Virgilio insolito
di Renzo Montagnoli
Già avevo scritto delle Bucoliche
e delle Georgiche, ma un amico mi ha fatto presente che, trattandosi di
produzione letteraria meno conosciuta del grande poeta, sarebbe stato opportuno
riunire i due saggi in uno solo, in una soluzione di continuità che ben
evidenziasse l'importanza di questi due lavori, a torto meno noti dell'Eneide.
Perché rivestano un interesse del tutto particolare e notevole potrà essere
compreso nel corso della lettura. La capacità di Virgilio, infatti, di
precorrere i tempi, e di molto, è veramente unica e sorprendente, propria di
quel genio che era.
.*.*.*.*.*.*.
Gesù Cristo
deve ancora nascere e nella Roma repubblicana Pompeo e Crasso sono consoli per
la prima volta: è l'anno 70 a.C..
In un piccolo
borgo, poco distante dalla paludosa Mantova, nasce il 15 del mese di ottobre Publius Vergilius Maro,
figlio di un agiato proprietario terriero. Il fiume Mincio scorre dolcemente
fra i salici proprio vicino a casa e nessuno immagina che quel pargoletto
diventerà il più grande poeta latino.
Andes si chiama il luogo di nascita ed
esiste ancora oggi; anche se molto è cambiato ancora vi regna un'atmosfera
elegiaca, frutto della natura che si manifesta dolcemente con i campi ben
tenuti e ritmi di vita più lenti che consentono di soffermarsi a meditare sulla
grandezza del creato e sulla caducità degli uomini.
A onor del
vero c'è più di un sospetto che questo piccolo agglomerato di case non sia
proprio il luogo natale del
poeta, ed è proprio un passo delle Bucoliche, la sua opera prima, che fa
sorgere dubbi; infatti, nella nona ecloga il poeta localizza la proprietà di Menalca, verosimilmente la sua,
con questi versi: qua se subducere colles/incipiunt
mollique iugum demittere clivo (di dove i colli / cominciano a inclinarsi e il giogo a digradare in
dolce clivo.).
In effetti,
nell'Andes che si trova
vicino a Mantova, i colli non esistono, né ci sono mai stati: si può propendere
pertanto per una località sempre prossima al fiume Mincio, ma sita sui colli morenici. Non mi sembra
tuttavia che l'esatta identificazione del luogo natale sia essenziale per comprendere Virgilio,
perché artisti della sua qualità esulano da una territorialità, da cui
eventualmente traggono solo ispirazione, ma senza necessariamente presentare le
caratterizzazioni tipiche di certe zone, come inflessioni e modi di dire, che
in un eccelso non hanno riscontro.
Resta
comunque un elemento indubbio: Vergilius
non è un cittadino, ma un campagnolo; è abituato a vivere più fuori dalle mura
che dentro le mura, il suo ritmo di vita nell'infanzia è quello dettato dalle
stagioni, i suoi percorsi sono fra campi di grano e le sue soste sono in riva
al fiume, fra canneti ondeggianti e i mille rumori degli insetti e degli animali
che vi abitano.
Sono
dell'idea che, pur senza l'influenza di Teocrito,
avrebbe in ogni caso scritto dell'ambiente che lo circondava, di quella
serenità del tutto naturale che da adulto affermato costituirà un rimpianto, un
ricordo mai dimenticato.
Ma ritorniamo
a quel neonato che si affaccia su un mondo e in uno stato che ben presto
vedranno
anni di grande turbolenza, di vere e proprie guerre
civili.
Si sa molto poco della sua prima infanzia
e anzi le scarne notizie sembrano solo frutto di fantasie di letterati vissuti
molti anni dopo la scomparsa del poeta.
Esiste
tuttavia una data certa ed è il 58
a.C., quando l'adolescente Vergilius lascia la casa natia per andare a Cremona
per studiare grammatica. Nel 55
a.C., poi, indossa la toga virilis, di colore bianco o avorio, simbolo del
passaggio all'età adulta, e nella circostanza si reca a Milano, all'epoca la
città più importante della Gallia Cisalpina, per approfondire i suoi studi.
Non passa un
anno e muore Catullo, il più importante dei poetae novi, che, come noto, introdussero nella
poesia romana metodi e gusti di quella alessandrina. Il loro modo di poetare,
così innovativo, influenzò radicalmente il giovane Vergilius che, nel 53 a.C., è a Roma per seguire
le lezioni di retorica del maestro Elpidio, corsi in cui non eccelle e che lo
portano anzi alla convinzione di non essere adatto alla vita forense o a quella
politica. Infatti, ed è una caratteristica che sempre gli resterà, non ama
parlare a lungo, né declamare: è, insomma, un uomo che oggi si potrebbero
definire “di poche parole”.
Nel frattempo
il difficile equilibrio della repubblica subisce ulteriori scossoni,
dimostrando la fragilità di un progetto che assegna a più uomini il governo
dello stato. Già nel 53 a.C.
Crasso è sconfitto e ucciso dai Parti, l'anno dopo c'è l'assassinio di Clodio, agitatore della plebe, e
infine, trascorsi altri tre anni di incertezze, in un'atmosfera di sospetti,
scoppia la guerra civile fra Cesare e Pompeo.
Si sa come andò a finire: Cesare, occupata Roma, insegue Pompeo, lo vince a Farsalo e lo fa uccidere in Egitto. Tutto finito?
Ristabilito l'ordine? Assolutamente no, perché nel 46 e 45 a.C. Cesare è costretto a
eliminare i pericolosi focolai di resistenza pompeiana in Africa e in Spagna,
e, quando gli riesce, comprendendo che sono maturi i tempi perché governi un
solo uomo, chiede e ottiene che il Senato gli conferisca la dittatura perpetua.
Ma le Idi di Marzo si avvicinano e nel 44 a. C. i congiurati uccidono Cesare.
E il nostro
giovane Vergilius?
Poco si sa di
questo periodo: alcune fonti parlano di un suo soggiorno a Napoli per
frequentare il “Giardino”, la scuola epicurea di Sirone, mentre altre accennano a un suo prudente
ritiro nella sua proprietà di Andes.
L'unico fatto certo è che si tiene lontano dalla politica, tattica assai
proficua, visto l'andazzo dei tempi, con il formarsi di improvvise alleanze e
l'altrettanto rapido rovesciamento delle stesse. E' tuttavia più che probabile
che abbia trascorso questo difficile periodo in parte nella dimora natia e in
parte a Napoli, dove la frequenza della scuola epicurea parrebbe ormai
assodata.
Che si sia
trattato di anni in cui era più prudente defilarsi trova ulteriore elemento probatorio
nel fatto che anche gli uccisori di Cesare hanno vita breve e devono soccombere alla reazione del II triumvirato,
formato da Antonio, Lepido e Ottaviano. Inizia così un periodo di vendette,
promosse più da Antonio che dagli altri due, e la prima vittima è un
personaggio di primo piano, Marco Tullio Cicerone, strenuo difensore dell'idea repubblicana,
ma anche grandissimo autore di orazioni politiche e di scritti filosofici.
Ed è proprio
negli anni che vanno dal 42 al 39
a.C. che Vergilius
scrive Le Bucoliche, la sua prima opera che gli conferirà da subito una grande
fama.
“Bucoliche”
deriva dal greco βουκολικὰ, cioè “Canti di bovari”, e sono una
raccolta di componimenti formata da dieci ecloghe esametriche
con argomenti e intonazioni pastorali; ogni componimento è costituito da un
numero di versi fra 63 e 111, per un totale di 829 esametri. L'opera risente
dell'influsso callimacheo,
caratterizzata com'è dalla rigorosa perfezione formale, aspetto questo peraltro
sempre presente in tutti i lavori successivi di Vergilius che, di fatto, crea un'impronta di purezza
letteraria a cui presto tutti cercheranno di adeguarsi.
