprio in Campania nei pressi di Napoli.
C'è poi anche un senso di autocompiacimento, espresso negli ultimi
quattro versi, una specie di sigillo con il quale il poeta firma l'opera,
dichiarandosi, orgogliosamente, responsabile di quanto in essa contenuto.
In un autore che già aveva acquisito grande fama con la sua opera
prima appare del tutto naturale questo finale in cui, non dimentico dei favori
ricevuti, tuttavia rivendica la paternità di un poema che sa già essere qualche
cosa di straordinario.
A questo punto, ritengo doverose alcune considerazioni, non senza
aver prima ricordato che Virgilio poi si dedicherà unicamente all'Eneide, sulla
quale mi auguro un giorno di scrivere.
Ci troviamo di fronte a un'opera dalla perfezione stilistica e
strutturale che ha dell'incredibile. E' noto che Virgilio era assai meticoloso,
mai contento dei suoi lavori, che continuamente limava e rivedeva, ma nelle
Georgiche si toccano livelli mai poi raggiunti.
Il ricorso all'esametro, particolarmente indicato per poemi epici
o didascalici qui è frutto di un'applicazione senza precedenti.
…
Nec tamen,
haec cum sint hominumque boumque latore
Versando terram experti, nihil improbus anser
Strymoniaeque
grues at amaris intiba fibris
Officiunt
aut umbra nocet, pater ipset
colendi
haud
facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
…
Di seguito la traduzione di Elvio Natali:
…
Eppur dopo tante fatiche di uomini e buoi
nell'arare
la terra, ecco allora che l'oca vorace
fa
danno, lo fanno le gru della Tracia e l'amara
cicoria
con le sue fibre, e se l'ombra v'aduggia.
Anche il Padre non volle
che facile fosse la via
pei
coloni, e per primo con arte rimosse i terreni
pungendo
d'affanni nel cuore i mortali né volle
che
in ozio pesante il suo regno perdesse vigore.
…
Sono versi che scorrono fluidi, senza intoppi, né un momento di
stasi, ma un continuo costante ritmo che nella sua pacatezza assorbe il
lettore.
L'esametro, come noto, è costituito da sei piedi dattilici (metri)
e presenta la possibilità di sostituire le due sillabe brevi con una lunga.
Virgilio plasma l'esametro a suo uso e consumo, come uno strumento per una
narrazione lunga e complessa, dove ricorrono pacate descrizioni, ma dove vi
possono anche essere fasi concitate, rese possibili dal ricorso a cesure e a
pause.
Strutturalmente i quattro libri di cui è composta l'opera sono in
perfetto equilibrio, anche grazie alla simmetria utilizzata, e si prestano a
essere letti uno indipendentemente dall'altro, a
secondo della necessità di chi vuole apprendere.
A tal riguardo vi è da considerare che la parte didattica, anche
se oggi può far sorridere, è il frutto di un lungo e
meticoloso lavoro di ricerca, basato su altri testi specifici. Si dà per certo
che consultò il De agri
cultura di Catone, il De re
rustica di Marrone, le Opere e i
Giorni di Esiodo e altri testi latini e greci. Inoltre si documentò
chiedendo ad agricoltori e osservando la vita nei campi, in quanto lui, benché figlio di coltivatori della terra, non aveva mai messo mano
a questa attività.
La vita descritta è quindi reale e non di mera fantasia come nelle
Bucoliche e, benché la creatività lo abbia aiutato nelle descrizioni dei
paesaggi, si avverte chiaro che questi erano stati effettivamente osservati
dall'autore.
L'influsso celtico è ancora più evidente con quella visione di
animali e di piante considerati del tutto simili all'uomo, con analoghi
sentimenti.
Ho già scritto sopra delle finalità dell'opera che, grazie al
genio di Virgilio, travalicarono i suggerimenti di Mecenate, con una visione
dell'umanità certamente asservita al potere imperante, ma anche del tutto
universale, una comunità coesa, laboriosa, tutta rivolta al bene comune, come
le api, appunto.
E' possibile immaginare le positive reazioni di Ottaviano quando
ascoltò la lettura dei versi, incombenza che si assunsero, a turno Virgilio e
Mecenate, nell'arco di ben quattro giorni.
Questo contadino mantovano, di non nobili origini, aveva
realizzato l'opera perfetta, ma non solo questo, perché aveva compreso la vera essenza della
sua politica, della sua visione del mondo. Non era un guerriero, né un retore e
nemmeno un politico, ma aveva magistralmente tradotto in lettere la sua
ideologia.
Chi meglio di lui avrebbe potuto immortalare Roma e dare un senso
divino a quella corona che da lì a poco si sarebbe apprestato a metter sul
capo?
Fu probabilmente in quell'occasione che a Virgilio fu proposto di
scrivere un grande poema, una storia da restare nella storia: l'Eneide.
Fonti:
Publio Virgilio Marone – Georgicon – Traduzione di Elvio Natali – Maschietto & Musolino;
Publio Virgilio Marone – Georgiche –
Traduzione di Luca Canali -
BUR;
Publio Virgilio Marone – Bucoliche –
Traduzione di Luca Canali – BUR;
Renzo Montagnoli – Il giovane Virgilio – Arteinsieme;
Wikipedia.