Poesia e filosofia in
Tito Lucrezio Caro
di Corrado
Sebastiano Magro
Da una
relazione universitaria, anno Domini 1962, quale breve introduzione al „De
Rerum Natura“.
C. Marx usò un'espressione
tutto sommato innocente quando definì la religione: “oppio
dei popoli”. Circa duemila anni prima, Tito Lucrezio Caro la stimmatizzò con un
detto ben più incisivo destinato a restare valido nei tempi e nei luoghi:
“TANTUM RELIGIO POTERIT SUADERE MALORUM!”.
Le poche riflessioni di
vecchia data e riportate di seguito, hanno il solo scopo di permettere un primo
contatto con un argomento degno di ben più ampio respiro, per iniziare a
gustare il sapore profondamente umano dell'opera di Tito Lucrezio Caro, fedele
al pensiero filosofico che gli servì da filo conduttore. Per più ampie
informazioni e considerazioni rinviamo il lettore all'ottimo contributo di
Diego Fusaro (www.filosofico.net/lucrezio.htm)
Il „De Rerum Natura“ ci può fare comprendere Lucrezio nella
cornice dei tempi in cui visse, così come ci sono stati tramandati.
Limitandoci ai soli versi, ci resterebbero precluse le conoscenze dei meriti e
dei limiti relativi alla sua travagliata personalità. Faremmo lo stesso errore
di critici e storici anche famosi che riuscirono a vedere in lui solo, come si
espresse anche il Cantù, il disgregatore di un ordine
superiore, l'ateo materialista che cerca di gettare orridamente nel disordine e
nella melma tutta l'umanità che si sforza ad innalzarsi (sic et simpliciter)
con la religione ad una vita più nobile, più spirituale.
Ahimé, potremmo aggiungere osservando quello che le religioni hanno fatto,
fanno e faranno.
Una considerazione supplementare riguarda il termine “religio” attorno al quale
gli esegeti si affannano, taluni cercando nei buchi neri dello spazio di un
ermetismo artificioso che si adatti al termine religio, altri incalzati dalla
paura che esso possa essere letto e interpretato “tel quel” e altri perché
devono pur guadagnarsi la vita in qualche modo.
L'autore del presente, a fonte del suo modesto bagaglio culturale, si permette
di leggere e interpretare “religio” così come suona. Nei secoli e nei millenni
la “religio” ha cambiato la sua forma ma non la sua sostanza. Agli dei con
sembianze e abitudini umane, che ogni tanto facevano a botte e fornicavano, fin
quando non interveniva uno Zeus pronto a buttarsi nella mischia e pretendere
per se la parte del leone, sono subentrati altri più diafani, inaccessibili
nelle loro residenze sideree e accompagnati da una schiera di politici alla
guida d'infiniti ministeri celesti quasi tutti con portafoglio: i santi (che se
il portafoglio da gestire non lo hanno ricevuto in vita, lo ricevono dopo
morti). Per il resto tutto rimane e funziona come prima e sotto tutte le
latitudini, con, ad ogni svolta dietro l'angolo, Cerberi e Caronti, demoni tra
i più disparati, mezzelune ed harem celesti in analogia ai tempi di Lucrezio.
Chiudiamo il divagare e
accettiamo l'ipotesi che, secondo il Della Valle, fa nascere il poeta in
Campania verso il 93-95 a.
C. da una agiata famiglia patrizia e che riceve la sua
educazione in Roma. In tale contesto la figura più prossima all'adolescente è,
com'era d'uso, il pedagogo formatore (oggi diremmo il “coach” privato) al quale
veniva affidato e che lo segue da vicino, ma non si può in nessun caso ignorare
che il vero formatore, quello che agisce direttamente sul discepolo che a
giusta ragione passeggia e vive dove si svolge pubblicamente la vita, è
l'ambiente.
Le parole, le belle frasi, i consigli lasciano qualche traccia, secondo la
predisposizione che il discepolo ha per accoglierli nel suo animo e di
conseguenza esercitano un'influenza molto relativa su di lui; ma i fatti, gli
avvenimenti di ogni giorno scavano solchi spesso indelebili anche negli esseri
maturi, rivoluzionano i nostri ideali, travolgono il nostro essere e si
presentano come gli unici costruttori che spesso con tutta la loro crudezza
impilano le mattonelle della nostra crescita, della nostra vita e della nostra
logica.
Anche per Lucrezio fu così.
Nella sua mente vivida e nel suo essere ardente s'incidono i tristi episodi
della Roma del tempo e vi rimangono. E quando il fanciullo fatto uomo cercò una
spiegazione per scoprire il perché dell'infelicità umana, scavò e indagò nel
suo intimo.