Sarebbe però
riduttivo vedere le Bucoliche solo come un'opera stilisticamente perfetta,
anche se lo è, ma occorre considerarne i contenuti, con quella continua ricerca
dell'equilibrio interiore che traspare nei versi, un equilibrio che raggiunge
celebrando la grandezza della natura attraverso la soavità del canto, una
conchiglia, uno scrigno pregiato come unico e autentico rifugio dai drammi
dell'esistenza.
Questo ritorno
alla purezza della natura, all'incanto della vita semplice costituisce una
novità assoluta per l'epoca e sembrerebbe confermare la presenza in Vergilius dell'anima celtica, un
antico retaggio che resiste nonostante la massiccia presenza della romanità,
non disgiunta tuttavia dall'influenza del greco-siculo Teocrito,
inventore quasi tre secoli prima della poesia bucolica.
In lui c'è
anche la sofferenza per quel distacco dalla terra natia per l'esproprio delle
terre, distribuite ai veterani nel 42-41 a.C. appunto dal II Triumvirato.
Ed è proprio
con questo evento drammatico che iniziano le Bucoliche e che sono l'unico tema
della prima ecloga.
Titiro/
V'è una città che chiamano Roma. Io
stolto, o Melibeo, / la credetti simile alla nostra, dove
noi pastori / spesso usiamo avviare la tenera prole del gregge: / così conoscevo
i cuccioli simili ai cani, i capretti / alle madri; così solevo
paragonare il piccolo al grande. / Ma questa città sollevò tanto il capo tra le
altre, / quanto sogliono i cipressi tra i molli viburni.
Nella seconda ecloga invece Vergilius rivela la sua indole, perché vi viene
cantato l'amore omosessuale (Formosum pastor
Corydon ardebat Alexin,
/ delicias domini; nec quid sperare habebat.) ( Il pastore Coridone ardeva per il bellissimo Alessi, / delizia
del suo padrone; ma non aveva nessuna speranza.). E' un canto bellissimo,
in cui la disperazione dell'innamorato respinto assume toni struggenti nel
contrasto fra la vita opulenta che può offrire il padrone animato più dalla
lussuria e l'incanto del contatto con la natura che sola può esaltare i sentimenti
( O crudelis Alexi,
nihil mea carmina
curas? / nil nostri miserere? Mori me denique coges.
/ Nunc etiam pecudes
umbras er frigora
captant, / nun virides etiam
occultant spineta lacertos;) (O
crudele Alessi, nulla curi il mio canto? / non hai compassione di me? Infine mi
farai morire. / Ora persino i greggi prendono l'ombra e il fresco, / ora i
roveti nascondono le verdi lucertole;)
La terza ecloga presenta la caratteristica di uno
stornello, alternato, fra due contendenti.
E' possibile
ipotizzare una tenzone poetica, nella quale Menalca impersona Virgilio e la sua “nuova” poesia.
Ci sono personaggi reali, quali Asinio
Pollione, che si occupa anche lui di “nuova” poesia e Bavio e Mevio,
rivali non solo di Virgilio, ma anche di Orazio.
Non riporto brani,
perché l'ecloga ha una sua valenza per la notevole vivacità della contesa e
quindi è necessario, per poterla apprezzare, leggerla per intero.
La quarta ecloga richiede i più ampi approfondimenti.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
/ desinet ac toto surget
gens aurea mundo, / casta, fave, Lucina: tuus iam regnat Apollo ( Tu,
casta Lucina, proteggi il bambino nascituro / con cui cesserà la generazione
del ferro e in tutto il mondo / sorgerà quella dell'oro: già regna il tuo
Apollo.).
Ci si pone
subito una domanda: chi è il nascituro?
Sì, perché non
è un evento da poco, considerato che la sua venuta comporterà la fine del
periodo buio, di violenza, e sorgerà l'età dell'oro. E' certo una frase
sibillina che si presta a molte interpretazioni, tutte egualmente probabili, ma
sicuramente non certe.
C'è una sorta
di ottimismo, una speranza quasi concreta in questi versi e quindi potrebbero
essere intesi come augurio al console Asinio
Pollione, a cui l'ecloga è dedicata,
mediatore della pace di Brindisi fra Ottaviano e Antonio, che faceva sperare in
una fine della guerra civile. Non mi convince tuttavia questa interpretazione,
perché i versi sembrano trascendere il tempo in cui sono stati scritti,
proiettando la speranza in un'epoca futura e di certo non vicinissima (Tu, casta
Lucina – che poi sarebbe Diana – proteggi il bambino nascituro…); quindi è
concreto il concetto di un avvento, con un nascituro figlio di una divinità
casta. Qualcuno ha ipotizzato che si
possa trattare del futuro figlio di Ottaviano e di Scribonia, ma nella realtà i due ebbero una femmina,
la famigerata Giulia. E nemmeno ritengo probabile che ci si riferisca al figlio
di Asinio Pollione, visto
che non era deputato a succedere al padre. I Cristiani hanno pensato a Gesù,
con la Madonna
nella veste di Lucina, tanto che nel medioevo Vergilius fu ritenuto un profeta. Se questa sembra
l'interpretazione più confacente (non dimentichiamo la figura di Vergilius nella Divina Commedia),
però è la più fantastica e la meno aderente alla “mens” romanica dell'epoca, perché non dobbiamo
dimenticare che il nostro poeta, per quanto grande, era uomo del suo tempo, né
poteva appartenere all'ebraismo, con il concetto di unico Dio, e l'attesa del
Messia. E allora quale può essere l'interpretazione più plausibile, senza avere
la pretesa che sia l'unica possibile?
Da secoli
girava per il mondo conosciuto, proveniente dalle religioni orientali per
arrivare poi in Grecia, il mito del “divino fanciullo”, già presente nel mondo
egizio, come testimoniato da reperti archeologici. Secondo questa
interpretazione, Vergilius,
attirato dall'atmosfera di leggenda, se ne sarebbe appropriato e avrebbe
buttato lì l'idea di tributare in tal modo gli onori a tutti i prossimi
nascituri di una riappacificata repubblica romana e quindi nati dalla speranza,
sempre casta.
Devo dire però
che sono perplesso e allora provo a fornire la mia personale interpretazione.
Vergilius si defilava, come si è detto, nei
periodi di crisi, ma nulla
toglie che sia possibile pensare che si facesse una certa idea dei
protagonisti; era uomo che parlava poco, ma aveva intuito e con buone
probabilità scommise su Ottaviano, ancora semplice tribuno. Ora, se per lui
Ottaviano non poteva essere che la soluzione dei problemi di Roma, il nascituro
era il suo avvento, cioè la sua presa di potere; per quanto ovvio poi,
quest'idea rappresentava una speranza, legata anche alla possibilità di riavere
le sue terre, ed ecco allora la madre Lucina, intesa non tanto come Diana, ma come la sacralità
della speranza nell'oscurità della disperazione.
Certamente
un'interpretazione univoca appare ben lungi da essere realizzata, ma nulla
toglie all'importanza di questa quarta ecloga, generalmente definita cruciale
nell'opera.
La quinta ecloga riprende un tema classico e caro a Teocrito, cioè quel Dafni cantato come il pastore di grande bellezza
e perfetto in tutto. Questa specie di ode a tale personaggio da leggenda ha
dato luogo a un paio di interpretazioni e c'è così chi vede in Dafni assunto in
cielo Giulio Cesare divinizzato dopo la sua morte, mentre altri, più
ragionevolmente a mio parere, vedono in lui il fratello di Vergilius prematuramente scomparso.
