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  Letteratura  »  Poesia e filosofia in Tito Lucrezio Caro, di Corrado Sebastiano Magro 25/07/2011
 

Poesia e filosofia in Tito Lucrezio Caro

di Corrado Sebastiano Magro

 

Da una relazione universitaria, anno Domini 1962, quale breve introduzione al „De Rerum Natura“.

C. Marx usò un'espressione tutto sommato innocente quando definì la religione: “oppio dei popoli”. Circa duemila anni prima, Tito Lucrezio Caro la stimmatizzò con un detto ben più incisivo destinato a restare valido nei tempi e nei luoghi:
“TANTUM RELIGIO POTERIT SUADERE MALORUM!”.

Le poche riflessioni di vecchia data e riportate di seguito, hanno il solo scopo di permettere un primo contatto con un argomento degno di ben più ampio respiro, per iniziare a gustare il sapore profondamente umano dell'opera di Tito Lucrezio Caro, fedele al pensiero filosofico che gli servì da filo conduttore. Per più ampie informazioni e considerazioni rinviamo il lettore all'ottimo contributo di Diego Fusaro (www.filosofico.net/lucrezio.htm)
Il „De Rerum Natura“ ci può fare comprendere Lucrezio nella cornice dei tempi in cui visse, così come ci sono stati tramandati. Limitandoci ai soli versi, ci resterebbero precluse le conoscenze dei meriti e dei limiti relativi alla sua travagliata personalità. Faremmo lo stesso errore di critici e storici anche famosi che riuscirono a vedere in lui solo, come si espresse anche il Cantù, il disgregatore di un ordine superiore, l'ateo materialista che cerca di gettare orridamente nel disordine e nella melma tutta l'umanità che si sforza ad innalzarsi (sic et simpliciter) con la religione ad una vita più nobile, più spirituale.
Ahimé, potremmo aggiungere osservando quello che le religioni hanno fatto, fanno e faranno.
Una considerazione supplementare riguarda il termine “religio” attorno al quale gli esegeti si affannano, taluni cercando nei buchi neri dello spazio di un ermetismo artificioso che si adatti al termine religio, altri incalzati dalla paura che esso possa essere letto e interpretato “tel quel” e altri perché devono pur guadagnarsi la vita in qualche modo.
L'autore del presente, a fonte del suo modesto bagaglio culturale, si permette di leggere e interpretare “religio” così come suona. Nei secoli e nei millenni la “religio” ha cambiato la sua forma ma non la sua sostanza. Agli dei con sembianze e abitudini umane, che ogni tanto facevano a botte e fornicavano, fin quando non interveniva uno Zeus pronto a buttarsi nella mischia e pretendere per se la parte del leone, sono subentrati altri più diafani, inaccessibili nelle loro residenze sideree e accompagnati da una schiera di politici alla guida d'infiniti ministeri celesti quasi tutti con portafoglio: i santi (che se il portafoglio da gestire non lo hanno ricevuto in vita, lo ricevono dopo morti). Per il resto tutto rimane e funziona come prima e sotto tutte le latitudini, con, ad ogni svolta dietro l'angolo, Cerberi e Caronti, demoni tra i più disparati, mezzelune ed harem celesti in analogia ai tempi di Lucrezio.