Fu allora che ai suoi occhi si presentarono le teste mozze dei prescritti di
Silla, i lamenti soffocati nel gorgoglio del sangue delle vittime sgozzate
della vendetta privata, il timore generale che incombeva su ogni singolo
cittadino, le guerre tra Mario ebbro di vendetta e il dittatore spietato che
assiste alle stragi senza battere ciglio e che volle nell'epitaffio: “nessuno fece tanto male si suoi nemici e tanto bene ai suoi
amici”, il tutto accentuato da un periodo di dissolvimenti politici, congiure e
anarchia che provavano a disintegrare la stessa Roma.
In mezzo a tale marasma il sensibile Lucrezio non può rimanere impassibile e
cerca anelante qualcosa che plachi la sua ansia. Forse egli volse lo sguardo
alla religione ma ne rimase deluso quando si accorse che la stessa religione
era un'ottima arma nelle mani dei politici che da essa erano aiutati a
comprimere i diritti universali dell'uomo.
Nella ricerca affannosa di una via d'uscita si orienta allora verso la
filosofia di Epicuro per trovare quella “catarsi” da tempo anelata. È allora
che si esprime con voce patetica, cercando di scongiurare il pericolo,
richiudendosi, come taluni pretendono, non nella comoda atarassia epicurea ma
in un grido di dolore che spezza l'animus lucreziano (facendo bene attenzione
alla differenza tra animo ed animus che il poeta contrassegna) e che rimbomba
pietoso, lacrimante quasi a chiedersi il perché di tali cose:
“sanguine civili rem
confiant divitiasque conduplicant avidi, ceadem caedi accumulantes” (mettono
insieme un patrimonio col sangue dei concittadini e raddoppiano le ricchezze
ammucchiando strage su strage).
Se il ritmo dell'opera prende spesso il tratto dell'argomentatore freddo, del
pensatore avveduto, è anche vero che all'improvviso nei diversi libri emerge la
lirica in tutta la sua purezza. Non siamo confrontati a truce pessimismo, ma a
bellezza poetica che tratta argomenti che la logica attuale ritiene certi e
scontati e rasenta principi e scoperte salutati a gran voce in tempi poco
remoti.
Sue sono le descrizioni di travolgimenti apocalittici innestati dall'uomo o
dalla natura, sue sono le parole che un grande scienziato, il Lavoisier,
pronunciò costituendo un principio posto alla base dell'attuale ricerca
scientifica che in Lucrezio suona con: “nulla nasce
dal nulla né torna al nulla” o in stile contemporaneo: “nulla si crea, nulla si
distrugge, tutto si trasforma”.
Tutto questo senza confrontarci con la sua gnoseologia della quale qui non
facciamo menzione.
Sembra inoltre che la filosofia di un altro grande, Leibniz, sia stata
partorita dall'opera lucreziana come idea che, provenendo dall'iperuraneo mondo
platonico, si sia reincarnata nella “forma” Leibniz dopo essere sfuggita,
uscita in sotterfugio dalla “forma” Lucrezio.
Molti critici rimproverano al poeta arcaismi e volgarismi quasi che la poesia
stesse nel mellifluo parlare o nella forbita oratoria, piuttosto che
nell'immediatezza dell'espressione. Non ci si avvede che tutti quei vocaboli
che appaiono come teste di “orridi mostri” ai cultori della retorica inzuppata
e macerata nel bello stile ciceroniano, servono a rendere vivo e palpabile
anche il più astratto dei termini che rende vivo il concetto esposto grazie ad
un'onomatopea tutta propria e fortemente efficace.
Espressioni come quelle che ci fanno sentire l'orrido della peste che dilania
gli ateniesi; il ribrezzo e quasi il puzzo trapelano dai versi e la
terrificante visione del male che miete vittime, scorre tremenda davanti al
nostro sguardo allucinato.
Che Lucrezio si sia fatto influenzare da Tucidide quasi plagiandolo come
vorrebbero alcuni suoi denigratori?
Anche se il grande tragico greco ha dato spunto di creazione a Lucrezio, ciò
non sminuisce il valore del poeta romano davanti agli altri poeti romani che in
gran parte ”copiarono” dal greco. Bisogna poi tener conto che l'espressione del
greco Tucidide, il suo sentimento, le sue parole non le troviamo trasportate
nel testo di Lucrezio che osserva il mondo, lo spettacolo, con gli occhi del
romano, lo comprende con il cuore di un romano e lo esprime nella forma più
dura ed aspra e nello stesso tempo più pura della lingua di Roma, usando
termini radicati in essa ed evadendo da essa, egli ne crea dei nuovi non
disponendo della ricchezza lessicale dei greci.
Se altrove Lucrezio attinge ad Epicuro, Parmenide, Empedocle ed altri, ha pure,
come fa notare il latinista Concetto Marchesi riferendosi ai versi 93-95 del
libro primo, la sua Calliope “callida musa”.