(Menalca / Quanto il flessibile salice cede al grigio
olivo, / e l'umido nardo selvatico ai purpurei rosai, / a nostro giudizio, mtanto ti cede Aminta. / Ma basta parlare,
ragazzo: siamo già nell'antro.)
La sesta ecloga è un inno pastorale, dedicato al governatore della Gallia
Cisalpina Alfeno Varo che
forse avrebbe preferito una poesia epica, ma al momento Vergilius, che mai indosserà armature, non si sente
pronto - Nunc ego (namque super tibi erunt
qui dicere laudes,/ Vare, tuas
cupiant et tristia
condere bella) / agrestem tenui meditabor harundine musam.
– Ora io (poiché avrai abbondanza di quelli / che vorranno cantare le tue lodi
e celebrare le funeste/ (battaglie, o Varo) studierò sull'esile flauto una
canzone agreste.
E quasi a
scusarsi per la momentanea incapacità di esprimere versi epici, provvede a dar
fondo a tutte le sue risorse per arrivare a una composizione in cui l'aspetto
pastorale raggiunga le più alte vette possibili (Tum canit
Hesperidum miratam mala puellam, / tum
Phaethontiadas musco circundar amarae / corticis,
atque solo proceras erigit alnos.)
( Poi canta la fanciulla stupita dai
pomi delle Esperidi, / e narra come le sorelle di Fetonte si racchiusero nel muschio / di un'amara
corteccia e si eressero dal suolo dritti ontani.).
L'aspetto
mitologico è il pretesto per trasporre l'immagine della sacralità della natura,
sì da renderla una vera e propria divinità.
Nella settima ecloga l'influsso di Teocrito è preponderante:
Qui verranno pei prati ad abbeverarsi i
giovenchi / qui il Mincio costeggia di tenere canne le rive, / e dalla sacra
quercia si sentono ronzare gli sciami.
Sembra di
vedere la scena, se ne avverte l'atmosfera, si ode perfino il ronzio delle api,
una vera e propria parentesi di serenità in un quadro di più di duemila anni
fa, una memoria che viene tramandata di generazione in generazione, un paradiso
che piano piano l'uomo ha cancellato.
Sono versi di notevole impatto emotivo che solo un grandissimo poeta poteva
scrivere con poche semplici parole.
L'ottava ecloga ha come tema la gelosia pura ed è dedicata a Pollione, vincitore
sui Dalmati. E' una gelosia che tende all'incantesimo, con i due innamorati che
si alternano, ma pur in presenza della consueta rievocazione e di immagini di
scongiuri, non riesce a far sorgere una tenebrosa atmosfera di magia; il tutto
rimane chiaro, reale, non so se per precisa scelta dell'autore, incline alla
moderazione, oppure perché il tentativo non ha sortito effetto. In tutta
franchezza è quella che mi ha meno soddisfatto con quella sua artificiosità che
contrasta con l'apparente naturalezza delle altre.
Con la nona ecloga ritorna l'argomento della prima: l'esproprio forzato delle terre
nel mantovano a vantaggio dei veterani di guerra. Vergilius, nonostante l'interessamento dell'amico Alfeno Varo, il governatore della
Gallia Cisalpina, perde tutte le sue terre e la dimora natia, il che lo costringerà
a cercare casa altrove, trovandola a Roma. Gli umili contadini e pastori sono
privati di loro ogni avere e allora, in un tentativo di
consolazione, cantano brani di carmi che, con molte probabilità, sono poesie
non ultimate da Vergilius e
che quindi fanno sì che questa ecloga presenti caratteristiche di
frammentarietà e anche di non facile interpretazione, a differenza delle altre.
Un altro motivo, però, potrebbe essere dato dal senso di frustrazione del poeta
per l'aver perso, con la sua casa natia, anche il legame con il suo mondo, un
senso di smarrimento che potrebbe giustificare l'incompiutezza e anche
l'oscurità del senso.
Moeris
/ O lycida, vivi pervenimus, advena nostri / (quod numquam
veriti sumus) ut
possessor agelli / diceret: “ Haec
mea sunt ;
veteres migrate
coloni”. / Nunc victi,
tristes, quotiamo Fors omnia versat, / hos illi
( quod nec bene vertat)
mittimus aedos. – Meri
/ O Licida, siamo arrivati
a vivere perché uno straniero / (non lo avevo mai temuto) divenuto padrone del
campicello / dicesse: “ Questo è mio, andatevene, vecchi coloni”. / E vinti,
tristi, poiché tutto è in balia del caso / gli rechiamo (ma non gli porti
fortuna) questi capretti.
In questa
ecloga, peraltro, c'è il passo che ho già riportato prima in ordine all'esatta
identificazione della località di Andes.
Vi è da dire, tuttavia, che la descrizione appare in contrasto con quella della
settima ecloga, dove il Mincio è il fiume su cui si affacciano prati
verosimilmente pianeggianti e comunque senza l'ombra di colline. Non è
improbabile quindi che Vergilius
in tal caso sia ricorso un po' alla fantasia dove forse i colli sono
rappresentati dalla maggior altezza della pianura rispetto al fiume, verso il
quale effettivamente ancor oggi scende.
Riporto,
comunque, il brano per intero, perché è di straordinaria bellezza.
Lycidas
/ Certe equidem audieram, qua se subducere colles / incipiunt
mollique iugum demittere clivo, / usque ad aquam,
et veteres, iam
fracta cacumina, fagos,
/ omnia carmini bus vestrum
servasse Menalcam. –
Lìcida / Pure, se non erro,
avevo sentito che di dove i colli / cominciano a inclinarsi e il giogo a
digradare in dolce clivo / fino all'acqua e ai vetusti faggi, ormai cime /
spezzate, Menalca aveva
tutto salvato con il canto.
Menalca è il nostro poeta e l'ultimo verso fa
riferimento a un precedente tentativo di esproprio fallito per l'opera attiva
di Vergilius sia nei
confronti delle autorità locali, sia per l'intercessione dell'amico Alfeno Varo, governatore della
Gallia Cisalpina.
La decima e ultima ecloga canta l'amore disperato dell'amico poeta Cornelio Gallo,
invaghitosi della liberta Volumnia
(qui Licòri), che passata
dalle braccia di Marco Antonio a quelle di Bruto, e poi appunto a quelle di
Gallo, lo ha abbandonato per unirsi a un militare che partecipava alla
spedizione di Agrippa in Germania. Pare accertato che a questo componimento si
sia ispirato il Tasso nell'Aminta.
Ora un amore dissennato ti trattiene
fra le armi / del duro Marte, fra i dardi, di fronte al nemico: / tu lontana
dalla patria (ah potessi non crederlo!), / sola, senza di me, vedi le nevi
delle Alpi / e i ghiacci del Reno. Ah, che il gelo non ti offenda, / e
tagliente qual è non ferisca le tue tenere piante!
E'
un'invocazione disperata dell'amico Gallo, uno strazio di un cuore che non
riesce a trovare pace, riconoscendo che tutto è finito. In questo è evidente la
capacità di Vergilius di
sondare l'animo umano, di cogliere tutti i sentimenti, soprattutto quello
dell'amore che non risponde alla logica, così che una volubile Volumnia può far impazzire anche
l'uomo più assennato.
Come ho
accennato in precedenza, le Bucoliche ebbero subito un grande successo, tanto
da essere recitate sulla scena. La fama e anche la novità di quest'opera
interessarono a tal punto che ne furono scritte parodie o addirittura
imitazioni.
Rapidamente,
con Virgilio ancora in vita, furono adottate come libro di testo nelle scuole,
congiuntamente alle successive Georgiche.