Chiudiamo il divagare e accettiamo l'ipotesi che, secondo il Della Valle, fa nascere il poeta in Campania verso il 93-95 a. C. da una agiata famiglia patrizia e che riceve la sua educazione in Roma. In tale contesto la figura più prossima all'adolescente è, com'era d'uso, il pedagogo formatore (oggi diremmo il “coach” privato) al quale veniva affidato e che lo segue da vicino, ma non si può in nessun caso ignorare che il vero formatore, quello che agisce direttamente sul discepolo che a giusta ragione passeggia e vive dove si svolge pubblicamente la vita, è l'ambiente.
Le parole, le belle frasi, i consigli lasciano qualche traccia, secondo la predisposizione che il discepolo ha per accoglierli nel suo animo e di conseguenza esercitano un'influenza molto relativa su di lui; ma i fatti, gli avvenimenti di ogni giorno scavano solchi spesso indelebili anche negli esseri maturi, rivoluzionano i nostri ideali, travolgono il nostro essere e si presentano come gli unici costruttori che spesso con tutta la loro crudezza impilano le mattonelle della nostra crescita, della nostra vita e della nostra logica.
Anche per Lucrezio fu così.
Nella sua mente vivida e nel suo essere ardente s'incidono i tristi episodi della Roma del tempo e vi rimangono. E quando il fanciullo fatto uomo cercò una spiegazione per scoprire il perché dell'infelicità umana, scavò e indagò nel suo intimo.
Fu allora che ai suoi occhi si presentarono le teste mozze dei prescritti di Silla, i lamenti soffocati nel gorgoglio del sangue delle vittime sgozzate della vendetta privata, il timore generale che incombeva su ogni singolo cittadino, le guerre tra Mario ebbro di vendetta e il dittatore spietato che assiste alle stragi senza battere ciglio e che volle nell'epitaffio: “nessuno fece tanto male si suoi nemici e tanto bene ai suoi amici”, il tutto accentuato da un periodo di dissolvimenti politici, congiure e anarchia che provavano a disintegrare la stessa Roma.
In mezzo a tale marasma il sensibile Lucrezio non può rimanere impassibile e cerca anelante qualcosa che plachi la sua ansia. Forse egli volse lo sguardo alla religione ma ne rimase deluso quando si accorse che la stessa religione era un'ottima arma nelle mani dei politici che da essa erano aiutati a comprimere i diritti universali dell'uomo.
Nella ricerca affannosa di una via d'uscita si orienta allora verso la filosofia di Epicuro per trovare quella “catarsi” da tempo anelata. È allora che si esprime con voce patetica, cercando di scongiurare il pericolo, richiudendosi, come taluni pretendono, non nella comoda atarassia epicurea ma in un grido di dolore che spezza l'animus lucreziano (facendo bene attenzione alla differenza tra animo ed animus che il poeta contrassegna) e che rimbomba pietoso, lacrimante quasi a chiedersi il perché di tali cose:
sanguine civili rem confiant divitiasque conduplicant avidi, ceadem caedi accumulantes” (mettono insieme un patrimonio col sangue dei concittadini e raddoppiano le ricchezze ammucchiando strage su strage).
Se il ritmo dell'opera prende spesso il tratto dell'argomentatore freddo, del pensatore avveduto, è anche vero che all'improvviso nei diversi libri emerge la lirica in tutta la sua purezza. Non siamo confrontati a truce pessimismo, ma a bellezza poetica che tratta argomenti che la logica attuale ritiene certi e scontati e rasenta principi e scoperte salutati a gran voce in tempi poco remoti.
Sue sono le descrizioni di travolgimenti apocalittici innestati dall'uomo o dalla natura, sue sono le parole che un grande scienziato, il Lavoisier, pronunciò costituendo un principio posto alla base dell'attuale ricerca scientifica che in Lucrezio suona con: “nulla nasce dal nulla né torna al nulla” o in stile contemporaneo: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Tutto questo senza confrontarci con la sua gnoseologia della quale qui non facciamo menzione.
Sembra inoltre che la filosofia di un altro grande, Leibniz, sia stata partorita dall'opera lucreziana come idea che, provenendo dall'iperuraneo mondo platonico, si sia reincarnata nella “forma” Leibniz dopo essere sfuggita, uscita in sotterfugio dalla “forma” Lucrezio.
Molti critici rimproverano al poeta arcaismi e volgarismi quasi che la poesia stesse nel mellifluo parlare o nella forbita oratoria, piuttosto che nell'immediatezza dell'espressione. Non ci si avvede che tutti quei vocaboli che appaiono come teste di “orridi mostri” ai cultori della retorica inzuppata e macerata nel bello stile ciceroniano, servono a rendere vivo e palpabile anche il più astratto dei termini che rende vivo il concetto esposto grazie ad un'onomatopea tutta propria e fortemente efficace.
Espressioni come quelle che ci fanno sentire l'orrido della peste che dilania gli ateniesi; il ribrezzo e quasi il puzzo trapelano dai versi e la terrificante visione del male che miete vittime, scorre tremenda davanti al nostro sguardo allucinato.