È di dovere riconoscere che l'impatto espressivo del poeta-filosofo non è
quello delle fonti a cui attinge ma tutto suo, come suo è il linguaggio e la
misteriosa forza che terrificandoci ci trasporta assieme alla fantasia
nell'uragano del naufragio cosmico scatenato, dove la materia si sviluppa,
ondeggia, gettata di qua e di là per le vie dello spazio a secondo le scissioni
o le unioni tra gli atomi (libro 2 v.v. 522-535) e continuando a citare i versi
271 e seg. dello stesso libro, ci confrontiamo a poesia vera, legata alle più
vive esposizioni delle sue teorie filosofiche dalle quali emana.
Ci tocca pur dire che come seguace di Epicuro, ed al quale rivolge spesso la
parola in tono fiducioso, non abbia tenuto molto conto dei precetti del maestro
che aborriva la poesia. L'epicureismo si proponeva di fare acquistare quelle
virtù capaci di trasportare l'uomo in una sfera di pacata indifferenza a tutta
la vita e ai suoi risvolti, e se Lucrezio sentiva la poesia, non la poteva
comprimere nel proprio cuore per averne un'eterna tempesta. Egli la rendeva
manifesta operando un doppio bene: quello di calmare il proprio animo eccitato
e quello di servirsi di un mezzo espressivo e comunicativo per divulgare la
dottrina amata e seguita.
Resta sempre il dato di fatto che Lucrezio non è un ortodosso ligio ai canoni e
agl'insegnamenti epicurei, arrivando persino a parlare
senza alcun senso allegorico delle divinità (cosa che Epicuro condannava
apertamente) e abbandonandosi spesso ad un tono mesto ed elegiaco, espressione
questa dell'animo, anch'essa condannata da Epicuro. Ed è evidente anche sotto questo punto di vista, Lucrezio non si pone quale seguace
bigotto e cieco di una linea confessionale, ma conserva, protegge e difende la
sua libertà di pensiero senza timore di eludere sistemi di fedi e dogmi.
Questa caratteristica ci spinge anche a distinguere diversi aspetti della sua
personalità imbattendoci nel poeta, nel filosofo e nel poeta-filosofo.
Il primo aspetto è il poeta che, anche senza abiurare la dottrina di Epicuro,
riesce a varcare almeno formalmente se non idealmente (ma bisognerebbe porsi il
quesito per analizzarlo con più attenzione) i limiti che può imporre all'arte
ogni sistema di logica e si esprime in inni lirici superbi, quali l'invocazione
a Venere, che, come dice il Marullo, “esce fuori dal sentimento e dal concetto
del poema”.
Il secondo aspetto, quello del filosofo, sussiste in gran parte del “De rerum
natura”, titolo di per se stesso con intrinseco
significato scientifico, lasciando al filosofo argomentazioni che possono
essere messe in discussione, quando il tono duro dogmatico dell'uomo convinto e
certo di una verità, esclude categoricamente le altre.
Il terzo aspetto di personalità lucreziana è forse il più importante, quello
che più lo caratterizza. Il poeta-filosofo fonde le sue argomentazioni
difendendole con dimostrazioni ed esempi pratici, spesso assumendo un tono
elegiaco, che lo stesso Virgilio, il poeta lirico per antonomasia, il cantore
della bellezza e dell'epopea latina imita più volte.
Se la poesia nella sua struttura è perfetta, il limite didascalico si fa spesso
avvertire, presente perfino nella famosa descrizione del sacrificio di Ifigenia
che sta per la tesi:
“Saepous illa religio peperit scelera
atque impia factae!” E qui ancora una volta sottoliniamo che
“religio” non sta come dottrina esteriormente professata ma come convinzione
concreta, superiore alla semplice dimostrazione esteriore della fede.
La stessa tesi è rafforzata da “turparunt
sanguine foede”, dalla dolorosa meraviglia degli uomini che per il
sacrificio si preparano, dalla non risparmiata atrocità nei particolari, dalla
presenza del padre e dalla vergine che conscia del suo destino, con il cuore
muto e attanagliato dal dolore, quasi ipnotizzata invoca in un terribile
momento di acquisizione della facoltà logiche, il suo
monarca con il nome di padre e tutta la tragedia si chiude con una famosissima
esclamazione:
“Tantum religio poterit suadere malorum!”.