E anche molto
più tardi influenzarono non poche opere, come l'Orfeo di Poliziano.
Dopo la morte di Cesare le lotte intestine per il potere sono
fratricide e sanguinose, benché il trattato di Brindisi, del 40 a.C, fra Ottaviano e Antonio facesse sperare in un periodo
di pace. Dal 39 al 36 Sesto Pompeo combatte una
guerriglia, con incursioni piratesche, contro il regime dei triumviri, in una
situazione d'incertezza acuita dalle continue pressioni dei Germani sul Reno.
E' quindi un'epoca ancora infelice, dominata dall'incertezza, dal
progressivo depauperamento delle attività economiche, che, notoriamente, per
prosperare hanno bisogno di un periodo di stabilità. I primi segni di
un'inversione di tendenza si hanno nel 35 a. C. , quando
Lepido, deposto il titolo di triumviro, lascia di fatto a Ottaviano l'influenza
su tutto l'occidente, mentre Antonio, dopo l'infausta spedizione contro i
parti, si ritira in Egitto. Occorreranno però altri 4 anni di guerre per
arrivare nel 31 a.C.
alla famosa battaglia di Azio, che vede la definitiva
affermazione di Ottaviano, ormai solo al potere.
E il nostro Virgilio che fa in questi anni?
Proprio nel 39 a.
C. entra in rapporto a Roma con il circolo culturale che fa capo a Mecenate e
poiché questi è un sostenitore di Ottaviano Virgilio ha la possibilità di
conoscere il futuro imperatore.
Quell'anno presenta un'altra particolarità, addirittura
rivoluzionaria per l'epoca, poiché Asinio Pollione,
amico del nostro poeta, a cui aveva dedicato ben tre Egloghe, apre nell'atrio
del tempio della Libertà la prima biblioteca pubblica romana. E' un segno
importante, il desiderio che la cultura non sia esclusivamente classista e solo
un personaggio autorevole e indipendente come Pollione poteva darlo, politico
tanto influente che, benché sostenitore di Antonio, dopo la sconfitta di questi
non ebbe a temere conseguenze.
L'entrare nelle grazie di Mecenate, consigliere di Augusto, ricco
di famiglia e liberale, aperto alle arti e alle idee, è indubbiamente un colpo
di fortuna per Virgilio, anche se vi è da dire che l'incontro non è senz'altro fortuito, ma stimolato, quasi imposto dall'anfitrione che
ama circondarsi dei migliori artisti del momento, tanto che alla sua tavola
siedono anche Orazio e Properzio. Diciamo pure che in
casa di questo nobile di origine etrusca si coltiva la cultura ai massimi
livelli e quindi l'autore delle Bucoliche non poteva, né doveva essere assente,
anzi su di lui Mecenate ha dei disegni precisi. Consapevole delle elevate
qualità del poeta mantovano ha deciso di sfruttarle a beneficio di quel
concetto di stato, possente ed eterno, per il quale lui e Ottaviano si stanno
da tempo attivando.
Le guerre civili, l'incertezza dei tempi hanno provocato
contraccolpi seri sull'economia e in particolar modo una disaffezione per
l'agricoltura, determinante, allora come ora, per il benessere e l'equilibrio
dello stato. I campi spesso sono abbandonati o mal coltivati, frequentemente le
terre date ai veterani in compenso del loro servizio risultano poco sfruttate,
proprio per l'inattitudine dei loro nuovi proprietari. Occorre quindi porre
rimedio, richiamare i Romani alla dedizione alla terra, insegnare loro a trarne
il massimo profitto, ma le parole espresse a voce hanno poco effetto, e allora
occorre qualche cosa di scritto, ma grandioso, che
sappia unire la parte didattica a quella letteraria in una fusione perfetta.
Chi, meglio di Virgilio, figlio di un agiato proprietario terriero, così legato
al suo ambiente agricolo da cantarlo nelle Bucoliche, può quindi riuscire
nell'impresa?
Mecenate gliene parla, probabilmente lo stimola anche sotto il
profilo delle sue memorie, gli promette gloria, onori e denari.
Virgilio accetta alla condizione di non porre limiti di tempo e di
lasciargli una certa indipendenza nella stesura, in modo che l'opera non sia
solo didascalica, ma anche letteraria.
Mecenate non ha obiezioni, perché è esattamente quello che spera.
E' l'anno 37 a.
C. e il nuovo lavoro terrà impegnato Virgilio per ben sette anni, trascorsi per
lo più a Napoli, città che adora.
E' un periodo di lavoro diviso sostanzialmente in due fasi, la
prima potremmo definire di ricerca delle conoscenze indispensabili per
l'attività didattica (come si coltiva, quando si semina, come combattere i
parassiti, ecc. ) e la seconda di stesura vera e propria, dove deve emergere,
ed emergerà, il genio dell'autore.
Nel 29 a.
C. la nuova opera che ha come titolo Georgiche (dal greco georgéin,
cioè lavorare la campagna), è
finalmente terminata e Virgilio le legge ad Ottaviano, che di ritorno
dall'Oriente, ha fatto sosta ad Atella, in Campania.
E' possibile solo immaginare lo stato emotivo dell'autore, in piedi o seduto
davanti al vincitore assoluto (Ottaviano, tornato a Roma, celebrerà uno
splendido trionfo), mentre legge ad uno ad uno i 2.183
esametri che compongono i 4 libri del nuovo poema. Virgilio è sempre stato, per
natura, abbastanza taciturno, uno di quelli che sembra far fatica a parlare, ma
qui forse la cosa è diversa, qui si tratta infine di declamare il risultato del
suo lungo lavoro.
E' più che logico supporre che
Ottaviano abbia gradito molto l'opera, tanto che lo stesso anno Virgilio inizia
a comporre l'Eneide, il poema che lo impegnerà fino alla morte, ma questa è
altra storia e senza disconoscere nulla a quel testo fondamentale per la
cultura romana e mondiale, al punto che ancor oggi lo si studia, ritorniamo
alle Georgiche.
Ho scritto prima che si tratta di 4
libri per complessivi 2.183 esametri, forma metrica che ben si adatta a un
poema epico-didascalico quale è appunto quello di cui
si sta dissertando.
Ognuno dei quattro volumi tratta
un'attività specifica del contadino; i quattro libri sono divisi in due coppie,
dedicate, rispettivamente, alla coltivazione e all'allevamento. Nell'ambito
della prima coppia, il primo volume tratta del lavoro dei campi, mentre il
secondo della coltivazione delle piante, con particolare attenzione per quelle
tipiche della zona mediterranea, come la vite e l'ulivo; nella seconda coppia
l'allevamento del bestiame più grosso, o nobile, cioè dei bovini e degli equini
è distinto da quello del bestiame “minuto”, quali le api, alle quali è dedicato
interamente il quarto volume. Strutturalmente, come impostazione, ogni libro
inizia con un prologo e
termina con una favola mitologica o con l'esposizione di un fatto storico.
Benché la finalità dell'opera sia
didascalica, Virgilio riesce a creare un capolavoro di pura poesia e di rara
bellezza.
Inoltre, è doveroso riconoscere che un
lavoro puramente didattico, se pur valido, non avrebbe potuto conferire al
poema il senso ideologico che gli è proprio. Ecco quindi l'importanza dei
proemi e dei brani finali di ciascun libro, nonché delle digressioni talmente
ben armonizzate nella struttura da apparire quasi naturali, insomma tutt'altro
che digressioni.