Che Lucrezio si sia fatto influenzare da Tucidide quasi plagiandolo come vorrebbero alcuni suoi denigratori?
Anche se il grande tragico greco ha dato spunto di creazione a Lucrezio, ciò non sminuisce il valore del poeta romano davanti agli altri poeti romani che in gran parte ”copiarono” dal greco. Bisogna poi tener conto che l'espressione del greco Tucidide, il suo sentimento, le sue parole non le troviamo trasportate nel testo di Lucrezio che osserva il mondo, lo spettacolo, con gli occhi del romano, lo comprende con il cuore di un romano e lo esprime nella forma più dura ed aspra e nello stesso tempo più pura della lingua di Roma, usando termini radicati in essa ed evadendo da essa, egli ne crea dei nuovi non disponendo della ricchezza lessicale dei greci.
Se altrove Lucrezio attinge ad Epicuro, Parmenide, Empedocle ed altri, ha pure, come fa notare il latinista Concetto Marchesi riferendosi ai versi 93-95 del libro primo, la sua Calliope “callida musa”.
È di dovere riconoscere che l'impatto espressivo del poeta-filosofo non è quello delle fonti a cui attinge ma tutto suo, come suo è il linguaggio e la misteriosa forza che terrificandoci ci trasporta assieme alla fantasia nell'uragano del naufragio cosmico scatenato, dove la materia si sviluppa, ondeggia, gettata di qua e di là per le vie dello spazio a secondo le scissioni o le unioni tra gli atomi (libro 2 v.v. 522-535) e continuando a citare i versi 271 e seg. dello stesso libro, ci confrontiamo a poesia vera, legata alle più vive esposizioni delle sue teorie filosofiche dalle quali emana.
Ci tocca pur dire che come seguace di Epicuro, ed al quale rivolge spesso la parola in tono fiducioso, non abbia tenuto molto conto dei precetti del maestro che aborriva la poesia. L'epicureismo si proponeva di fare acquistare quelle virtù capaci di trasportare l'uomo in una sfera di pacata indifferenza a tutta la vita e ai suoi risvolti, e se Lucrezio sentiva la poesia, non la poteva comprimere nel proprio cuore per averne un'eterna tempesta. Egli la rendeva manifesta operando un doppio bene: quello di calmare il proprio animo eccitato e quello di servirsi di un mezzo espressivo e comunicativo per divulgare la dottrina amata e seguita.
Resta sempre il dato di fatto che Lucrezio non è un ortodosso ligio ai canoni e agl'insegnamenti epicurei, arrivando persino a parlare senza alcun senso allegorico delle divinità (cosa che Epicuro condannava apertamente) e abbandonandosi spesso ad un tono mesto ed elegiaco, espressione questa dell'animo, anch'essa condannata da Epicuro. Ed è evidente anche sotto questo punto di vista, Lucrezio non si pone quale seguace bigotto e cieco di una linea confessionale, ma conserva, protegge e difende la sua libertà di pensiero senza timore di eludere sistemi di fedi e dogmi.
Questa caratteristica ci spinge anche a distinguere diversi aspetti della sua personalità imbattendoci nel poeta, nel filosofo e nel poeta-filosofo.
Il primo aspetto è il poeta che, anche senza abiurare la dottrina di Epicuro, riesce a varcare almeno formalmente se non idealmente (ma bisognerebbe porsi il quesito per analizzarlo con più attenzione) i limiti che può imporre all'arte ogni sistema di logica e si esprime in inni lirici superbi, quali l'invocazione a Venere, che, come dice il Marullo, “esce fuori dal sentimento e dal concetto del poema”.
Il secondo aspetto, quello del filosofo, sussiste in gran parte del “De rerum natura”, titolo di per se stesso con intrinseco significato scientifico, lasciando al filosofo argomentazioni che possono essere messe in discussione, quando il tono duro dogmatico dell'uomo convinto e certo di una verità, esclude categoricamente le altre.
Il terzo aspetto di personalità lucreziana è forse il più importante, quello che più lo caratterizza. Il poeta-filosofo fonde le sue argomentazioni difendendole con dimostrazioni ed esempi pratici, spesso assumendo un tono elegiaco, che lo stesso Virgilio, il poeta lirico per antonomasia, il cantore della bellezza e dell'epopea latina imita più volte.
Se la poesia nella sua struttura è perfetta, il limite didascalico si fa spesso avvertire, presente perfino nella famosa descrizione del sacrificio di Ifigenia che sta per la tesi:
Saepous illa religio peperit scelera atque impia factae!” E qui ancora una volta sottoliniamo che “religio” non sta come dottrina esteriormente professata ma come convinzione concreta, superiore alla semplice dimostrazione esteriore della fede.
La stessa tesi è rafforzata da “turparunt sanguine foede”, dalla dolorosa meraviglia degli uomini che per il sacrificio si preparano, dalla non risparmiata atrocità nei particolari, dalla presenza del padre e dalla vergine che conscia del suo destino, con il cuore muto e attanagliato dal dolore, quasi ipnotizzata invoca in un terribile momento di acquisizione della facoltà logiche, il suo monarca con il nome di padre e tutta la tragedia si chiude con una famosissima esclamazione:
