Bellissimo romanzo su
una nata brutta
"La Stampa -Tuttolibri " 28 gennaio 2011
La
bruttezza è una tara esistenziale: quando la protagonista nasce i medici
evitano che madre e padre la vedano, quando cresce i genitori la chiudono in
casa, non vogliono mandarla a scuola o al conservatorio. Nella famiglia dove
c'è una figlia brutta è difficile vivere, parlare, mangiare. Perfino trovare
una domestica o una tata. La più saggia di queste se ne va dichiarando: “C'è
troppo dolore in questa casa”. La figlia brutta imbruttisce la madre, che si
lascia andare e non parla più. La bruttezza è un tossico, come la bellezza è un
lievito. La madre non allatta una figlia brutta, non ce la fa. L'angoscia della
bruttezza tracima fuori della famiglia, invade il lavoro dei genitori, lo
sabota: il padre fa il ginecologo, ma un po' alla volta perde le pazienti
incinte, perché “vedevano nelle mie (il romanzo è in prima persona, parla
Rebecca) forme belluine la rappresentazione
crudele delle loro paure”. Tutto questo è condensato già nelle primissime
pagine; visto il problema, tu lettore pensi: adesso lavora alla soluzione. No,
non è così. Perché quel problema genera (o è generato da) tanti altri problemi,
e il racconto lavora all'impostazione e, per quanto possibile, alla soluzione
di tutti. C'è il problema della bambina nata brutta, che rinvia a chi c'è prima
della nascita, dio o Dio o come si chiama; c'è il problema del padre, che non
regge il proprio ruolo, non accompagna la figlia a scuola; della madre, che si
chiude in un silenzio in cui la piccola si sente annegare (ma alla fine troverà
il diario della madre, e sarà come ricominciare da capo il rapporto con lei,
soffocato stavolta da un eccesso di intimità e di rivelazioni); il problema
della zia Erminia, che non ama la madre, perché?,
mentre ama troppo il padre, suo fratello, perché?; il problema dell'amica di
scuola, Lucilla, che (unica fra tutti) la saluta e le parla fin dal primo
giorno, forse perché è grassa, e grassa con brutta unisce tara con tara…
Lavorando alla soluzione di tanti problemi, di tante vite, il libro acquista una struttura
a delta, terminando si ramifica. È qui la sua sapienza. Non so quanti anni
abbia l'autrice, che con quest'opera ha vinto il premio Calvino (non sarà mai esecrato
abbastanza il tabù delle donne, di dire la propria età), ma anche se ne ha
pochi, questa è un'opera matura, sapiente, memorabile per la sagacia che
ostenta nel trovare uno sbocco coerente a tante biografie intrecciate, e per
l'altezza che attinge nel narrare la catastrofe, la tragedia e il miracolo. La
catastrofe della nascita sventurata, la protesta contro (che cosa? I Greci
direbbero:) il Fato; il miracolo di introdurre lo splendore della bellezza, una
bellezza “che migliora l'umanità”, là dove sembrava che l'umanità toccasse il
vertice della sua non-riuscita. E la tragedia: l'autrice introduce alcune
soluzioni tragiche (un suicidio, un omicidio) con la mossa fulminea di un
narratore di gialli, sbatti sul suicidio o sull'omicidio e non ti opponi, bastano
due righe perché tu capisca che non poteva finire se non così. Quando la brutta
svela la propria genialità non nel suonare musiche altrui ma nel creare musiche
proprie, vien definita “un-miracolo-della-natura”, e
la sua amica la chiama “stra-or-di-na-ria-men-te bella”: siamo a pagina 162, la
penultima, mentre la prima riga della prima pagina diceva “una donna brutta”.
Ma il libro non
è la storia di una donna brutta che diventa bella. Bensì di una donna che, dal
mondo dove tutti, compresa lei, la sentono come brutta, si costruisce un mondo
su misura, dove tutto viene ricalibrato. Perfino la coppia. Perfino la
maternità. È l'ultima sorpresa dell'ultima pagina. Nei
ringraziamenti l'autrice avverte: “Rebecca vive nel quartiere delle Barche, ai
piedi del colle su cui sorge il santuario della Madonna di Monte Berico”: vien
voglia di cercarla, quando si va lì.
Mariapia Veladiano, La vita accanto, Einaudi, pagg. 172, ISBN 9788806205980, € 16,00
Ferdinando Camon
www.ferdinandocamon.it