Le Georgiche sono dedicate a Mecenate,
e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che il protettore ne era l'ispiratore
e che aveva caldeggiato, probabilmente ricorrendo anche a lusinghe, l'intero
lavoro; del resto, lo stesso Virgilio non nasconde la circostanza tanto che
terzo libro fa un cenno agli
haud mollia
iussa, vale a dire le ripetute insistenze del
nobile di origine etrusca, peraltro assai prodigo con i letterati che stimava,
ma che portavano anche acqua al suo mulino di consigliere prima di Ottaviano, e
poi di ministro dello stesso.
E' curioso notare che vi furono due
edizioni dell'opera, la prima appunto nel 29 a.C e l'altra dopo il 26 a.C, in cui Virgilio sostituì con la favola di Orfeo e Euridice l'elogio per il poeta Gallo, che si era tolto la
vita in Egitto dopo aver perso i favori di Ottaviano. Quella giunta fino a noi
è appunto la seconda ed è di questa pertanto che di seguito parleremo.
Come si è detto l'opera consta di
quattro libri; di seguito ne parlo.
Libro I
In premessa troviamo una dedica
all'ispiratore, a Mecenate, ma poi si parla subito del lavoro dei campi,
riguardo al quale c'è già una doverosa precisazione, una digressione è
possibile anche chiamarla, che entra di diritto a far parte del senso
ideologico ed è quando scrive che al lavoro gli uomini sono obbligati da una
dura legge imposta da Giove e che prima di lui invece regnava
l'età dell'oro.
…
Prima di Giove non v'erano agricoltori a lavorare la terra,
e neanche si poteva segnare i confini
dei campi e spartirli;
tutti gli acquisti erano in comune, la terra
da sé donava,
senza richiesta, con grande liberalità,
tutti i prodotti.
Egli aggiunse il pericoloso veleno ai tetri serpenti,
e volle che i lupi predassero, che il
mare si agitasse,
e scosse il miele dalle foglie e nascose
il fuoco
e fermò il vino che fluiva sparso in
ruscelli,
affinché il bisogno sperimentando a poco a poco
esprimesse
le varie arti e cercasse la pianta del
frumento nei solchi
e facesse scoccare il fuoco nascosto
nelle vene della selce.
….
E' certamente una dura realtà il
lavoro, ma non è imposto da un uomo agli altri uomini, bensì da Giove, cioè da
un Dio, affinché gli uomini acquisiscano il talento per ottenere ciò che prima
avevano senza fatica. In poche righe si fonde la necessitò del lavoro con la
nobiltà dello stesso, perché imposto da una divinità e perché gratificante per
chi lo compie in quanto frutto delle sue capacita, insomma un segno distintivo
che nobilita lo sforzo quotidiano. Vi è da rilevare che l'opera è destinata
soprattutto ai proprietari terrieri per tradizione e che quindi la loro fatica
è da intendersi più come organizzazione dell'impresa che come materialità del
lavoro, in tali casi destinato agli schiavi. Ciò non toglie tuttavia che
benefici di questo spirito ideologico anche il militare reduce da tante guerre
e che si è visto assegnare, come buonuscita, un po' di terra, che non di rado
dissoda e coltiva insieme ai servi. Da questi esametri discende quindi il
famoso detto che il lavoro nobilita l'uomo.
Nel parlare poi dei pronostici del
tempo, indispensabili per le colture, approfitta Virgilio per una digressione
relativa ai prodigi accaduti dopo l'assassinio di Cesare.
…
La Germania udì uno strepito d'armi in tutto il cielo,
e le vette delle Alpi tremarono di moti
inattesi.
Anche un immenso grido fu udito spesso
Nei boschi silenti, e nell'oscurità della notte
Apparvero fantasmi paurosamente pallidi, e le bestie
(parlarono
- prodigio! – si arrestano i fiumi, la terra si apre,
e lagrima nei
templi il mesto avorio e sudano i bronzi.
…
Sono versi di grande efficacia, di
immediata presa sul lettore, perché, oltre a riuscire a ingenerargli immagini,
ricreano un'atmosfera densa di esecrazione per il brutale omicidio di Cesare,
quasi asceso con la sua morte alla figura divina.
A voler esser maligni, in tal modo si
giustifica chi eliminò i congiurati e si gettano i prodromi per dimostrare che
i vendicatori, o meglio il vendicatore, visto che era rimasto solo Ottaviano,
era il degno successore del conquistatore delle Gallie,
per diritto terreno e anche per scelta divina.
Libro II
Si tratta esclusivamente della coltura
delle piante, delle loro varietà, dei lavori necessari, dei climi, dei terreni,
con particolare riguardo a quelle tipicamente mediterranee come la vite e
l'ulivo. All'inizio, può sembrare scontato, c'è un'invocazione a Bacco.
Fin qui la coltivazione dei campi e le stelle del cielo;
ora canterò te, o Bacco, e con te i
virgulti
silvestri e i rampolli dell'ulivo che cresce
lentamente.
…
Sono toni e versi decisamente poetici
che ben introducono e predispongono alla vera e propria parte didascalica,
assai ben realizzata, mai greve, anzi assai snella al punto che lettura e
apprendimento diventano egualmente gradevoli. Non manca anche un accenno alla
terra natia e alla perdita dei campi a vantaggio dei veterani di Filippi, più
ampiamente trattata e lamentata nelle Bucoliche.
…
Se ti sta più a cuore curare armenti e vitelli
o agnelli e capretti che devastano i
seminati,
cercherai le balze e i lontani luoghi della
feconda Taranto,
o una campagna quale perse la sventurata
Mantova,
e pasceva in erbosi corsi d'acqua
candidi cigni;
….
In questo libro tuttavia rivestono una
particolare importanza ben tre digressioni, quella nel corpo della coltivazione
delle piante e che è una lode dell'Italia
….
Ma la terra dei Medi ricchissima di vegetazione boschiva,
e il maestoso Gange e l'Ermo opaco d'oro
non gareggiano con le glorie dell'Italia,…
…
Con l'inclusione da parte di Augusto
nel territorio Italico delle Gallie si ha una
situazione dello stivale assai analoga all'attuale, mentre prima notoriamente a
nord si arrivava al massimo alla linea Magra-Rubicone.
Si può dire quindi che l'Italia è tale da oltre duemila anni e che già allora
costituiva una meraviglia tale da incantare un poeta come Virgilio, il primo di
tanti, anche esteri, che vedranno nel nostro paese quasi un paradiso terrestre.
La seconda digressione si ha dove si
parla della coltivazione della vite e sono lodi della primavera.
….
La primavera è propizia alle fronde, propizia alle foreste,
a primavera le terre si gonfiano e
chiedono semi produttivi.
Allora l'onnipotente padre Etere discende con fertili
piogge nel grembo della lieta sposa, e
grande,
commisto al grande corpo, genera tutti i
frutti.
….
E' appena il caso di rilevare la
metafora per la rigenerazione della terra, con il concepimento a cui interviene
una divinità di origine greca, quell'Etere che altri non era se non una divinizzazione
dell'atmosfera nella sua parte più alta, in pratica dell'aria purissima che
solo gli dei potevano respirare.
Particolare poi è la dinamicità della
scena descritta, tale da assorbire completamente l'attenzione del lettore a cui
pare di assistere a una copula fra il cielo e la terra.
La terza digressione è nell'ambito
della parte che tratta della coltivazione delle piante di particolare
interesse, quali l'ulivo e il melo, ed è costituita dalle lodi della vita
agreste.
…
O troppo fortunati, se comprendono i loro beni,
gli agricoltori! ai
quali lontano dalle armi discordi
la terra giustissima produce agevole vitto
dal suolo.