Tantum religio poterit suadere malorum!”.
È il poeta filosofo che si manifesta nei versi I e seg. del libro 2, dove canta la beatitudine del saggio epicureo che si astiene dalle ansie e dai dolori della vita, e il “suavis” in inizio di verso e di libro, ci immerge nell'oceano della tranquillità, in tutta la pace e la dolcezza del riposo. Lo è ancora nello stesso libro al v. 352 e seg. quando ricorda la dolorosa immagine della madre del vitellino che va cercando il proprio figlio, vittima del sacrificio agli dei, e non si dà pace e gira lo sguardo intorno muggendo pietosamente e niente l'attrae, niente la distrae, e nessun altro vivente della specie a se la richiama, perché vuole proprio chi ormai giace esangue sulla “truculenta ara” (con espressione pariniana che sembra essere tratta da Lucrezio), il figlio suo che sa molto bene distinguere dagli altri. E qui, annota il Croce, si sostiene la tesi (ormai assodata a verità) a che non solo gli uomini, ma anche gli animali si riconoscono tra loro per la figura o attraverso altre sensazioni, per cui il figlio corre alla madre e la madre al figlio, come le pecore di un gregge che riconoscono tra cento e più agnelli bianchi che il pastore poco distingue, il proprio figliolo. Apriamo qui una breve parentesi per aggiungere che la differenza della percezione del vissuto tra l'uomo e l'animale sta solo nella durata del processo che scorre lungo la linea temporale che nell'animale si smorza molto prima che nell'uomo.
È ancora il poeta filosofo che al lib. 5 v.1063 ragiona sul linguaggio degli animali, dove riecheggia, come ben dice il Trezza (vedi bibliografia), la tetraggine di grida superstiti di un mondo sepolto, o quando si proietta nel futuro dei secoli a venire, anticipando ardite intuizioni che contano tra le più grandi scoperte e conoscenze acquisite grazie alla scienza moderna, come quando narra o ci parla dei fasti del mondo, delle prime storie della terra ancora giovane, riferendo dell'origine della flora e della fauna terrestre nel v. 783 e seg. del medesimo libro. Continuando arriviamo al v. 976 e seg. Qui Lucrezio ci presenta la crudezza dell'età paleolitica, allorché l'uomo ancora allo stato ferino disputava cruentamente la ghianda, la caverna, la donna al proprio simile, con espressioni che come sculture marmoree descrivono quei gruppi membruti, ravviluppati tra il fogliame secco, dove in un letargo fantastico ricco di miraggi, attendono il crepuscolo mattutino, esposti al pericolo delle belve che talvolta dilaniano orrendamente le loro membra.
È sempre tale quando parla della disperata insaziabilità dell'amore carnale che s'irrita e infuria ma non consegue la compenetrazione, l'intima unione e fusione invano cercata nell'abbracciarsi e mescolarsi dei corpi, rendendo terribile la descrizione dell'amplesso sessuale.
Ci viene naturale pensare che il filosofo, essere umano come tutti, che si ferma ad analizzare tali aspetti e li descrive, abbia dovuto soffrire in se stesso l'attrazione e il terrore tremendo di un avido e triste sforzo di conquista dell'impossibile che forse lo spinse più avanti al suicidio. Egli si è espresso similmente nell'altra descrizione della donna (non quale donna in se stessa, ma quale femmina in contrapposizione al maschio), che solo l'illusione dell'amore ideale rende bella, facendoci sentire come disse ancora il Croce, il ribrezzo di chi, donna o uomo, ha provato, si è strappato, districato da una bassa e stolta illusione, o il ribrezzo di un malato convalescente, risanato da sofferenze atroci, che rabbrividisce al pensiero di una ricaduta nella malattia.
Uno sguardo collettivo al “De rerum natura” c'indìce, dissociandoci da G. Vico e associandoci a B. Croce, a dire che se l'andamento del poema lucreziano è indubbiamente didascalico, ciò non toglie che esso non debba dirsi “potentemente passionale”.
Ed ancora il Croce continua: “L'elemento passionale e sentimentale, non si disgiunge da una esposizione di scienza, la quale nella sua concretezza espressiva viene fuori sempre non dal separato intelletto, ma da tutto l'uomo; donde lo stile dei singoli scienziati che è un'utopia voler risolvere e sostituire con un cosiddetto impersonale stile scientifico, e dove per impersonale che si dica, chi ha orecchio fine percepisce sempre qualche colorazione personale”.

Testi e bibliografia:
T. Lucrezio Caro: De rerum natura
Concetto Marchesi: Disegno storico della letteratura latina
Ettore Paratore: Storia della letteratura latina
C. Trezza: Lucrezio
B. Croce: Poesia antica e moderna
E. Pignone: Problemi e orientamenti di letteratura latina
E. Rapisarda: Articoli del Trescani (Lucretiana) e del Traglia (Osservazioni sulla
lingua di Lucrezio) tratti dalla raccolta “Humanitas”
C. Cantù: La letteratura latina

 

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