3096 Giorni
di Natascha Kampusch
© 2011 Bompiani/Rcs Libri S.p.A.
Pag. 295 €
17,50 ISBN 45267185
Penso che tutti ricordino la storia di questa ragazza, rapita
all'età di 10 anni da Wolfgang Priklopil,
al quale è riuscita a sfuggire otto anni dopo.
Lei stessa afferma dalla copertina “Ora mi sento abbastanza forte per raccontare tutta la storia del mio sequestro”.
Ma fa di più: ci parla della sua situazione famigliare prima del
rapimento, dove per lei non è comunque stato facile esprimersi. Natascha è una
bambina alla quale è stata sottratta la sicurezza in sé stessa, quasi come se
il destino stesse preparando un terreno fertile dove far attecchire i futuri
otto anni.
Una mattina decide che è ora che vada a scuola da sola, nonostante
i suoi timori, l'incertezza, vuole dimostrare, soprattutto a sé stessa che può
farcela. Invece, a metà strada, viene presa di forza e spinta su un furgone
bianco. Portata a pochi chilometri da casa sua e rinchiusa in una piccola cella
sotto terra.
Natascha ci racconta tutti i terribili giorni, 3096, contati
proprio come farebbe un detenuto, della sua prigionia, alla mercé di un uomo di
25 anni più grande di lei, che soffre di gravi turbe psicologiche.
E lei, nonostante bambina, dimostra una maturità immensa di fronte
a questa situazione: riesce a comprenderlo, a perdonarlo. Così facendo riesce a
sopravvivere, nonostante lui sia abilissimo nell' annientare
la sua persona sia nel fisico che psicologicamente.
Le torture sono di ogni genere, assurde e pesanti come macigni
persino da leggere. Ma Natascha ha in sé la forza del perdono che le consente
di andare oltre e, quindi, di fuggire.
Nel momento in cui lei fugge, Priklopil si suicida
gettandosi sotto un treno.
Natascha ha chiaro anche il quadro della nostra società: un
insieme di persone che fa di tutto per dividere da sé il male, che ha bisogno
di individuare il mostro nell'altro; così che non li tocchi, così da non dover
riflettere che ogni essere umano ha in sé il senso del bene e del male. Che a
chiunque potrebbe accadere di essere preda di deliri, o di divenire vittima.
Non le si perdona il fatto che lei non odi, che lei non porti
dentro di sé la lama tagliente della vendetta e del rancore. Non si comprende
la sua maturità, la sua umanità. Non si accetta che una vittima possa
perdonare, perché, se lei che ha subito di tutto, è in grado di farlo, allora
anche la società dovrebbe salire su un gradino più in alto dei pregiudizi e
fare uno sforzo per comprendere prima di tutto perché accadano determinati
fatti e come si possa fare per impedirli; piuttosto che giudicarli dopo che
siano successi.
Molti hanno tacciato il suo perdono come “sindrome di Stoccolma”,
cioè una condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro
può manifestare sentimenti positivi (talvolta giungendo all'innamoramento) nei
confronti del proprio sequestratore. (Da Wikipedia).
Personalmente, dopo aver letto il libro e aver notato che mai una
volta chiama per nome il suo segregatore, ma per cognome o dicendo “il mio
rapitore”; dopo avere visto tutta la lista delle torture, delle sofferenze, di
come e quanto lui abbia fatto per renderla dipendente da lui, portandola
sull'orlo della morte per fame, costringendola a tradurre come meravigliosi,
momenti che ognuno di noi trascorre normalmente; posso asserire che nelle sue
parole non c'è mai stato un momento in cui abbia ceduto ritenendo che Priklopil
facesse ciò per il suo bene. Sempre ha ammesso la sua malattia, la sua
violenza.
Credo che questo libro, al di là della storia disumana che la
Kampusch ha sopportato per otto anni, sia una lezione di vita per tutti noi;
oltre che un importante momento di auto terapia per la stessa Natascha che è
riuscita a elaborare quanto le è accaduto, dimostrando a sé e agli altri la sua
forza nel non piegarsi, la volontà a proseguire. Come lei
stessa scrive: “Solo adesso posso tirare una riga e dire veramente: sono
libera”.
© Miriam Ballerini