…
Hanno una sicura pace, una vita ignara d'inganni,
ricca di vari beni, un riposo in ampi
terreni,
grotte e vivi laghi, fresche vallate
e muggiti di buoi e dolci sonni sotto
gli alberi,
…
E' certamente una visione bucolica, di
una vita semplice, ma anche quieta, regolata dall'alternarsi del giorno e della
notte, nonché delle stagioni, un chiaro invito a ritornare alle terre a chi le
aveva lasciate per trovare rifugio nelle opulente, ma
nevrotiche città.
Libro III
Vi si parla dell'allevamento del
bestiame grosso, cioè dei tori, delle vacche e degli equini, nonché di quello
piccolo, ma non meno importante, quali gli ovini, gli animali da cortile, ecc.
Inizia con l'invocazione alle divinità
pastorali, anche perché il tema trattato è un po' diverso da quello delle
colture ed è pertanto necessario trovare un nuovo percorso per arrivare alla
gloria, così che Virgilio ritornerà alla natia Mantova e al suo fiume Mincio,
sulle cui rive innalzerà un tempio in onore di Ottaviano.
…
… Per primo, tornando in patria, se vita mi basti,
condurrò con me le Muse, trattele dal vertice aonio;
per primo, o Mantova, ti riporterò le palme idumee
e in un verde campo edificherò un tempio
di marmo
vicino alle acque, dove il grande Mincio
scorre
in lente anse, orlato sulle rive da
tenere canne.
Al centro sarà Cesare, signore del tempio. Ed io
vincitore per lui e insignito della
porpora tiria,
sfrenerò cento quadrighe lungo il fiume.
…
Da notare il passaggio da una visione
elegiaca del luogo natio, dove la semplice perfezione della natura risalta in
poche misurate parole, all'impeto trionfale in onore di un Ottaviano già di
fatto divinizzato. Un incontro fra sacro e profano dove la sacralità è della
natura e la caducità dell'uomo in quest'atmosfera si trasforma, si sublima
nella figura del futuro imperatore.
Anche in questo libro esistono delle
digressioni, quella sull'amore
….
Ma certo si distingue tra tutti il furore delle cavalle:
Venere stessa ne istigò l'animo, il giorno che le quadrighe
potniadi divorarono a morsi le membra di
Glauco.
Amore le guida oltre il Gargano, oltre il risonante
Ascanio, superano monti, attraversano fiumi.
…
Sono versi di notevole forza tesi a
dimostrare che nulla può fermare l'amore, soprattutto in queste cavalle che
fecero a pezzi un Glauco che impediva loro l'accoppiamento nel timore che
potessero perdere velocità e agilità. Quindi, l'aspetto sessuale è proprio
della natura e non può essere negato è quel che sembra dirci Virgilio.
E quella sulla peste degli animali nel Norico
…
Il turbine che s'avventa
sul mare portando tempesta non
(è fitto
come
le numerose malattie degli animali. I morbi
non
assalgono i corpi singolarmente, ma gli interi pascoli
(estivi
ad
un tratto, e il gregge, la sua speranza, e tutta la razza
(dal
ceppo.
Bene lo sa chi vede le
aeree Alpi e i castelli
sulle
alture del Norico e i campi della iapide
Timavo,
anche
oggi dopo tanto tempo regni deserti
di
pastori, e balze vuote in lungo e in largo.
…
Ci si riferisce grosso modo al territorio dell'odierna Austria e
dell'Istria, funestato nei tempi remoti da un'epidemia di peste animale,
talmente violenta da far sì che anche anni dopo greggi di pecore e bovini
fossero in pratica inesistenti.
Libro IV
Dei quattro questo secondo me è il più bello, oltre a essere il
più complesso per il significato metaforico che dà voce al messaggio politico e
ideologico dell'opera.
Inizia con l'apostrofe a Mecenate
Proseguendo, dirò del
dono celeste dell'aereo miele.
Volgi lo sguardo,
Mecenate, anche su questa parte.
Ti canterò mirabili
spettacoli di modeste cose,
e
i magnanimi capi, e, per ordine, l'indole
e
le attitudini di tutta una gente, e i popoli e le battaglie.
…
A prima vista sembrerebbe trattarsi di un poema evocativo di gesta
gloriose dei romani e invece in questo libro si parla solo dell'allevamento
delle api.
Ma se per completezza e attenzione è un trattato di altissimo
valore, non è difficile, esametro dopo esametro, rendersi conto che anche in
questo caso siamo in presenza di una metafora, se pur grandiosa.
Questi piccoli insetti, assai laboriosi, hanno
infatti una struttura societaria, caratterizzata dall'assoluta fedeltà
alla propria casa e alle norme che regolano questa convivenza, ognuna di loro
fa scrupolosamente il lavoro che le è stato assegnato, partecipando ali beni e
alle risorse comuni, disposta anche a morire nell'interesse di tutti,
manifestando sempre un'assoluta dedizione alla propria regina.
E' certamente una visione stoica, ma tutte le caratteristiche di
cui sopra si rispecchiano, in modo assolutamente fedele, nel più puro idealismo
di Ottaviano.
E così il libro non è solo un tributo al prossimo imperatore, ma è
anche lo stimolo affinché chi legge segua sempre l'esempio delle api.
Non a caso Virgilio ricorre a questi insetti, che sono così
positivi per natura. L'uomo, essere superiore, perché allora non dovrebbe
essere come loro? E' un chiaro messaggio politico volto a ricostituire, dopo
anni di guerre fratricide, una concordia nazionale intorno alla figura del
nuovo soggetto, pacificatore e garante dell'unità e della prosperità di Roma.
Il fatto che questo concetto venga espresso in un poema, non
direttamente, ma per via metaforica costituisce un'assoluta novità, perché
inaugura il condizionamento attraverso la parola scritta, un antesignano del
potere dei media che, purtroppo, possiamo verificare continuamente ai giorni
nostri.
E' indubitabile tuttavia la buona fede dell'autore che, più che
imporre, desidera rendere partecipi i lettori dell'avvento di una nuova era,
quella augustea, che lui ritiene la migliore in assoluto, quella più legata al
concetto di stato romano derivante dall'epoca repubblicana, una comunità di
cittadini intenti allo sforzo comune per il benessere reciproco.
Ma c'è anche un'altra chiave di lettura, ancora politica e un po'
filosofica, pure se gli effetti si eguagliano.
Poiché l'età dell'oro è solo un ricordo, quando addirittura non è
una fantasia, il lavoro necessario per vivere e che nobilita l'uomo non può
prescindere da una sua razionale organizzazione per uno scopo comune, demandata
a uno solo, affinché le sue decisioni siano univoche e uguali per tutti. Costui
rappresenta i cittadini e come tale è il pilastro dello stato, senza il quale
ben presto tutto crollerebbe. Non è più tempo per triumviri, per decisioni
frutto di mediazioni, che portano a dissidi, e quindi l'unico capo è la
migliore soluzione possibile, tanto più se questi è una persona di grandi
capacità e personalità come Ottaviano.
E' indubbio che una simile finalità abbia incontrato gli
entusiastici favori di Mecenate, consigliere e poi ministro del futuro
imperatore; Virgilio, infatti, nella stesura dell'opera era andato addirittura
oltre gli scopi per i quali essa era stata ideata, un risultato di grande
rilievo, soprattutto in un momento in cui era indispensabile che i Romani
ritrovassero quell'unità da tempo smarrita.
Era terminato un periodo e ora se ne doveva iniziare uno nuovo, ma
era necessaria la partecipazione di tutti, sotto un'unica illuminata
guida. E questa idea era stata portata
avanti nel poema con grande efficacia, non esponendola direttamente, ma
attraverso una metafora di grande bellezza che non poteva non conquistare il
lettore.
Anche qui ci sono delle digressioni, due per l'esattezza.