È il poeta filosofo che si manifesta nei versi I e seg. del libro 2, dove canta
la beatitudine del saggio epicureo che si astiene dalle ansie e dai dolori
della vita, e il “suavis” in
inizio di verso e di libro, ci immerge nell'oceano della tranquillità, in tutta
la pace e la dolcezza del riposo. Lo è ancora nello stesso libro al v. 352 e
seg. quando ricorda la dolorosa immagine della madre del vitellino che va
cercando il proprio figlio, vittima del sacrificio agli dei, e non si dà pace e
gira lo sguardo intorno muggendo pietosamente e niente l'attrae, niente la
distrae, e nessun altro vivente della specie a se la richiama, perché vuole proprio
chi ormai giace esangue sulla “truculenta ara” (con espressione pariniana che
sembra essere tratta da Lucrezio), il figlio suo che sa molto bene distinguere
dagli altri. E qui, annota il Croce, si sostiene la tesi (ormai assodata a
verità) a che non solo gli uomini, ma anche gli animali si riconoscono tra loro
per la figura o attraverso altre sensazioni, per cui il figlio corre alla madre
e la madre al figlio, come le pecore di un gregge che riconoscono tra cento e
più agnelli bianchi che il pastore poco distingue, il proprio figliolo. Apriamo
qui una breve parentesi per aggiungere che la differenza della percezione del
vissuto tra l'uomo e l'animale sta solo nella durata del processo che scorre
lungo la linea temporale che nell'animale si smorza molto prima che nell'uomo.
È ancora il poeta filosofo che al lib. 5 v.1063 ragiona sul linguaggio degli
animali, dove riecheggia, come ben dice il Trezza (vedi bibliografia), la
tetraggine di grida superstiti di un mondo sepolto, o quando si proietta nel
futuro dei secoli a venire, anticipando ardite intuizioni che contano tra le
più grandi scoperte e conoscenze acquisite grazie alla scienza moderna, come
quando narra o ci parla dei fasti del mondo, delle prime storie della terra
ancora giovane, riferendo dell'origine della flora e della fauna terrestre nel
v. 783 e seg. del medesimo libro. Continuando arriviamo al v. 976 e seg. Qui
Lucrezio ci presenta la crudezza dell'età paleolitica, allorché l'uomo ancora
allo stato ferino disputava cruentamente la ghianda, la caverna, la donna al
proprio simile, con espressioni che come sculture marmoree descrivono quei
gruppi membruti, ravviluppati tra il fogliame secco, dove in un letargo
fantastico ricco di miraggi, attendono il crepuscolo mattutino, esposti al
pericolo delle belve che talvolta dilaniano orrendamente le loro membra.
È sempre tale quando parla della disperata insaziabilità dell'amore carnale che
s'irrita e infuria ma non consegue la compenetrazione, l'intima unione e
fusione invano cercata nell'abbracciarsi e mescolarsi dei corpi, rendendo
terribile la descrizione dell'amplesso sessuale.
Ci viene naturale pensare che il filosofo, essere umano come tutti, che si
ferma ad analizzare tali aspetti e li descrive, abbia dovuto soffrire in se
stesso l'attrazione e il terrore tremendo di un avido e triste sforzo di
conquista dell'impossibile che forse lo spinse più avanti al suicidio. Egli si
è espresso similmente nell'altra descrizione della donna (non quale donna in se
stessa, ma quale femmina in contrapposizione al
maschio), che solo l'illusione dell'amore ideale rende bella, facendoci sentire
come disse ancora il Croce, il ribrezzo di chi, donna o uomo, ha provato, si è
strappato, districato da una bassa e stolta illusione, o il ribrezzo di un
malato convalescente, risanato da sofferenze atroci, che rabbrividisce al
pensiero di una ricaduta nella malattia.
Uno sguardo collettivo al “De rerum natura” c'indìce, dissociandoci da G. Vico
e associandoci a B. Croce, a dire che se l'andamento del poema lucreziano è
indubbiamente didascalico, ciò non toglie che esso non debba dirsi
“potentemente passionale”.
Ed ancora il Croce continua: “L'elemento passionale e
sentimentale, non si disgiunge da una esposizione di scienza, la quale nella
sua concretezza espressiva viene fuori sempre non dal separato intelletto, ma
da tutto l'uomo; donde lo stile dei singoli scienziati che è un'utopia voler
risolvere e sostituire con un cosiddetto impersonale stile scientifico, e dove
per impersonale che si dica, chi ha orecchio fine percepisce sempre qualche
colorazione personale”.
Testi e bibliografia:
T. Lucrezio Caro: De rerum natura
Concetto Marchesi: Disegno storico della
letteratura latina
Ettore Paratore: Storia della letteratura
latina
C. Trezza: Lucrezio
B. Croce: Poesia antica e moderna
E. Pignone: Problemi e orientamenti di
letteratura latina
E. Rapisarda: Articoli del Trescani
(Lucretiana) e del Traglia (Osservazioni sulla
lingua di Lucrezio) tratti dalla raccolta
“Humanitas”
C. Cantù: La letteratura latina
www.liberolibro.it