Nikos Kazantzakis, l'autore
de “L'ultima tentazione di Cristo”
nel Libro Nero della Chiesa
di Giuseppe Iannozzi
Si fa un gran parlare di Michel Houellebecq definendolo il
nuovo Céline francese. Forse è vero: ma al momento, non credo che Houellebecq
abbia raggiunto la perfezione nichilista di Louis-Ferdinand Céline, e non è detto che in futuro ne
sia capace. Mi pare invece assodato che Houellebecq, a differenza di tanti
contemporanei francesi, ha saputo portare un vento di novità all'interno della
letteratura mondiale, un vento anarcoide che par quasi dichiarare “io non credo in niente, non ho paura di niente,
quindi sono un uomo libero.” Seppur con mezzi e forme diverse,
questa bandiera è ostaggio anche del più hollywoodiano
Chuck Palahniuk che,
almeno, con il suo migliore lavoro, “Fight
Club”, ha saputo risvegliare le coscienze intorpidite della
letteratura americana. Tornando a Céline, è utile ricordare la sua bandiera, determinata in una declinazione scomposta, ma pur
sempre anarchica, forse completamente nichilista: “E' forse questo che si cerca nella vita, nient'altro che questo, la
pena più grande per diventare se stessi prima di morire…” Céline
era medico, intellettuale, un po' curvo come Giacomo Leopardi, gli occhi
spiritati e una volontà quasi incrollabile nel tentare di guarire (di ammalare)
l'umanità che non la smetteva di vivere, di viversi addosso. Palahniuk e
Houellebecq sono oggi i portabandiera di questa filosofia di vita, ma è
difficile credergli completamente: si sarebbe tentati di credere almeno in
Houellebecq, se non altro perché è lontano dai cliché hollywoodiani; ma è solo
una tentazione, forte, ma nulla di più.
Chuck Palahniuk oggi è al centro di molta
attenzione, giustificata ma anche ingiustificata: nella verve di questo
americano tutto bicipiti e cervello è possibile riscontrare temi cari al P.K. Dick di Ubik ma anche temi più profondamente
sociali, quelli che hanno fatto la fortuna di Kurt Vonnegut. Eppure né Palahniuk né Houllebecq sono
la risposta a una narrativa migliore, lontana dalla serialità a cui siamo stati
abituati da troppi editori e autori. Entrambi investono se stessi tentando di
essere un po' come Céline, ma il risultato finale è una Ninna Nanna stonata che ricorda
vagamente la pazzia lisergica di Oliver
Stone, quella presente in Natural
Born Killers; ciò vale almeno per l'autore di Fight Club, mentre Houellebecq riesce
invece ad essere più convincente rispetto al suo collega americano.
Questa introduzione, molto
schematica, era solo per introdurre Nikos Kazantzakis. Nikos
Kazantzakis, nato a Candia (Creta) nel 1883, è morto a Friburgo nel 1957.
Allievo a Paris di H. Bergson, Kazantzakis subì, mai passivamente, le influenze
di filosofi di grosso calibro ma soprattutto di Nietzsche. Attratto anche dall'estetismo di Gabriele D'Annunzio, e
successivamente dal buddhismo e del materialismo storico, al centro della sua
multiforme opera è giusto ricordare almeno il poema Odissea del 1938: il motivo precipuo dell'Odissea, raccontata da Kazantzakis, è
un infinito viaggio dell'uomo verso un tentativo di compiutezza, il cui filo
d'Arianna delle esperienze metatemporali e simboliche è in mano al
protagonista-uomo che incontra Don
Quijote, Buddha e
Confucio. Ma Nikos Kazantzakis non ha visto
fortuna nell'immediato dopoguerra con i suoi romanzi, romanzi che oggi
dovrebbero far impallidire lo stesso Salman
Rushdie tanta è la forza espressiva e nichilista dell'autore: Zorba il greco (1946), Cristo di nuovo in croce
(1954), Il poverello di Dio (1956), solo per citare i suoi lavori
più famosi, oggi appartengono alla storia della letteratura mondiale. Ma è “L'ultima tentazione di Cristo” a
far la fama e, purtroppo, la sfortuna di Nikos. Nel 1954 il Pontefice della
Chiesa Cattolica mise “L'ultima
tentazione di Cristo” nell'Index
dei Libri Vietati; in risposta soltanto una frase telegrafata da
Kazantzakis, ripresa dall'apologetico Tertulliano, “Ad tuum, Domine, tribunal appello.” Come dice Luciano Canfora, “la storia del libro è soprattutto la storia della
sua distruzione.” In questo senso si possono leggere i divieti o i
rifiuti di pubblicazione dei suoi scritti, il fatto che per due voti Nikos non
entrò nell'Accademia Greca, la perdita del premio Nobel nel '56, e il gesto
della chiesa ortodossa – sintomo di odio, di stupidità -, che non ha permesso
l'esposizione della salma dell'autore ad Atene. L'autore
greco dedicò la vita intera alla scrittura: amava l'Italia e Dante oltre al D'Annunzio: nel 1932
Nikos traduce “La Divina Commedia”
in soli quarantacinque giorni nella metrica greca della terza rima.
