Il venti di luglio di Alexander Lernet-Holenia, Adelphi
Alexander Lernet-Holenia uno scrittore da riscoprire
Forse non è un autore noto al grande pubblico Alexander Lernet-Holenia
(1897-1976), di cui Adelphi sta pubblicando l'opera omnia, ma chi si accinge a
leggere, nella traduzione di Elisabetta Dell'Anna Ciancia, il trittico “Il
venti di luglio” (pp.112, euro10) formato dai racconti, apparsi per la prima
volta tra il 1933 e il 1960, non può non restare incantato dalla finezza
letteraria di questo scrittore. Ad aprire la silloge è “Maresi”,
la commovente storia di un ex ufficiale imperialregio,
caduto in bassa fortuna, un déraciné che, ormai sbandato, uccide la bella
giumenta – che nei suoi tempi di ricchezza – gli era appartenuta, perché non
sopporta la vista di un vetturino che la maltratta e la sevizia. Verrebbe, a
questo proposito da ripensare al celebre episodio dell'avventura torinese di
Nietzsche, quando s'inginocchia ad abbracciare il cavallo fustigato dal
vetturino. Poeticissimo, anche se per alcuni versi inverosimile, questo primo racconto, visto che
nessun giudice – a nostro avviso – sopporterebbe una tirata di trentotto pagine
a discolpa del colpevole, dato che, notoriamente, i magistrati hanno fretta e
si attengono ai dettami di legge, piuttosto che alla voce del cuore. Ma nei romanzi – soprattutto se ben scritti – tutto può succedere,
dandoci opportunità di leggere: “Il giudice si alzò in piedi. Con quattro parole borbottate in fretta dichiarò assolto
l'imputato”.
“Il venti di luglio” che dà il titolo alla breve silloge, in tempi passati, ha
avuto ben tre trasposizioni cinematografiche e non ci fa meraviglia, tanto è
ben congegnata la trama, densa anche di ironia e di grande introspezione
psicologica. Il 20 di luglio del 1944 è appunto una data fatidica, ovvero il
giorno del fallito attentato a Hitler. Ed è proprio nell'atmosfera inquietante
di quell' “ora fatale dell'umanità” che si svolge una
trama più che coinvolgente e magistralmente architettata. Teatro dell'azione,
come per gli altri due racconti, è ancora Vienna. Qui, Elizabeth, una signora
dell'alta società, protegge Suzette un'amica ebrea,
rimasta vedova di un marito ariano, un intellettuale docente universitario.
All'insaputa di tutti, corre il grave rischio di nasconderla a casa sua. A
causa di un procurato aborto, l'amica muore. Qui avviene un grande colpo di
scena. L'improvvisa morte dell'amica costringerà Elizabeth a una paradossale
condizione di non-esistenza, ovvero di perdita della propria identità.
Ufficialmente defunta, dovrà piegarsi a una fuga in extremis, affidandosi a un
cinico ufficiale perdutamente innamorato di lei. Contro ogni aspettativa,
l'epilogo è a lieto fine, nonostante l'atmosfera torbida in cui si è dipanata
l'azione.
Il terzo, breve ultimo racconto “Il dio cieco” ci porta dentro una storia
crudele. Qui incontriamo l'invalido di guerra che, in un rapporto perverso col
suo cane guida, lo induce a perdere la fiducia “in un uomo che tuttavia non
aveva potuto smettere di amare”. E l'autore si domanda:”
Non era forse successa la stessa cosa anche a certi uomini e certi popoli che
avevano perso la fiducia nei loro dei”?
Grazia Giordani
www.graziagiordani.it