Il Cuamm e il "mal d'Africa"
"La Stampa - Tuttolibri " 9 aprile 2011
Non è un diario, non è un
racconto, non è giornalismo: è epica pura. Una continua lotta della vita contro
la morte, della medicina contro le malattie, del bene contro il male. Il
protagonista della narrazione è grande, pericoloso, impenetrabile: l'Africa.
L'Africa sub-sahariana, l'Africa nera, quella dove andare è un'impresa
terribile, e poi non riesci più a tornare a casa. È il “mal d'Africa”, ma
stavolta capovolto di senso. Il mal d'Africa dei colonialisti e dei turisti è
la soddisfazione di sentirsi dèi con un'intera umanità
al servizio: padroni che dispongono del lavoro e della vita altrui. Il mal
d'Africa dei medici del CUAMM è la gioia di poter fare il massimo bene a chi ne
ha il massimo bisogno: piantano ospedali che hanno un bacino d'utenza di
duecento chilometri di raggio, i malati ci arrivano dopo due giorni di viaggio
per strada o per fiume, hanno bisogno di tutto perché tutta la loro vita è un
continuo bisogno, mangiare dormire partorire guarire da malattie che in Europa
soni banali e là sono mortali. Là quel che fa un medico non è una piccola
azione scientifica ma un miracolo, il malato si sente graziato, il bambino
malato si lega al medico bianco come a un nuovo padre. C'è una bambina che è
stata sottoposta alla solita infame mutilazione genitale,
la pratica è andata male, sorge un'infezione, allora, solo allora, chiamano il
medico bianco, e appena il medico bianco appare la piccola malata lo chiama
“abò, abò”, che vuol dire papà. È a questo punto che il narratore lascia
partire la domanda: capite perché andiamo là? Perché la nostra scienza crea un
rapporto di sangue, andiamo là perché il rapporto di sangue è la nostra legge.
E tuttavia questa spiegazione non basta. Scorro le 140 pagine della narrazione
epica e mi dico continuamente no, non può essere solo altruismo. È un trauma
immane spezzare in due la propria vita, la prima parte in Europa e la seconda
in Africa, un'Africa che non ti dà né soldi né carriera né visibilità politica,
niente, ti seppellisce nel buio delle sue foreste, e per sopportare questo
trauma senza che il tuo sistema nervoso e mentale si spezzi, ci vuole anche, e
Rumiz lo fa trapelare, un grande tornaconto, la soddisfazione di un potente
egoismo. L'ho cercato, nel libro, e l'ho trovato. L'Africa non ti chiede e non
ti toglie soltanto, ma ti dà anche. E quel che ti dà l'Africa non te lo dà
l'Europa. Facendo il medico in Africa hai di più che facendolo in Europa. L'uomo
africano è l'Ultimo della Terra, sta in un Altrove dove si respira il senso
dell'Aldilà. Tutto è smisurato. Quando ritorni in Europa, senti che tutto è
piccolo, cupo, sovraffollato. Là tutto è natura, istinto, contatto. Ci sono
popoli che non imparano la coltivazione, perché quando sono senza cibo lo
chiedono ai confinanti, che si sentono in dovere di darglielo. Rientrando in
Italia, il primo choc è la vista delle carrozzine: i figli sono tenuti staccati
dal corpo della madre, un distacco che i piccoli africani non patiscono mai.
Paolo Rumiz fa il calcolo delle forze che il CUAMM ha impiegato in Africa: 1330
uomini e donne, 4300 anni di servizio, 1123 medici e operatori più 207 loro
coniugi. Il CUAMM è il Centro Universitario degli Aspiranti e Medici Missionari
con sede a Padova, nel cuore della Padania. Quindi questa è l'altra faccia
della stessa terra: la missionarietà contro la xenofobia. “E se muori in
Africa?” chiede un figlio al padre che parte. Risposta: “Molto meglio morire in
Uganda o in Mozambico che giocando a tennis a Modena o a Carpi”. Perciò state
attenti quando sputate sulla Padania, perché la Padania è anche questo.
Paolo Rumiz, Il bene ostinato, Feltrinelli, 2011, pagg. 140, euro 14,00
Ferdinando Camon
www.ferdinandocamon.it