Molto attaccato ad Assisi, alla figura di San Francesco, Nikos non dimenticò di approfondire né Machiavelli né Pirandello. “Veniamo da un abisso oscuro; ritorniamo in un
abisso oscuro. Lo
spazio luminoso che intercorre tra di loro lo chiamiamo vita. Appena nati
inizia il nostro ritorno; contemporaneamente l'inizio e il ritorno; ogni attimo
moriamo. Per questo molti hanno protestato: lo Scopo della
vita è la morte”, così Kazantzakis apre la sua
“Ascetica” (Esercizio Mistico), che è la
summa del pensiero filosofico del grande autore greco.
E poi il grido di Dio: “Io,
l'Urlo, sono il tuo Signore, il tuo Dio! Non sono un rifugio. Non sono una Casa, neanche
la speranza. Non sono Padre, né Figlio, né Spirito. Sono il tuo Generale! Tu
non sei uno schiavo, né un giocattolo nelle mie mani. Non sei mio amico, non
sei mio figlio. Sei il mio compagno nella battaglia. Difendere coraggiosamente
gli stretti che ti ho affidato; non tradirli! Hai il dovere e le possibilità
per diventare un eroe nel tuo ambito. Amare il pericolo. Qual è la cosa più
difficile? Questa pretendo! Qual è la strada da seguire? La salita più ardua.
Questa strada ho intrapreso anch'io; seguimi! Impara ad obbedire. Solo quello
che obbedisce ad un ritmo superiore a se stesso è libero. Impara a comandare.
Solo colui che sa comandare è il mio rappresentante su questa terra. Amare la
responsabilità. Dire: io, soltanto io ho il dovere di salvare il mondo. Se non
si salverà sarà soltanto colpa mia.”
L'influenza di Nietzsche è fortissima in queste parole, ed è il motivo per cui
oggi ancora, ingiustamente e proditoriamente, l'opera di Kazantzakis è quasi
invisibile.
“L'ultima tentazione di Cristo”
– che ha anche ispirato un buon film di Martin
Scorsese del 1988 accompagnato dalle musiche straordinarie di Peter Gabriel -, che io sappia è
stato pubblicato l'ultima volta in Italia nel 1988 per i tipi Frassinelli.
Quale l'innovazione filosofica
in Nikos Kazantzakis?
Nessuna, ma non s'intenda che sia poco o niente, è invece vero che è troppa
l'invenzione. Si tenga presente che l'autore quando venne seppellito su una
montagna, a Creta, sulla sua epigrafe, per volontà espressa dallo stesso Nikos,
vennero incise tre frasi il cui contenuto è politico, ontologico, teologico e
filosofico: “non temo niente, non spero niente, sono libero.”
Il vaso di Pandora, con la tumulazione di Nikos, è stato aperto, ancora una
volta, definitivamente perché, sì, è vero, tutto s'è compiuto. Ma è solo
l'inizio, un inizio che è ideale continuum per lo Sciascia svizzero, Friedrich Dürrenmatt. In Dürrenmatt
la struttura narrativa non finisce negando se stessa, piuttosto mette a nudo le
mostruosità di cui è capace l'uomo. Emblematico, e
profondamente veritiero lo Sciascia svizzero: “Non mi riferisco solo alla circostanza che tutti i vostri criminali
trovano la punizione che si meritano. Perché questa bella favola è senza dubbio
moralmente necessaria. Appartiene alle menzogne ormai consacrate, come pure il
pio detto che il delitto non paga – mentre basta semplicemente considerare la
società umana per capire dove stia la verità a questo proposito – ma lasciamo
correre tutto questo, se non altro per un principio puramente commerciale, dato
che ogni pubblico ed ogni contribuente ha diritto ai suoi eroi e al suo happy
end, e tanto noi della polizia quanto voi scrittori di mestiere siamo tenuti a
fornirlo nella stessa maniera. No, quel che mi irrita di più nei vostri romanzi
è l'intreccio. Qui l'inganno diventa troppo grosso e spudorato. Voi costruite
le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il
delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta
che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il
criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa
finzione mi manda in bestia.” Come Dürrenmatt, anche Kazantzakis nega
l'happy end: non c'è alcuna mano che ci venga tesa, solo la negazione domina su
tutto, la negazione della felicità, ma anche del dolore, della falsità e della