Virgilio vorrebbe infatti anche cantare
dell'arte del giardiniere e dell'orticultore, ma è materia troppo specialistica
per lui, che preferisce rinunciare, sperando che chi verrà dopo di lui possa
occuparsene. Ciò nonostante, non può fare a meno di parlare, come emblema della
bellezza di quest'arte, del sereno episodio del vecchio di Còrico.
E davvero se già sul
finire della mia fatica non dovessi
(raccogliere
le
vele e affrettarmi a dirigere la prua a terra,
forse
canterei anche la cura del coltivare i floridi orti,
i
rosai di Pesto che fioriscono due volte l'anno,
come
l'indivia si compiaccia di abbeverarsi ai ruscelli,
e
le verdi rive godano dell'apio, e attorto fra l'erba
cresca
sul ventre il cocomero;…
Infatti
ricordo sotto le torri della rocca ebalia,
per
dove il bruno Galeso bagna bione
coltivazioni,
di
aver veduto un vecchio di Corico, che possedeva
pochi
iugeri di terra abbandonata, infeconda ai giovenchi,
inadatta
alla pastura di armenti, inopportuna a Bacco.
Questi, tuttavia,
piantando radi erbaggi fra gli sterpi,
e
intorno bianchi gigli e verbene e il fragile papavero,
uguagliava
nell'animo le ricchezze dei re, e tornando a casa
a
tarda sera colmava la mensa di cibi non comprati.
…
Un uomo può essere felice anche con poco, quando da quel poco
sappia trarre tutto quello che può dare; in buona sostanza è questo
l'insegnamento che si ritrae da questa digressione, ma a voler cercare la
malizia potrebbe anche significare che ognuno deve essere contento di ciò che è
e di quel che ha, insomma un pensiero teso a pietrificare, rendendole
immutabili, le classi sociali.
La seconda digressione è la lunga favola dell'invenzione di Aristeo, che fa da cornice alla vicenda di Orfeo che
discende negli Inferi al fine di richiamare in vita l'adorata sposa Euridice.
Per l'artifizio di Aristeo, vale a dire
il metodo per riprodurre gli sciami delle api dai cadaveri delle bestie in
putrefazione il collegamento a quanto prima scritto in ordine all'allevamento
di questi insetti è puntuale e raccordato in modo del tutto preciso.
…
Ciò quando gli Zefiri
cominciano a sospingere le onde,
prima che i prati
risplendano di nuovi colori,
e
la garrula rondine sospenda il nido alle travi.
Intanto nelle ossa
disfatte ribolle l'umore intiepidito,
e
animali, tutti da vedere, di straordinaria foggia,
prima
privi delle zampe, poi stridenti di penne,
brulicano,
e sempre più invadono la tenue aria,
finché
erompono come pioggia effusa da nuvole
estive
o come frecce scagliate da un arco
quando
i veloci Parti si gettano nei primi scontri.
Chi, o Muse, qual dio ci
forgiò una simile arte?
Di dove cominciò questa
nuova esperienza degli uomini?
Il pastore Aristeo, fuggendo dalla penea Tempe,
perdute,
come raccontano, le api per freddo e per fame,
si
fermò afflitto alla sacra sorgente del fiume,…
Da rilevare, la straordinaria grazia con cui è descritta la
primavera, in aperto e voluto contrasto con l'orrida scena delle carcasse
d'animali, ancora una metafora della vita che segue alla morte, un lungo
infinito cerchio che nei disegni del divino porta una naturale rigenerazione,
un concetto diffuso all'epoca e che trova in Virgilio la sua puntuale
applicazione nella memoria
delle sue origini celtiche.
Nell'ambito del lungo racconto dell'invenzione di Aristeo si innesta il mito di Orfeo ed Euridice,
tanto caro agli antichi, e qui riportato per rafforzare il concetto di
Anassagora, secondo il quale “Nulla si crea, tutto si trasforma, nulla si
distrugge”. La morte non è che un passaggio e dai corpi inanimati nasce nuova
vita.
Il tono usato nel raccontare il dolore di Orfeo per la perdita
della sua Euridice raggiunge vette di sublime
bellezza.
….
Ella certo navigava ormai
fredda sulla barca stigia.
Raccontano che per sette
mesi continui egli pianse,
solo
con se stesso, sotto un'aerea rupe presso l'onda
dello
Strimone deserto, e narrava la sua storia nei gelidi
(antri,
addolcendo
le tigri e facendo muovere le querce con il
( canto:
come
all'ombra di un pioppo un afflitto usignolo
lamenta
i piccoli perduti, che un crudele aratore
spiandoli
sottrasse implumi dal nido: piange
nella
notte e immobile su un ramo rinnova il canto,
e
per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti.
Nessun amore o nessun
connubio piegò l'animo di Orfeo.
…
Sono versi che riflettono un acuto lirismo, frutto della
metabolizzazione di una vicenda mitologica che l'animo sensibile di Virgilio
aveva recepito nella consapevolezza che l'amore può diventare un sentimento di
intenso dolore, che quella
che è la felicità dell'oggi può tramutarsi nella pena di domani. I sentimenti
forti hanno sempre come contrapposizione patimenti altrettanto grandi.
L'opera termina in modo inusuale per Virgilio
…
Quando cantavo sulla cura
dei campi e del bestiame,
e
sugli alberi, mentre il grande Cesare presso il profondo
Eufrate fulmina in guerra
e vittorioso dà leggi
Ai popoli consenzienti e
si apre la via dell'Olimpo.
In quel tempo me Virgilio nutriva la dolce
Partenope,
sereno fra opere di un'oscura quiete:
io
che rappresentavo la poesia dei pastori, e, audace di
(giovinezza,
io
cantai, o Titiro, all'ombra di un ampio faggio.
Viene naturale chiedersi il perché di questo epilogo
autobiografico, veritiero nella parte in cui Virgilio parla di se stesso, ma
falsato allorché presenta riferimenti a Cesare, che poi è Ottaviano, in quanto
in quel periodo non ci furono eventi bellici, se non una spedizione di
Ottaviano in Siria volta più che altro a dimostrare la potenza di Roma.
Il motivo assai probabilmente risiede nel fatto che Virgilio,
proprio grazie a Ottaviano, era riuscito a ottenere, a titolo di risarcimento
per le terre mantovane a suo tempo confiscate e date ai reduci di Filippi, un
idoneo podere proprio in Campania nei pressi di Napoli.
C'è poi anche un senso di autocompiacimento, espresso negli ultimi
quattro versi, una specie di sigillo con il quale il poeta firma l'opera,
dichiarandosi, orgogliosamente, responsabile di quanto in essa contenuto.
In un autore che già aveva acquisito grande fama con la sua opera
prima appare del tutto naturale questo finale in cui, non dimentico dei favori
ricevuti, tuttavia rivendica la paternità di un poema che sa già essere qualche
cosa di straordinario.
A questo punto, ritengo doverose alcune considerazioni, non senza
aver prima ricordato che Virgilio poi si dedicherà unicamente all'Eneide, sulla
quale mi auguro un giorno di scrivere.
Ci troviamo di fronte a un'opera dalla perfezione stilistica e
strutturale che ha dell'incredibile. E' noto che Virgilio era assai meticoloso,
mai contento dei suoi lavori, che continuamente limava e rivedeva, ma nelle
Georgiche si toccano livelli mai poi raggiunti.
Il ricorso all'esametro, particolarmente indicato per poemi epici
o didascalici qui è frutto di un'applicazione senza precedenti.
