Addio ad Andrea
Zanzotto
di Ferdinando Camon
"Tribuna di Treviso" e giornali collegati 19 ottobre
2011
È morto a 90 anni, e fu dunque esattamente 45 anni
fa che, dalla stazione di Padova, mi telefonò trafelato: io corsi in auto,
preoccupato, lui si aggirava per la sala d'attesa nervoso,
e mi spiegò: “Quarantacinque non li aspetto più”. Era io giorno del suo 45°
compleanno, e questo lo angosciava. Temeva il tempo. La morte. La fine. Il
distacco. L'allontanamento. La velocità. La frase che riassume e spiega le sue
molteplici paure, la pronunciò in un'intervista, per dire
come mai non era andato a ritirare un premio, un grosso premio, in Sud
Italia. Aveva preso il treno, ma a Firenze fu bloccato dall'angoscia. “Non andrebbe
in aereo?” gli chiesero. “Mai”. “E come andrebbe?”, “Forse… forse in
mongolfiera”. Capisco perché: la mongolfiera è lenta, non ha
motore, è uno spirito volante, passa sul mondo come una nuvola: è la natura che
ti trasporta. La natura: era la sua ossessione, il suo culto, l'alfa e
l'omega della sua poesia. Andrea Zanzotto è il nostro poeta più universale, un
poeta così grande che la nostra regione non lo merita. Quel che lui vedeva
intorno a sé (il dolcissimo paesaggio collinare trevigiano, il “muscolo” del
Piave, gli ossari, i vigneti…) diventava simbolo che spiega un'epoca, una
condizione, una civiltà. Non è un poeta sperimentale, come spesso si dice. Il
suo movente non era la lingua. Era la condizione umana, che sta alla lingua
come il “big bang” sta al mondo. E già che ci siamo, lui metteva in dubbio che
l'origine di tutto sia stato un “big bang”, ipotizzava che fosse meglio parlare
di “big flash”. La differenza tra il primo e il secondo è che il secondo si
offre alla contemplazione, quindi all'estasi. L'originario assoluto, ciò che è
“proto” e che è “Ur”, non è un tuono che arriva dall'infinito e passa e non c'è
più, ma è un lampo che acceca e sparge barlumi nelle infinità del cosmo: la
poesia è la ricerca di quei barlumi, delle loro tracce, dei loro significati.
“Ding” in tedesco vuol dire “cosa”. Zanzotto ha un verso, che
piaceva molto a Giovanni Giudici, che dice: “Ding Ding: cosa, chiami?”.
Le cose chiamano perché vogliono la nostra attenzione, hanno qualcosa da dirci,
su ciò che siamo, che fu prima di noi e che sarà dopo. Ogni cosa in cui
c'imbattiamo è simbolo di qualcosa che la trascende. La poesia è la rivelazione
del nucleo metafisico che sta in ciò che vediamo e che sentiamo: a suo modo,
Zanzotto è un poeta “teista”, se non vogliamo dire credente. Straziato fra la
certezza di questa rivelazione, e la difficoltà di coglierla e consegnarla (la
difficoltà di “dire”), Zanzotto è un poeta dell'impotenza, quindi della
sofferenza e della malattia: lo si è spesso spacciato per poeta della psicanalisi,
in realtà è il poeta della malattia di cui si occupa l'analisi (la malattia
della lingua, per cui la lingua non riesce a dire). Questa malattia va sotto il
nome ambiguo di “nevrosi”. La nevrosi non è malattia, ma
fonte di malattie. E il nevrotico Zanzotto è stato malato per tutta la vita, di
quel disagio psicologico che fa temere la presenza di tutte le malattie, ognuna
confluente nelle altre. Al cuore. Al pancreas. All'intestino. Alle gambe. Alla
gola. Una volta venne a casa mia, trovò in frigo tre fiale costosissime, di un
cortisonico, che mi erano state prescritte dal prof. Sala, famoso otorino di
Padova, per una interminabile infiammazione alla gola,
e mi chiese se poteva prenderle. “Ma hai male alla gola?”, “C'è sempre qualche
infiammazione in giro per l'organismo”. La mattina dopo mi telefona: se n'era
fatta una. “Risultato?”, “Mi è cresciuta l'ansia”. L'ansia è la paura senza
oggetto, se scopri l'oggetto l'ansia regredisce. Farsi un'iniezione senza
sapere di avere la malattia per cui l'iniezione è pensata, vuol dire sparare in
aria, non sul nemico. Una volta andai a prenderlo con l'auto per portarlo a un
incontro. Dovevamo fare dieci chilometri, ci mettemmo due ore. Ogni chilometro
voleva fermarsi, perché gli si “infogavano le gambe”,
che è un'espressione che non significa niente, ma allude a tutto. Lui trovò il
suo “ubi consistam” non nella (in una, in qualche) malattia ma nel “sentirsi
malato”. Se c'è un “dolore di esistere” fu il suo, per tutta la vita. Esistere
è una condizione infelice. “Esistere” vuol dire “star fuori, star lontano”.
Lontano dall'essere. Se Zanzotto fosse stato un mistico (a modo suo, lo è
stato), si potrebbe sentire il suo dolore di esistere come scaturito da una
colpa di esistere, quindi come un'espiazione. Ma se avesse raggiunto questa
posizione, avrebbe risolto il suo problema, perché sarebbe confluito in qualche
religione: in realtà la sua angoscia risale a monte di ogni religione e di ogni
“Dio”, storicamente inteso. Tentò anche l'analisi, a più riprese. Una prima
volta quand'era “in età”, ma fece poche sedute, poi abbandonò. Veramente lui
non credeva di abbandonare, credeva di aver finito. Dopo pochi mesi. Non sono
il suo analista, e rischio molto tentando un'interpretazione: era convinto di
poter avviare l'autoanalisi, che è, come si sa, l'unico modo in cui l'analisi
finisce. Ma l'autoanalisi non è una condizione culturale, e non la puoi fare
quando hai capito qualche meccanismo; è una condizione emozionale, e la puoi
fare solo dopo aver raggiunto una tua catarsi. Così più tardi, alla fine della
vita, roso dall'angoscia giorno e notte (non dormiva mai), ritornò in analisi,
non so con quale esito. Forse in lui agiva il terrore che l'analisi, facendo
regredire la nevrosi, facesse regredire anche l'humus da cui nasce la poesia. Poesia
e malattia sono la stessa cosa. Molti poeti hanno questo terrore. Va con questo
terrore la convinzione che la poesia sia figlia dei mostri, e che combattendo i
mostri si danneggi la poesia. E' un terrore ingenuo, ma fa parte del sistema
che mantiene la nevrosi. Chiuso in questo sistema, Zanzotto usava la lingua non
per dire, non per modificare, non per cambiare (se stesso o il mondo, che sono
un'unica cosa), ma per confermare. E' il poeta dell'immobilità, della stasi. In
un'epoca di aerei supersonici, è il poeta della lentezza. Tutto ciò che è
naturale è buono e benefico, ciò che è artificiale è cattivo e dannoso.
Zanzotto è il poeta della nostalgia. Del dialetto, del “petel”, delle stalle,
del “filò”. Del paesaggio arcaico. Delle stelle cadenti. Del fiume, della neve
(“alla, della perfetta”). Del lume a petrolio, che è
stato soppiantato dalla luce elettrica, che vuol dire anche Vajont.
Dell'eternità, non del tempo. Delle domande esistenziali, non sociali.
L'esistenza sta-fuori e va verso il niente. Appena il tempo di cogliere i
barlumi sparsi dal “big flash”: il flash continua, e noi siamo spariti.
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