verità. Il nichilismo – ostentato con estrema
padronanza conoscitiva dell'animo umano – operato da Kazantzakis è “santo” in
una soluzione dove morte e vita si equivalgono: “E combattiamo tutti – piante, animali, uomini e idee – in questo breve
frangente, che è la nostra vita personale, per ordinare il Caos dentro di noi,
per quietare l'abisso, per rielaborare la totale oscurità che c'è nei nostri
corpi, rendendola luce.” Non è ammissione che la salvezza è a
portata di mano, piuttosto è la negazione totale assoluta che una salvezza
possa esistere. La luce di cui si fa portatore Kazantzakis è
nicciana, una volontà di potenza che rifugge la falsità delle illuminazioni:
quando Nikos Kazantzakis introduce Dio, nel Creato, è soprattutto la negazione
che Dio ci salverà, e con le stesse parole di Kazantzakis, “Noi
salveremo Dio, combattendo, creando, trasformando la materia in spirito. […]Ci dobbiamo salvare
dalla salvezza e dai salvatori.” E' il trionfo
del materialismo, la morte è materia e come tale va trattata, al pari della
vita, che è anch'essa materia: “Il mio
Dio non è onnipotente, lotta, rischia ogni momento, freme, vacilla su ogni
ente, grida.
Incessantemente è sconfitto e di nuovo si erge, sporco di sangue e di fango, e
ricomincia la lotta.” Inoltre,
sempre l'autore greco afferma: “Sii
dissidente, inquieto, insoddisfatto… Quando un'abitudine degenera in
conformismo, distruggila!” Ed ancora: “L'essenza del nostro Dio è la LOTTA. In questa lotta si manifestano e operano
eternamente il dolore, la gioia e la speranza. Il salire e la guerra
controcorrente generano in noi il dolore. Ma il Dolore non è il monarca
assoluto. Ogni vittoria, ogni equilibrio è solamente un momento della scalata,
che riempie con gioia ogni ente vivente, che respira, cresce, si innamora e
genera. Ma all'interno della gioia e del dolore c'è la speranza eterna di
sfuggire alla sofferenza, di moltiplicare la felicità. E' così che ricomincia
la salita, il dolore, rinasce la gioia e ricompare di nuovo la speranza. Il Ciclo non ha mai termine.” In
tutta la sua opera, partendo da “Il poverello di Cristo”, passando per l'”Ascetica”, arrivando infine a “L'ultima tentazione di Cristo”, Nikos Kazantzakis ci presenta non un Cristo di dolore, ma il dolore stesso, la felicità
che è possibile solo attraverso “il Ciclo che non ha mai termine”: “Scosse
la testa e bruscamente si ricordò dove si trovava, chi era e perché soffriva.
Una gioia selvaggia e indomabile si impadronì di lui. No, no, non era un
vigliacco, disertore, traditore. No, era inchiodato sulla croce, era stato
leale fino alla fine, aveva mantenuto la sua parole.
Lo spazio di un lampo, nell'attimo in cui aveva gridato: Eli! Eli! E in cui era
svenuto, la Tentazione si era impossessata di lui e l'aveva sviato. Menzogne le
gioie, i matrimoni, i figli: menzogne i vecchi decrepiti e avviliti che lo
avevano trattato da vigliacco, da disertore, da traditore; tutto ciò non era
altro che una visione suscitata dal Maligno! I suoi discepoli vivono e
prosperano, hanno preso le vie di terra e di mare e annunciano la Buona
Novella. Tutto è avvenuto come doveva, sia lodato Iddio! Levò un grido di trionfo:
tutto s'è compiuto! E fu come se dicesse: Tutto comincia.”
Dürrenmatt mette a
nudo la mostruosità dell'umano esistere, Nikos
Kazantzakis spoglia la nudità stessa dell'umano esistere: per
entrambi, la giustizia umana non esiste. In Dürrenmatt non si risolve mai
niente: la giustizia non trionfa attraverso l'uomo e il concetto che esso (l'uomo) ha di essa; in Kazantzakis la
giustizia terribile è “il Ciclo che non ha mai termine”, o, se si preferisce,
un “eterno” cercare un altro Egitto, ma sempre in Egitto si dovrà fuggire come
San Giuseppe. L'“eterno” è il
nichilismo che spaventa, che fa orrore agli animi deboli, inconsapevoli di se
stessi. Chi oggi non teme
l'“eterno” non temerà né il dolore né la felicità, siano essi materia per la
vita, per la morte.