…
Nec tamen,
haec cum sint hominumque boumque latore
Versando terram experti, nihil improbus anser
Strymoniaeque
grues at amaris intiba fibris
Officiunt
aut umbra nocet, pater ipset
colendi
haud
facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
…
Di seguito la traduzione di Elvio Natali:
…
Eppur dopo tante fatiche di uomini e buoi
nell'arare
la terra, ecco allora che l'oca vorace
fa
danno, lo fanno le gru della Tracia e l'amara
cicoria
con le sue fibre, e se l'ombra v'aduggia.
Anche il Padre non volle
che facile fosse la via
pei
coloni, e per primo con arte rimosse i terreni
pungendo
d'affanni nel cuore i mortali né volle
che
in ozio pesante il suo regno perdesse vigore.
…
Sono versi che scorrono fluidi, senza intoppi, né un momento di
stasi, ma un continuo costante ritmo che nella sua pacatezza assorbe il
lettore.
L'esametro, come noto, è costituito da sei piedi dattilici (metri)
e presenta la possibilità di sostituire le due sillabe brevi con una lunga.
Virgilio plasma l'esametro a suo uso e consumo, come uno strumento per una
narrazione lunga e complessa, dove ricorrono pacate descrizioni, ma dove vi
possono anche essere fasi concitate, rese possibili dal ricorso a cesure e a
pause.
Strutturalmente i quattro libri di cui è composta l'opera sono in
perfetto equilibrio, anche grazie alla simmetria utilizzata, e si prestano a
essere letti uno indipendentemente dall'altro, a
secondo della necessità di chi vuole apprendere.
A tal riguardo vi è da considerare che la parte didattica, anche
se oggi può far sorridere, è il frutto di un lungo e
meticoloso lavoro di ricerca, basato su altri testi specifici. Si dà per certo
che consultò il De agri
cultura di Catone, il De re
rustica di Marrone, le Opere e i
Giorni di Esiodo e altri testi latini e greci. Inoltre si documentò
chiedendo ad agricoltori e osservando la vita nei campi, in quanto lui, benché figlio di coltivatori della terra, non aveva mai messo mano
a questa attività.
La vita descritta è quindi reale e non di mera fantasia come nelle
Bucoliche e, benché la creatività lo abbia aiutato nelle descrizioni dei
paesaggi, si avverte chiaro che questi erano stati effettivamente osservati
dall'autore.
L'influsso celtico è ancora più evidente con quella visione di
animali e di piante considerati del tutto simili all'uomo, con analoghi
sentimenti.
Ho già scritto sopra delle finalità dell'opera che, grazie al
genio di Virgilio, travalicarono i suggerimenti di Mecenate, con una visione
dell'umanità certamente asservita al potere imperante, ma anche del tutto
universale, una comunità coesa, laboriosa, tutta rivolta al bene comune, come
le api, appunto.
E' possibile immaginare le positive reazioni di Ottaviano quando
ascoltò la lettura dei versi, incombenza che si assunsero, a turno Virgilio e
Mecenate, nell'arco di ben quattro giorni.
Questo contadino mantovano, di non nobili origini, aveva
realizzato l'opera perfetta, ma non solo questo, perché aveva compreso la vera essenza della
sua politica, della sua visione del mondo. Non era un guerriero, né un retore e
nemmeno un politico, ma aveva magistralmente tradotto in lettere la sua
ideologia.
Chi meglio di lui avrebbe potuto immortalare Roma e dare un senso
divino a quella corona che da lì a poco si sarebbe apprestato a metter sul
capo?
Fu probabilmente in quell'occasione che a Virgilio fu proposto di
scrivere un grande poema, una storia da restare nella storia: l'Eneide.
Ma se con Georgiche il poeta fornisce una visione politica del
mondo, rilevante, di grande valore, anticipatrice, per certi versi, di taluni
pensieri propri del cristianesimo e anche del marxismo, con le Bucoliche il
discorso è più individuale
e di grande attualità. Il valore di un artista non si misura solo
con la perfezione stilistica, che in Virgilio raggiunge forme quasi maniacali, ma
anche e, soprattutto, con il significato intrinseco delle sue opere, con quella
capacità di vedere oltre gli stretti spazi temporali in cui vive.
L'innovazione, la capacità di andare oltre abitudini consolidate,
di tracciare un solco ideale che travalica l'epoca sono tutte caratteristiche
che donano l'immortalità delle opere letterarie.
Ma che cosa ci lasciano le Bucoliche, quale è il messaggio sempre
attuale di Virgilio?
In periodi di drammi quotidiani, di scontri belluini, di perdita
dei valori la realtà diventa insopportabile per un mite che è indotto a una
scelta quasi obbligata. Se da un punto di vista materiale è prudente il
defilarsi, molto più importante è cosa mettere in pratica per non morire
dentro. La soluzione proposta dal grande poeta latino è chiara ed è forse
l'unica via percorribile: un dialogo con il proprio io volto alla continua
scoperta di se stessi, un ritorno all'essenza delle cose e della vita che
possiamo trovare anche con l'osservazione umile della natura che ci circonda.
Gli uomini passano e alla fine diventano polvere, ma il
relazionare spiritualmente con il creato, ponendoci non al centro di esso,
bensì quali ignoti partecipi della vita che non è solo quella della nostra
specie, permette di arrivare gradualmente a un equilibrio interno che deriva
dalla consapevolezza che siamo solo i punti di un disegno grandioso che non
comprendiamo e che probabilmente mai capiremo.
La dolcezza della natura che ci circonda, la sua apparente
semplicità ha la capacità, se la sappiamo cogliere e vedere, di permearci di
una serenità mai conosciuta e il sapere che non siamo altro che microscopici
atomi, anziché incuterci timore, ci mostra nuovi aspetti dell'esistenza, ci fa
sognare un mondo senza più guerre, senza più prevaricazioni.
E' una ricerca non semplice, ma quando mai i grandi traguardi
vengono raggiunti con facilità?
Vergilius ci ha indicato la strada.
Due opere minori?
Assolutamente no, come sopra delineato. Sono lavori ingiustamente
trascurati a beneficio della pur grande Eneide, in cui si ritrovano anche i
concetti filosofici emergenti dalle Bucoliche e dalle Georgiche, con Enea che è
un uomo consapevole della necessità che tutti collaborino al bene comune e
quindi non dedito ai propri interessi, capace di dialogare con se stesso e di sentirsi
partecipe e non dominus della natura in cui vive.
Inoltre, in tutte le sue opere Virgilio dimostra un autentico
senso di pietà, virtù assai rara e oggi quasi scomparsa.
E' una pietas di rispetto pieno e disinteressato di obblighi morali verso le
divinità, verso la patria, verso chi ci sta intorno, in primis la propria
famiglia.
Ma è anche una pietà per la propria condizione di essere destinato
alla caducità, timoroso per ciò che non comprende, in balia di un destino a cui
non può contrapporsi.
Virgilio non è stato quindi solo testimone attento di un'epoca, ma
ha saputo trarre dai fatti, dagli eventi e dalle riflessioni pensieri
filosofici la cui portata non si è esaurita nell'arco pur lungo di Roma
imperiale, ma è andata ben oltre, arrivando ai giorni d'oggi, pregnante e
fresca come se le sue opere fossero state scritte appena ieri.
L'eredità che ci ha lasciato è di inestimabile valore, una
traccia, una via luminosa da seguire duemila anni fa, come oggi e come con
tutta probabilità anche in futuro.
Fonti:
Publio
Virgilio Marone – Bucoliche –
BUR;
Publio
Virgilio Marone – Georgiche
– BUR;
Publio Virgilio Marone – Georgicon – Traduzione di Elvio Natali – Maschietto & Musolino;
Wikipedia;
Gaio Giulio
Cesare – De bello civili – Barbera Editore;
Dante
Alighieri – La Divina
Commedia – BUR.